Avverso tale decisione l'imputato propone ricorso per cassazione.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 25/01/2023 la Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che, a seguito di giudizio abbreviato instaurato nell'ambito del giudizio direttissimo, aveva condannato M.A. alla pena ritenuta di giustizia per un furto in abitazione aggravato, commesso in C. il 6 agosto 2022.
2. Nei confronti della citata sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del difensore avv. P., articolando due motivi, di seguito enunciati nei limiti previsti dall'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo denuncia violazione di legge e travisamento della prova con riguardo alla mancata riqualificazione del delitto consumato nel corrispondente delitto tentato.
Secondo il ricorrente, dall'esame degli atti risulterebbe che l'azione criminosa è stata svolta alla presenza e sotto la visione diretta della vicina di casa, che chiamò i carabinieri; e che i carabinieri abbiano atteso l'imputato, per alcuni minuti, fuori dell'abitazione, per intervenire solo al momento della sua uscita.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia analoghi vizi con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 625 n. 2 cod. pen.: in assenza di segni di effrazione, non sarebbe possibile addebitare l'aggravante in parola sulla base del mero possesso di un cacciavite, ritrovato nella disponibilità dell'imputato all'atto dell'arresto in flagranza.
3. Il ricorso è stato trattato, senza intervento delle parti, nelle forme di cui all'art. 23, comma 8 legge n. 176 del 2020 e successive modifiche.
Il Procuratore generale ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Anzitutto, entrambi i motivi sono reiterativi, risolvendosi nella mera riproposizione del primo e secondo motivo di appello, espressamente confutati dalla Corte territoriale con argomenti con i quali il ricorrente non si confronta.
Si tratta dunque di motivi generici in quanto difettano della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (si tratta di "genericità estrinseca": Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, in motivazione).
E' inammissibile il ricorso per cassazione che si risolva nella pedissequa reiterazione dei motivi già dedotti in appello e motivatamente disattesi dal giudice di merito: esso infatti non assolve la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di impugnazione in sede di legittimità (Sez. 5, n. 3337 del 22/11/2022, dep. 2023, Maisto, n.m.; Sez. 5, n. 21469 del 08/03/2022, Muscolino, n.m.; Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, Candita, Rv. 244181; Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, Giagnorio, Rv. 231708).
Al primo motivo di appello la Corte territoriale aveva risposto, in maniera tutt'altro che illogica, evidenziando come la vicina di casa non avesse alcuna possibilità di sorveglianza o custodia e come i carabinieri avessero bloccato l'imputato nel momento in cui stava ormai valicando il muro di cinta dell'abitazione; al secondo, evidenziando che il sistema di allarme dell'abitazione si era attivato, segno evidente del fatto che la persona offesa, prima di partire per un lungo periodo di vacanza, aveva certamente chiuso le finestre.
Con tali argomenti manca ogni confronto nel ricorso.
2. Il primo motivo di ricorso è pure manifestamente infondato nella parte in cui deduce violazione dell'art. 56 cod. pen.
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 52117 del 17/07/2014, Prevete, Rv. 261186, in tema di furto in supermercato, hanno affermato il principio secondo cui il monitoraggio della condotta in corso di esecuzione, esercitato mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce, ovvero attraverso la diretta osservazione da parte della persona offesa o dei dipendenti addetti alla sorveglianza, ovvero delle forze dell'ordine presenti nel locale, ed il conseguente intervento difensivo "in continenti", impediscono la consumazione del delitto di furto, che resta allo stadio del tentativo, in quanto l'agente non ha conseguito, neppure momentaneamente, l'autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo del soggetto passivo. In particolare, è stato rilevato come debba ritenersi acquisito che «l'impossessamento del soggetto attivo del delitto di furto postuli il conseguimento della signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva da parte dell'agente. Sicché, laddove esso è escluso dalla concomitante vigilanza, attuale e immanente, della persona offesa e dall'intervento esercitato in continenti a difesa della detenzione del bene materialmente appreso, ma ancora non uscito dalla sfera del controllo del soggetto passivo, la incompiutezza dell'impossessamento osta alla consumazione del reato e circoscrive la condotta delittuosa nell'ambito del tentativo».
Nel caso sottoposto all'attenzione delle Sezioni Unite, l'impossessamento della refurtiva era avvenuto sotto gli occhi dell'addetto alla vigilanza, che era materialmente intervenuto solo una volta che gli autori del fatto avevano superato le casse, avendo però la possibilità di interrompere prima di quel momento l'azione criminosa.
In un caso piuttosto recente, relativo ad un furto in abitazione avvenuto sotto il controllo delle forze di polizia che però, come nella fattispecie scrutinata dalle Sezioni Unite, hanno deciso di intervenire dopo l'impossessamento, la Corte di cassazione ha effettivamente ravvisato la violazione di legge nella decisione che aveva qualificato il fatto come reato consumato (Sez. 5, n. 4868 del 25/11/2021, dep. 2022, Botchorishvili, Rv. 282969), proprio perché era stato accertato che le forze dell'ordine avessero seguito a vista gli autori dell'azione criminosa, a qualche decina di metri di distanza, senza mai perdere il controllo su di loro dapprima dell'intrapresa criminale fino al momento dell'arresto, grazie ad un sistema di localizzazione satellitare. Dunque, in tal caso, la Corte ha considerato che «le forze dell'ordine ben avrebbero potuto interrompere l'attività criminosa in corso, monitorata in tutta la sua evoluzione, non potendo la discrezionalità investigativa influire sulla qualificazione della fattispecie».
