L'ordinanza impugnata è illegittima nella parte in cui ha imposto il divieto per la popolazione sana, in particolare per quella minorenne, di uscire da casa anche per svolgere, nei pressi dell'abitazione, “attività sportiva e motoria”, in quanto non rispettava i presupposti fattuali di legge recati dal DPCM del 10 aprile 2020.
L'odierno ricorrente chiedeva l'annullamento dell'ordinanza contingibile e urgente emanata dal Presidente della Regione siciliana n. 16 dell'11 aprile 2020, lamentandone l'illegittimità nella parte in cui vietava ogni attività motoria all'aperto, anche in forma individuale, inclusa quella dei minori accompagnati dai genitori. Così facendo, infatti, veniva vietato ogni spostamento al di fuori della propria abitazione, imponendo una permanenza domiciliare assoluta, misura che, secondo il ricorrente, si poneva in contrasto con il
In definitiva, il provvedimento regionale avrebbe determinato un trattamento deteriore rispetto a quanto previsto nel resto d'Italia.
Considerando che era stata disattesa l'istanza cautelare e che il ricorso era stata dichiarato dal TAR improcedibile poiché nel frattempo era scaduto il termine di efficacia dell'ordinanza impugnata, il ricorrente si rivolge al CGA Sicilia.
Con la sentenza n. 713 del 24 ottobre 2023, il CGA Sicilia accoglie il ricorso, ricostruendo il quadro normativo vigente alla data di adozione dell'ordinanza impugnata per fronteggiare la pandemia, ovvero all'11 aprile 2020.
Per quanto riguarda i rapporti tra competenza statale e quella regionale, in particolare, il CGA evidenzia che la legislazione pandemica è stata considerata come rientrante nella prima, quindi alle Regioni restava la possibilità di stabilire solo delle misure straordinarie in tal senso. La finalità è chiara: evitare che nelle more degli aggiornamenti dei DPCM alle curve epidemiologiche potessero verificarsi dei vuoti di tutela, ma con il corollario che ogni ulteriore intervento della Regione non avrebbe potuto fondarsi legittimamente su fatti e situazioni verificatisi prima del DPCM successivo.
Come afferma il CGA, ciò è il risultato di una stretta interpretazione adottata in tema di tipizzazione delle misure potenzialmente applicabili ai fini della gestione dell'emergenza ai sensi del principio di legalità, facendo così in modo che le nuove misure fossero legate ai principi di adeguatezza e proporzionalità rispetto al rischio effettivamente presente sul territorio nazionale e sempre nel rispetto di altre garanzie, quali la temporaneità delle misure restrittive.
In tale contesto, e in definitiva, il CGA afferma che
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«l'unico spazio rimesso alle Regioni è la richiamata disciplina, ma tuttavia esclusivamente di carattere interinale, di cui all' |
Non essendosi a ciò conformata l'ordinanza impugnata, non essendo stato evidenziato alcun aggravamento rispetto alle misure statali tale da imporre misure più restrittive in Sicilia, essa va dichiarata illegittima con condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali da parte della Regione.
CGA Sicilia, sez. Giurisdizionale, sentenza (ud. 23 marzo 2023) 24 ottobre 2023, n. 713
Svolgimento del processo
1. Con ricorso e contestuale istanza cautelare, anche monocratica, proposto in prime cure, la parte qui appellante ha chiesto l’annullamento dell’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione siciliana 11 aprile 2020, n. 16, lamentando che il predetto provvedimento, nella parte in cui vietava ogni attività motoria all’aperto, anche in forma individuale, ivi inclusa quella dei minori accompagnati dai genitori (così reiterando il divieto già contenuto nella precedente ordinanza del Presidente della regione 19 marzo 2020, n. 6), inibendo ai minori ogni spostamento al di fuori dalla propria abitazione, imponeva di fatto al minore ricorrente una permanenza domiciliare assoluta.
Tale misura, secondo la parte istante, si poneva in contrasto con il DPCM 10 aprile 2020, che, invece, consentiva a tutti, e perciò anche ai minori, lo svolgimento di attività sportiva e motoria quantomeno nei pressi dell’abitazione, alla sola condizione del mantenimento della distanza di sicurezza di un metro da ogni altra persona (art. 1, comma 1, lettera f)), così determinando per i minori residenti in Sicilia un trattamento deteriore rispetto a quanto previsto nel resto d’Italia, perché più restrittivo quanto alla possibilità di esercitare le libertà costituzionali (ossia la libertà di circolazione, ma anche la libertà personale, cui l’appellante fa più volte riferimento in atti).
