Svolgimento del processo
1.- E.I. era dipendente della cooperativa (omissis). e addetto al servizio di movimentazione dei prodotti destinati ai punti vendita con insegna (omissis), oggetto di appalto da (OMISSIS) spa a (omissis) e da quest’ultima subappaltato alla predetta cooperativa.
In tale qualità aveva chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Benevento decreto ingiuntivo per la somma di euro 1.610,80 a titolo di retribuzione, emesso nei confronti di (OMISSIS) spa, (omissis) e (omissis), in solido fra loro.
2.- L’opposizione proposta da (OMISSIS) spa veniva rigettata con sentenza del 23/02/2017 di quel Tribunale, che condannava altresì la società a rimborsare allo E.I. le spese di lite, liquidate in euro 200,00, oltre rimborso forfettario, iva e cpa, “stante la serialità e la natura della controversia”.
3.- L’appello proposto dallo E.I. avverso il capo relativo alle spese, impugnato per asserita violazione dell’art. 4 D.M. n. 55/2014, veniva rigettato con la sentenza indicata in epigrafe.
A sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
a) l’art. 9, co. 1, d.l. n. 1/2012 convertito dalla legge n. 27/2012 ha abrogato le tariffe professionali e ha demandato al Ministro vigilante il potere di stabilire parametri ai quali il giudice è chiamato in via generale ad attenersi, ma che non hanno carattere vincolante;
b) ciò si evince anche dall’art. 1, co. 7, D.M. n. 140/2012, che espressamente dispone che “in nessun caso le soglie numeriche indicate … sia nei minimi che nei massimi per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa”;
c) l’art. 4, co. 2, D.M. n. 140/2012 dispone che “nella liquidazione il giudice deve tenere conto del valore e della natura della controversia, del numero e dell’importanza e complessità delle questioni trattate con valutazione complessiva anche a seguito della riunione delle cause, dell’eventuale urgenza della prestazione”;
d) dunque in base alle circostanze del caso concreto è consentito al giudicante procedere in aumento o diminuzione rispetto ai valori minimi e massimi riportati nelle tabelle, anche in misura diversa rispetto alle percentuali indicate nelle tabelle medesime, sempre che la statuizione sia sorretta da adeguata motivazione;
e) in tal senso è anche la Corte di Cassazione (Cass. ord. n. 17667/2018);
f) nel caso di specie, tenuto anche conto di quanto evidenziato dalla società, ossia dei numerosi giudizi monitori (ben trentaquattro) proposti da altri lavoratori contro la stessa società, dei quali era stata chiesta anche la riunione, non disposta, la determinazione del Tribunale di andare sotto la soglia minima prevista dal DM trova giustificazione nella serialità della controversia, ritenuta anche in relazione agli altri giudizi proposti presso lo stesso ufficio giudiziario, fondati sulla medesima questione giuridica;
g) dunque può ritenersi soddisfatta la motivazione richiesta dagli ermellini, che consente al giudicante di discostarsi dai minimi previsti dal D.M. invocato.
4.- Avverso tale sentenza E.I. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
5.- (OMISSIS) spa ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” del testo ratione temporis vigente degli artt. 4 D.M. n. 55/2014, 9, co. 1, d.l. n. 1/2012 (convertito dalla legge n. 27/2012), 1, co. 7, D.M. n. 140/2012, 2233, co. 2, c.c., 4 e 24 Cost. per avere la Corte territoriale ritenuta corretta la liquidazione delle spese molto al di sotto dei compensi minimi tariffari. In particolare, premesso che applicando i parametri minimi di cui al D.M. n 55/2014, le spese dovevano essere liquidate in euro 1.359,00, il ricorrente addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente applicato l’art. 9, co. 1, d.l. n. 1/2012 (convertito dalla legge n. 27/2012) e il D.M. n. 140/2012 invece del D.M. 55/2014.
Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” dell’art. 4, co. 2, D.M. n. 55/2014, per avere la Corte territoriale ritenuto che la serialità del giudizio (per la presenza di cause analoghe non riunite presso lo stesso ufficio giudiziario) integrasse una motivazione adeguata per liquidare le spese in misura molto inferiore ai compensi minimi tariffari.
I due motivi – da esaminare congiuntamente per la loro connessione – sono fondati per quanto di ragione.
Questa Corte ha affermato che il D.M. n. 140/2012, emanato ai sensi del d.l. n. 1/2012 (convertito dalla legge n. 27/2012) allo scopo di favorire la liberalizzazione della concorrenza e del mercato, a tal fine ha rimosso i limiti massimi e minimi, lasciando le parti contraenti (ossia l’avvocato ed il suo assistito) libere di pattuire il compenso per l’incarico professionale. Di contro il giudice resta tenuto ad effettuare la liquidazione giudiziale nel rispetto dei parametri previsti dal D.M. n. 55/2014, atteso il suo carattere speciale rispetto al D.M. n. 140/2012, perché detta i criteri ai quali il giudice deve attenersi nel liquidare le spese di lite (Cass. n. 21487/2018; Cass. ord. n. 16200/2019 invocate dal ricorrente). Proprio in applicazione dell’art. 4 D.M. n. 55/2014 questa Corte ha cassato una sentenza di appello che era andata al di sotto dei minimi ed ha riliquidato essa stessa le spese (Cass. n. 21487/2018 cit.).
Orbene, è esatto che in via di principio in caso di liquidazione giudiziale il giudice deve applicare i parametri dettati con decreto ministeriale, in quanto in tal senso espressamente dispone l’art. 13, co. 6, L. n. 247/2012 (“I parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell'articolo 1, comma 3, si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge”).
