
Svolgimento del processo
1. M.ES. è stata tratta a giudizio dal Pubblico Ministero del Tribunale di Milano con decreto di citazione diretta emesso in data 1 luglio 2019 per rispondere dei reati di truffa (capo 1) e di esercizio abusivo della professione di avvocato (capo 2), commessi in Milano dal giugno 2015 al febbraio 2018.
2. Il Tribunale di Milano, con sentenza emessa in data 17 novembre 2021, all'esito del giudizio dibattimentale, ha condannato l'imputata per i delitti alla stessa ascritti, ritenuti avvinti dalla continuazione, alla pena di sette mesi di reclusione ed euro 11.000,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.
3. La Corte di appello di Milano, con la pronuncia impugnata, ha confermato la sentenza impugnata dall'imputata appellante, che ha condannato al pagamento delle spese del grado.
4. L'avvocato M.C., nell'interesse dell'imputata, ha presentato ricorso avverso tale sentenza e ne ha chiesto l'annullamento.
Con un unico motivo di ricorso, il difensore ha censurato sia la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., per erronea applicazione della regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio di cui agli artt. 530, 533 e 192, cod. proc. pen., che il vizio di motivazione, in quanto i giudici di secondo grado non avrebbero adeguatamente motivato relativamente alle censure dedotte con l'atto di appello. Ad avviso del difensore, infatti, non sarebbe stato raggiunto un quadro probatorio certo sul quale fondare la sentenza di condanna. In particolare, in relazione al reato di truffa, le dichiarazioni della parte civile A.C., risulterebbero incoerenti, discordanti e reticenti, con conseguente inattendibilità delle stesse.
Dall'inattendibilità della A.C. deriverebbe l'assenza di prova dei pagamenti che la persona offesa avrebbe effettuato - brevi manu - in favore dell'imputata. Inoltre, non vi sarebbe la prova dei titoli che hanno giustificato i bonifici disposti dalla persona offesa all'imputata, non essendo dimostrata la natura degli accordi intercorsi tra la ricorrente e la persona offesa.
Parimenti, sarebbe stato violato il canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio con riferimento al reato di esercizio abusivo della professione di avvocato, in quanto sarebbero inattendibili le dichiarazioni rese da P.LR. e da P.T..
Non sussisterebbe, del resto, il reato di cui all'art. 348 cod. pen., in quanto non sarebbe stata acclarata, né la mancata iscrizione dell'imputata in un apposito albo, né l'esercizio continuativo dell'attività di avvocato, posto che nessun mandato sarebbe stato conferito all'imputata dalle persone offese.
5. Non essendo stata richiesta la trattazione orale del procedimento, il ricorso è stato trattato con procedura scritta, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 28 ottobre 2020 convertito in legge n. 176 del 18 dicembre 2020, prorogato per effetto dell'art. 16, comma 1, del d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito con modificazioni dalla legge n. 15 del 25 febbraio 2022, e per le impugnazioni proposte sino al 30 giugno 2023 dall'art. 94, comma 2, del d.lgs. 10/10/2022, n. 150.
Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 22 settembre 2023, il Procuratore generale ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile, in quanto i motivi proposti sono manifestamente infondati e, comunque, diversi da quelli consentiti dalla legge.
2. Con un unico motivo di ricorso, il difensore ha censurato sia la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., per erronea applicazione della regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio, che il vizio di motivazione, in quanto i giudici di secondo grado non avrebbero adeguatamente motivato relativamente alle censure dedotte con l'atto di appello.
3. La censura formulata relativamente alla violazione della regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio è inammissibile.
La violazione della regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio di cui all'art. 533, comma 1, cod. proc. pen., non può essere dedotta con ricorso per cassazione né quale violazione di legge ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., né ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., non essendo prevista a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, ma può essere fatta valere soltanto nei limiti indicati dalla lett. e) della stessa norma, ossia esclusivamente ove la sua violazione si traduca nell'illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. (cfr. Sez. 4, n. 2132 del 12/01/2021, Maggio, Rv. 280245-01; Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, D'Urso, Rv. 270108 - 01; conf. Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 - 04, con riferimento alla violazione dei criteri fissati dall'art. 192 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 125 e 546 comma 1, lett. e) cod. proc. pen.).
Nel caso di specie, tuttavia, la ricorrente, deducendo la violazione del canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio, non censura un vizio della motivazione, in quanto il ragionevole dubbio sarebbe immanente nella ricostruzione dei fatti operata dalla sentenza impugnata, ma si duole di un'errata valutazione delle prove testimoniali assunte nel corso del giudizio dibattimentale.
La censura si risolve, dunque, in un'inammissibile sollecitazione alla rinnovata valutazione delle risultanze istruttorie del giudizio, delle quali la ricorrente propone una lettura alternativa.
La Corte di cassazione, tuttavia, nella sua qualità di giudice di mera legittimità, deve limitarsi a verificare l'esistenza e la tenuta logica della motivazione in fatto, mentre non può procedere a un rinnovato esame delle prove valutate da quest'ultima, per stabilire se l'ipotesi del ricorrente sia più plausibile di quella ivi accolta (così, ex plurimis, Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217 - 01; Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, Guernelli, Rv. 259204.).
La Corte d'Appello di Milano ha, peraltro, non certo incongruamente ritenuto attendibili le parti civili e i testimoni assunti e ha rilevato come le loro dichiarazioni fossero risultate dettagliate, coerenti e pienamente riscontrate dall'ampia documentazione acquisita.
4. Nessuna violazione di legge è, inoltre, ravvisabile nell'applicazione della fattispecie di reato di cui all'art. 348 cod. pen. alle condotte accertate dai giudici di merito.
La Corte di appello di Milano ha, infatti, non illogicamente rilevato che «l'imputata ha speso l'inesistente titolo professionale, ponendo in essere condotte tipiche dell'esercizio della professione legale» (pag. 6 della sentenza impugnata).
La sentenza impugnata ha non certo illogicamente accertato che l'imputata, indipendentemente dal conferimento di mandati scritti, si è qualificata come avvocato con le parti lese, mostrando la carta di identità che recava questa qualifica, e con i legali delle controparti; la ricorrente ha, inoltre, posto in essere continuativamente atti tipici della professione forense (la proposizione di incidenti di esecuzione e di ricorsi al TAR, la partecipazione a trattative con avvocati nel corso di un processo di separazione giudiziale, attività di consulenza legale), pur non avendo titolo alcuno per esercitare tale professione.
5. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
La ricorrente deve, pertanto, essere condannata, ai sensi dell'art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso siano stato presentato senza «versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», deve, altresì, disporsi che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.