A sostegno del ricorso la parte ricorrente ha dedotto:
- violazione di legge, in particolare dell’articolo 3 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, e carenza di potere, per insussistenza dei presupposti normativamente necessari per la legittima adozione di misure urgenti più restrittive di quelle statali da parte della Regione;
- difetto di motivazione e manifesta illogicità del provvedimento impugnato, che peraltro assumeva a proprio presupposto un generico “aumento di contagi”, senza indicare le ragioni che giustificavano “misure coercitive” delle libertà costituzionali ancora più restrittive che nel resto d’Italia.
2. Si costituiva in giudizio l’amministrazione intimata, per resistere al ricorso.
3. Con decreto presidenziale monocratico del 17 aprile 2020, n. 458, veniva disattesa l’istanza cautelare, essendosi ritenuto che:
- la complessa vicenda sostanziale, normativa e procedimentale posta alla base dell’ordinanza impugnata e le articolate censure (anche di tipo istituzionale e ordinamentale) dedotte nel ricorso postulassero la necessità di una delibazione unicamente collegiale;
- fossero prevalenti gli aspetti di massima prudenza sanitaria e di prevenzione sottesi all’ordinanza impugnata, rispetto alle esigenze cautelari del ricorrente.
4. Con sentenza in forma semplificata, assunta in decisione alla camera di consiglio del 7 maggio 2020 fissata per la trattazione collegiale dell’istanza cautelare, il TAR ha dichiarato il ricorso improcedibile, sul rilievo che, nelle more del giudizio, fosse scaduto il termine di efficacia dell’ordinanza impugnata e da ciò deducendo che il ricorrente non avrebbe più potuto ricavare alcuna utilità dal suo annullamento.
5. In questa sede di gravame parte appellante, prima di reiterare, quanto al merito dell’atto impugnato, i motivi proposti con il ricorso di primo grado, ha dedotto in rito la violazione, da parte della sentenza gravata, degli articoli 30, comma 5, 34, comma 3, 35, comma 1, lettera c), e 60 del codice del processo amministrativo, lamentando l’erronea declaratoria di improcedibilità del ricorso resa dal TAR; nonché l’omissione di ogni pronuncia sulla domanda risarcitoria che pur era stata ab origine proposta.
6. Si è costituita anche in appello la presidenza della Regione siciliana, per resistere al ricorso e ribadire le argomentazioni difensive svolte in primo grado e difendendo le argomentazioni a sostegno della sentenza appellata. In data 20 febbraio 2023 la parte appellata ha depositato memoria per insistere in tutte le proprie difese e richieste.
7. Alla pubblica udienza del 3 marzo 2023 la causa è stata assunta in decisione.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di appello, volto a censurare la declaratoria di improcedibilità resa dal giudice di prime cure, è ictu oculi fondato e va accolto.
Nel caso di specie, non occorre nemmeno il richiamo dei principi di diritto poi affermati dall’Adunanza plenaria del C.d.S. con la recente sentenza 13 luglio 2022, n. 8 – alla cui stregua l’interesse della parte alla pronuncia sul merito del ricorso proposto va considerato persistente anche in caso di cessazione dell’efficacia dell’atto censurato, allorché “l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente” (ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 34, comma 3, c.p.a.), “se sussiste l’interesse ai fini risarcitori” (ivi), tale ultima locuzione dovendosi intendere nel senso che essa non postula alcun onere della parte ricorrente di dimostrare l’effettiva sussistenza dei presupposti per il successivo accoglimento della propria domanda risarcitoria, essendo invece sufficiente che essa si limiti a dedurre di voler introdurre successivamente (ossia entro i termini alternativamente previsti dall’art. 30, comma 5, c.p.a.) una domanda risarcitoria che ex ante non si palesi ictu oculi inammissibile – perché la domanda risarcitoria era già contenuta nel ricorso con cui il Sig. -OMISSIS-o aveva introdotto il giudizio di primo grado.
Circostanza che, con ogni evidenza, ab initio ostava a una declaratoria d’improcedibilità di detto ricorso, pur in caso di sopravvenuta inefficacia del provvedimento impugnato, salvo che il giudice avesse contestualmente delibato in senso reiettivo la già proposta domanda risarcitoria.
Sicché, nella specie, l’impugnata declaratoria in rito resa dal primo giudice, considerata nella sua inscindibile connessione con l’omesso scrutinio della domanda risarcitoria, si sostanzia quantomeno in una preclara omissione di pronuncia, anche a non considerarla affetta da profili di abnormità.