Analogo è il caso esaminato da questa stessa Sezione con la sentenza n. 36216 del 23/06/2022, Canalicchio: gli operanti avevano visto l'azione furtiva (impossessamento di un'autovettura e carico della stessa su un furgone) ed erano intervenuti solo a reato consumato.
Quando, però, l'intervento delle forze dell'ordine non è in grado di impedire l'impossessamento della refurtiva da parte dell'autore del furto, per esempio perché si tratta di un intervento occasionale ovvero immediatamente successivo al fatto oppure perché le forze dell'ordine non hanno avuto la possibilità di seguire l'evoluzione dell'iter criminis, il reato è consumato.
Nei casi sopra citati, da una scelta discrezionale delle forze dell'ordine dipendeva, come ha osservato efficacemente la sentenza Botchorishvili, la qualificazione di un fatto-reato come delitto consumato ovvero come delitto tentato: situazione che si verifica quando le forze dell'ordine stesse assistano direttamente ad atti idonei e diretti in modo inequivoco a conseguire l'impossessamento (avendo la possibilità concreta di intervenire in quel momento o di attendere, senza perdere di vista l'autore del reato).
Nel caso di specie, invece, come risulta dalla sentenza impugnata, le forze dell'ordine hanno bloccato l'imputato quando questi, ormai impadronitosi della refurtiva, stava lasciando la proprietà e stava salendo sul muro di cinta per scavalcarlo.
E, del resto, «risponde del delitto di furto in abitazione consumato, e non tentato, colui che abbia conseguito l'autonoma disponibilità dei beni sottratti, uscendo dall'abitazione, sebbene sia stato poi fermato dalle forze dell'ordine prima di uscire dall'area condominiale» (Sez. 4, n. 11683 del 27/11/2018, dep. 2019, Arena, Rv. 275278).
Naturalmente, ai fini della consumazione del reato non rileva la durata dell'impossessamento, cioè della signoria sulla cosa sottratta, che può anche avere una durata minima (Sez. 5, n. 36022 del 14/07/2022, Borisov, Rv. 283649; Sez. 4, n. 13505 del 04/03/2020, Shehi, Rv. 279134) e persino non comportare l'allontanamento dal luogo di commissione del fatto (Sez. 5, n. 33605 del 17/06/2022, T., Rv. 283544; Sez. 5, n. 2726 del 24/10/2016, dep. 2017, Pavone, Rv. 269088).
Infine, deve escludersi che la mera visione dell'attività criminosa ( o di parte di essa) ad opera di una vicina di casa muti la qualificazione giuridica del fatto, non avendo ovviamente la vicina di casa alcuna possibilità di intervento o di interruzione dell'azione.
3. Come si è detto, il ricorrente non ha opposto alcun argomento alle osservazioni della sentenza di appello che ha riconosciuto la circostanza aggravante della violenza sulle cose non già, come il ricorrente reiteratamente afferma, sulla base del possesso di un cacciavite, ma sulla base di un argomento di ben diversa forza logica.
Premesso che, come non è contestato, la persona offesa si era allontanata per un lungo periodo di vacanze in Sardegna, oggetto di discussione è stata la massima di esperienza secondo la quale una persona che lasci per un lungo tempo la propria abitazione abbia normalmente cura di chiudere le finestre.
Nell'atto di appello tale massima è stata contestata come non attendibile, ma la Corte di appello, in modo logicamente corretto, ha osservato che la prova della chiusura delle finestre (e, dunque, della necessaria violenza su almeno una di esse, per poter accedere alla casa) è risultata dalla sicura attivazione dell'impianto di allarme.
4. E' appena il caso di osservare, in conclusione, che il travisamento della prova è genericamente ed inammissibilmente dedotto.
Anzitutto, nel momento in cui il ricorrente introduce il tema della valutazione scorretta di una prova (attraverso il vizio del travisamento, che comporta contraddittorietà della motivazione), il ricorso deve rispondere al requisito dell'autosufficienza. In altri termini, il ricorrente non può limitarsi ad indicare un atto, o a riprodurne alcuni passaggi, ma ha l'onere, a pena di inammissibilità, di allegarli o di trascriverli, o quantomeno di individuarli in modo inequivoco, senza peraltro costringere la Corte di cassazione ad una rilettura integrale del fascicolo:
«la condizione della specifica indicazione degli "altri atti del processo", con riferimento ai quali, l'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità, può essere soddisfatta nei modi più diversi quali, ad esempio, l'integrale riproduzione dell'atto nel testo del ricorso, l'allegazione in copia, l'individuazione precisa dell'atto nel fascicolo processuale di merito, purché detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di cassazione ad una lettura totale degli atti, dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma 1, lett. d), e 591 cod. proc. pen.» (Sez. 4, n. 3937 del 12/01/2021, Centofanti, Rv. 280384).
Nel caso di specie, il ricorrente si è limitato a citare, in calce al ricorso, pressoché l'intero contenuto del fascicolo (1. Relazione di servizio e verbale di arresto; 2. Dichiarazioni p.o.; 3. Sentenza di primo grado; 4. Dichiarazione d'appello; 5. Sentenza d'appello), senza individuare specificamente le fonti di prova rispetto alle quali si sarebbe verificato il travisamento del "significante".
Tantomeno è assolto l'onere di specificazione del carattere di decisività del vizio, cioè l'onere di dimostrare che gli elementi di prova asseritamente pretermessi, se correttamente valutati, avrebbero dato luogo ad una diversa pronuncia decisoria: solo ai giudici del merito, infatti, è devoluto «il compito di armonizzare e coordinare tra loro gli elementi di prova» (Sez. 4, n. 14732 del 01/03/2011, Molinario, Rv. 250133).
5. Il ricorso è dunque inammissibile e ciò comporta, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di euro tremila alla cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.