Tuttavia, lo stesso ricorrente ammette che sia possibile andare al di sotto dei minimi, salvo il limite di cui all’art. 2233, co. 2, c.c., ossia quello del decoro della professione.
Ed infatti, al riguardo questa Corte ha precisato che pure con il D.M. n. 55/2014 non sussiste più il vincolo legale della inderogabilità dei minimi tariffari e che tuttavia i parametri di determinazione delle spese sono pur sempre criteri di orientamento, perché individuano la misura economica standard del valore della prestazione professionale. In particolare si è affermato: “In tema di liquidazione delle spese processuali ai sensi del d.m. n. 55 del 2014, l'esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo dei parametri previsti, non è soggetto al controllo di legittimità, attenendo pur sempre a parametri indicati tabellarmente, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo in tal caso necessario che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di esso” (Cass. ord. n. 14198/2022; nello stesso senso Cass. ord. n. 89/2021).
In ogni caso il giudice è tenuto non solo a specificare i criteri di liquidazione, ma pure a dare adeguata motivazione del superamento al ribasso dei compensi minimi, fermo comunque il limite del decoro della professione, espressamente imposto dall’art. 2233, co. 2, c.c., che preclude una liquidazione di somme solo simboliche e dunque non consone al decoro della professione (Cass. ord. n. 1522/2019; Cass. ord. n. 30286/2017).
Non rileva il nuovo D.M. n. 37/2018 (come interpretato da Cass. n. 9815/2023), in quanto inapplicabile ratione temporis, essendo la sentenza di primo grado – alla quale si riferisce la controversa liquidazione delle spese processuali – risalente all’anno 2017.
Quanto alla “serialità” della causa, essa – contrariamente all’assunto del ricorrente – costituisce idoneo elemento per giustificare una riduzione del compenso anche sotto i minimi, poiché integra un aspetto della “natura” dell’affare, che rappresenta proprio uno dei criteri valutativi dettati dall’art. 4, co. 1, D.M. n. 55/2014.
Ma – come detto – resta fermo il limite del decoro della professione.
L’art. 2233, co. 2, c.c. non specifica questo limite, ma va escluso che la sua individuazione sia rimessa al prudente apprezzamento “caso per caso” del giudice del merito. Altrimenti si creerebbe non solo un’inammissibile situazione di incertezza giuridica, ma altresì il rischio di valutazioni difformi nei diversi fori, con pregiudizio della parità di trattamento, che invece è tanto più necessaria in quanto risulta implicato il decoro della professione, ossia un valore ontologicamente intrinseco alla professione, che per definizione non può essere diverso (o variabile) da foro a foro.
Pertanto il predetto limite deve essere individuato attraverso l’art. 4 della legge n. 794/1942, rubricato “Poteri del giudice nella liquidazione a carico della parte soccombente”, che al comma 2^ dispone: “Nelle cause di particolare semplicità gli onorari possono essere ridotti fino alla metà dei minimi”.
Tale norma è da ritenere ancora in vigore (Cass. ord. n. 19945/2015, che richiama l’art. 1, co. 1, d.l(omissis). n. 179/2009; Cass. n. 949/2010; Cass. 23/03/2004 n. 5802; Cass. n. 19412/2003; Cass. 03/09/2003 Cass. n. 6061/1991) e, come visto, consente la riduzione dei minimi fino alla metà.
Orbene, va evidenziato che se quella norma era applicabile in un sistema che imponeva l’inderogabilità dei minimi tariffari, a maggior ragione deve ritenersi applicabile a seguito dell’abrogazione del predetto limite di inderogabilità. La ratio di tale norma può essere allora intesa, oggi, proprio nel senso di specificare il limite del decoro della professione (solo genericamente indicato dall’art. 2233, co. 2, c.c.), qualora venga in rilievo la professione di avvocato.
Ne consegue che nel caso di specie il parametro minimo dell’onorario, pari ad euro 1.250,50, può essere ridotto fino alla metà, ossia ad euro 625,25, ma non oltre, venendo altrimenti leso il decoro della professione di avvocato.
In tal senso il ricorso va parzialmente accolto e, previo annullamento della sentenza impugnata, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, questa Corte liquida le spese del primo grado di giudizio (di opposizione a decreto ingiuntivo) in euro 625,25.
Quanto alle spese del grado di appello e del presente giudizio di legittimità, va considerato che lo scaglione della controversia è dato dalla differenza fra la somma liquidata a titolo di spese dal Tribunale di Benevento (euro 200,00) e la somma pretesa dal ricorrente (euro 2.501,00 in via principale), sicché lo scaglione è pur sempre quello del valore compreso fra euro 1.100,01 ed euro 5.200,00. Tuttavia, considerato che il valore effettivo della controversia è vicino a quello minimo dello scaglione di riferimento, l’onorario va liquidato nella misura minima rispettivamente di euro 1.387,50 e di euro 892,50.
Ne va disposta l’attribuzione come in dispositivo, tenuto conto del fatto che per i due gradi di merito i procuratori erano due, mentre nel presente giudizio di legittimità è soltanto uno, come risulta dalla procura speciale conferita per il ricorso per cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, liquida le spese del primo grado di giudizio in euro 625,25, quelle di appello in euro 1.387,50 e quelle del giudizio di legittimità in euro 892,50 oltre euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge, con attribuzione di quelle di primo e di secondo grado agli avv.ti E.B e P.E. e di quelle del giudizio di legittimità all’avv. E.B, dichiaratisi anticipanti.