Concludendo sul punto, in accoglimento del primo motivo di appello va annullata la declaratoria di improcedibilità resa dalla sentenza annullata, con conseguente devoluzione a questo giudice di appello dei riproposti motivi di ricorso non scrutinati in prime cure per effetto di tale erronea declinatoria, essa non integrando alcuno dei casi di rimessione al primo giudice di cui all’art. 105 c.p.a..
2. I motivi dell’originario ricorso, riproposti in questa sede a mezzo del secondo motivo di appello, sono fondati e, pertanto, il ricorso deve essere pressoché integralmente accolto (fatta eccezione per il risarcimento del danno patrimoniale, perché insussistente).
3. Giova tuttavia premettere, ai fini del relativo scrutinio, la necessaria ricostruzione della normativa vigente alla data (11 aprile 2020) di adozione dell’ordinanza impugnata per fronteggiare la pandemia, nonché il collocamento di quella nel sistema delle fonti, in particolare per quanto concerne i rapporti tra le competenze dello Stato e quelle delle Regioni.
3.1. È a tutti ben noto che, in data 31 gennaio 2020, il Consiglio dei ministri, ai sensi degli artt. 7, comma 1, lettera c), e 24, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile), aveva dichiarato lo stato di emergenza sul territorio nazionale per la durata di sei mesi, «in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili».
3.2. Successivamente, era stato emanato il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, che genericamente demandava alle autorità competenti l’adozione di ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile a una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio del menzionato virus (art.1, comma 1); seguiva poi un’elencazione, all’epoca non tassativa, delle misure adottabili (art.1, comma 2). L’art. 2, comma 1, conteneva inoltre una formulazione “aperta”, autorizzando le autorità competenti ad adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19, anche fuori dei casi di cui al citato articolo 1, comma 1.
L’art. 3 regolava quindi l’attuazione delle misure di contenimento, affidandola essenzialmente allo strumento del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri; l’adozione delle misure di contenimento tramite ordinanze contingibili e urgenti del Ministro della salute, dei presidenti delle regioni o dei sindaci era infatti stata relegata ad ambiti puramente interinali e residuali, essendo consentita unicamente «nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1» e solo «nei casi di estrema necessità ed urgenza» (comma 2).
3.3. Il decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, ha abrogato il decreto-legge n. 6 del 2020, con l’obiettivo di «sottoporre a una più stringente interpretazione del principio di legalità la tipizzazione delle misure potenzialmente applicabili per la gestione dell’emergenza».
A posteriori, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza 22 ottobre 2021,-OMISSIS-, ha così ricostruito il quadro normativo dell’epoca: “Come afferma la relazione illustrativa al disegno di legge di conversione, il d.l. n. 19 del 2020 si è posto l’obiettivo di «sottoporre a una più stringente interpretazione del principio di legalità la tipizzazione delle misure potenzialmente applicabili per la gestione dell’emergenza», e tale obiettivo ha perseguito «con una compilazione che riconduce a livello di fonte primaria il novero di tutte le misure applicabili all’emergenza stessa, nel cui ambito i singoli provvedimenti emergenziali attuativi potranno discernere, momento per momento e luogo per luogo, quelle di cui si ritenga esservi concretamente maggiore bisogno per fronteggiare nel modo più efficace l’emergenza stessa»”.
“In effetti, l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 19 del 2020 stabilisce che, «[p]er contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus COVID-19, su specifiche parti del territorio nazionale ovvero, occorrendo, sulla totalità di esso, possono essere adottate, secondo quanto previsto dal presente decreto, una o più misure tra quelle di cui al comma 2»; e il comma 2 precisa, appunto, che, «[a]i sensi e per le finalità di cui al comma 1, possono essere adottate, secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso», una o più tra le misure ivi elencate, da intendersi come tipiche, per l’assenza di una clausola di apertura verso indefinite «ulteriori misure», analoga a quella contenuta nell’art. 2, comma 1, del d.l. n. 6 del 2020”.
Prosegue la Corte che la tipizzazione delle misure di contenimento – coerente con l’esigenza di assicurare il corretto rapporto tra fonti primarie e fonti secondarie – “è stata accompagnata nell’economia del d.l. n. 19 del 2020 da ulteriori garanzie, sia per quanto attiene alla responsabilità del Governo nei confronti del Parlamento, sia sul versante della certezza dei diritti dei cittadini”.
“Il d.l. n. 19 del 2020 ha invero disposto la temporaneità delle misure restrittive, adottabili solo «per periodi predeterminati», e reiterabili non oltre il termine finale dello stato di emergenza (art. 1, comma 1); ha quindi stabilito che «[i]l Presidente del Consiglio dei ministri o un Ministro da lui delegato riferisce ogni quindici giorni alle Camere sulle misure adottate ai sensi del presente decreto» (art. 2, comma 5), previsione, questa, alla quale si è anteposto in sede di conversione che, salve ragioni di urgenza, «[i]l Presidente del Consiglio dei ministri o un Ministro da lui delegato illustra preventivamente alle Camere il contenuto dei provvedimenti da adottare ai sensi del presente comma, al fine di tenere conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulati» (art. 2, comma 1); ha infine prescritto la pubblicazione dei d.P.C.m. nella Gazzetta Ufficiale e la comunicazione alle Camere entro il giorno successivo alla pubblicazione (art. 2, comma 5)”.
“La tipizzazione delle misure di contenimento operata dal d.l. n. 19 del 2020 è stata corredata dall’indicazione di un criterio che orienta l’esercizio della discrezionalità attraverso i «principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso» (art. 1, comma 2)”.
“In tal senso assume rilievo – giacché supporta sul piano istruttorio la messa in atto della disciplina primaria, rendendone più concreta ed effettiva la verifica giudiziale – quanto stabilito dall’ultimo periodo dell’art. 2, comma 1, dello stesso d.l. n. 19 del 2020, cioè che, «[p]er i profili tecnico-scientifici e le valutazioni di adeguatezza e proporzionalità, i provvedimenti di cui al presente comma sono adottati sentito, di norma, il Comitato tecnico-scientifico di cui all’ordinanza del Capo del dipartimento della Protezione civile 3 febbraio 2020, n. 630, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 32 dell’8 febbraio 2020»”.
Per quanto riguarda i rapporti tra la competenza statale e quella regionale, la legislazione pandemica è stata considerata rientrante nella materia, di competenza legislativa esclusiva statale, della «profilassi internazionale» (art. 117, secondo comma, lettera q, Cost.), ritenuta «comprensiva di ogni misura atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla», avente cioè «un oggetto ben distinto che include la prevenzione o il contrasto delle malattie pandemiche, tale da assorbire ogni profilo della disciplina» (così Corte costituzionale 12 marzo 2021, n. 37).
Sempre secondo la citata decisione della Corte, infatti, “a fronte di malattie altamente contagiose in grado di diffondersi a livello globale, «ragioni logiche, prima che giuridiche (sentenza n. 5 del 2018) radicano nell’ordinamento costituzionale l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività (sentenze n. 169 del 2017, n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002)»”.
Conseguentemente, si è affermato che le Regioni, in ragione delle attribuzioni loro spettanti nelle materie concorrenti della «tutela della salute» e della «protezione civile», possano operare a fini di igiene e profilassi anche in corso di un’emergenza pandemica; ciò, tuttavia, solo nel quadro delle misure straordinarie adottate a livello nazionale, stante il grave pericolo per l’incolumità pubblica.
3.4. Da quanto sopra, dunque, emerge chiaramente, in altri termini, che non vi può essere alcuno spazio di adattamento della normativa statale alla realtà regionale, che non sia stato preventivamente stabilito dalla legislazione statale.
Alle Regioni, ai sensi dell’articolo 3 del decreto-legge n. 19 del 2020, era infatti consentita l’adozione di una disciplina più restrittiva solo in presenza dei presupposti previsti dallo stesso articolo, che così recita: «Nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 2, comma 1, e con efficacia limitata fino a tale momento, le regioni, [n.d.r.: soltanto] in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive rispetto a quelle attualmente vigenti, tra quelle di cui all'articolo 1, comma 2, esclusivamente nell'ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l'economia nazionale».
Ciò aveva chiaramente la finalità di evitare che nelle more degli aggiornamenti dei DPCM alle curve epidemiologiche potessero verificarsi vuoti di tutela quanto a circostanze sopravvenute e non ancora considerate dall’amministrazione statale; ma con il corollario che, una volta sopravvenuta tale considerazione – presunta iuris et de iure con la pubblicazione del successivo DPCM – ogni ulteriore intervento regionali non avrebbe più potuto fondarsi legittimamente su fatti e situazioni verificatisi anteriormente a detto DPCM.
3.5. Riassuntivamente, dal quadro normativo delineato emerge con chiarezza l’obiettivo del d.l. n. 19 del 2020, di «sottoporre a una più stringente interpretazione del principio di legalità la tipizzazione delle misure potenzialmente applicabili per la gestione dell’emergenza»; nonché la necessità che tali misure, per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del SARS-CoV-2, fossero adottate sulla base dei principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente sul territorio nazionale o su specifiche parti dello stesso, nell’ambito di un sistema caratterizzato anche da ulteriori garanzie quali: temporaneità delle misure restrittive, informativa ogni quindici giorni alle Camere sulle misure adottate, illustrazione preventiva alle Camere, salve ragioni di urgenza, del contenuto dei provvedimenti da adottare, parere del Comitato tecnico-scientifico sui provvedimenti da adottarsi.
In tale quadro, l’unico spazio rimesso alle Regioni è la richiamata disciplina, ma tuttavia esclusivamente di carattere interinale, di cui all’articolo 3 del d.l. n. 19 del 2020; condizione imprescindibile per l’esercizio di tale potere è il verificarsi di un effettivo e documentato aggravamento del rischio sanitario, verificatosi successivamente all’ultimo DPCM adottato sulla base dell’articolo 2 del medesimo decreto-legge, nel cui procedimento di adozione era stata infatti prevista anche la partecipazione delle regioni (le quali, sempre secondo l’articolo 2, comma 1, del decreto-legge n. 19 del 2020, in persona dei rispettivi presidenti avrebbero anche potuto essere proponenti dell’adozione di uno o più DPCM).
3.6. Lo Stato, insomma, aveva assunto su di sé, con l’adozione di ogni nuovo DPCM, la predeterminazione delle misure da applicarsi in tutto il territorio nazionale, che pur veniva (o poteva venire) partitamente considerato regione per regione, in relazione al relativo quadro epidemiologico, lasciando alla competenza sanitaria regionale esclusivamente la disciplina di specifiche situazioni locali in ambiti infraregionali, nonché l’eventuale interinale adeguamento delle misure applicabili nell’intera Regione, ma – per queste ultime – solo ove fosse sopravvenuto il suddetto presupposto fattuale legittimante: costituito da un aggravamento epidemiologico posteriore all’emanazione dell’ultimo DPCM emanato (e, perciò, con efficacia temporalmente limitata fino a quello successivo).
Sicché, anche ove fosse presente un effettivo aggravamento del rischio sanitario, la decisione di adottare misure ulteriormente restrittive avrebbe dovuto trovare fondamento nei principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente e, comunque, sotto la continuativa vigilanza statale nei sensi e modi predetti.
Nessun ulteriore ambito di legittimo intervento sanitario durante la pandemia è stato lasciato alle singole regioni. Né, ovviamente, il fatto storico che alcune di esse si siano comunque appropriate di ambiti ulteriori di intervento – essenzialmente per ragioni “politiche”: giacché in quei momenti di panico collettivo generava paradossalmente più consenso il “proibire”, piuttosto che non il “consentire”, lo svolgimento di qualsiasi attività sociale – può aver reso legittimi tali interventi regionali.
3.7. Ciò assume particolare rilievo ove si considerino le conseguenze prodotte da alcune misure nella dialettica sempiterna tra “Autorità” e “Libertà”, in quanto incidenti sulla libertà e sulla mobilità dei cittadini, e che quindi possono consentirsi solo in presenza dei motivi di sanità che, sulla base delle previsioni di legge, legittimano la compressione della libertà di circolazione ai sensi dell’articolo 16 Cost.: la quale libertà di circolazione – diversamente da quella personale, che invece, ex art. 13 Cost., “è inviolabile” e non prevede limitazioni per motivi di sanità – può infatti essere compressa, mediante le “limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità” (o di sicurezza).
4. È in questo quadro ordinamentale che si colloca la qui impugnata ordinanza della Regione siciliana; e, tuttavia, come emerge già dal contesto normativo che si è sin qui rievocato, in termini di difformità dall’ambito previsto dalla normativa di rango (costituzionale e) primario, id est di illegittimità.
Infatti – premesso che la competenza statale esclusiva in materia di profilassi internazionale si impone anche alla Regione siciliana, giacché neanche essa può vantare un’attribuzione statutaria avente simile oggetto – in tale contesto, e alla luce dei richiamati principi, la qui impugnata ordinanza del Presidente della Regione Siciliana 11 aprile 2020, n. 16, adottata appunto il giorno successivo al DPCM 10 aprile 2020 recante “Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19” (che si è già detto essere applicabili sull'intero territorio nazionale), non può superare lo scrutinio di legittimità di questo Consiglio.
L’impugnata ordinanza non è supportata – né avrebbe potuto esserlo, in ragione dell’infinitesimo iato temporale che la separa dall’ultimo DPCM, senza peraltro menzione di alcun evento ecatombale che in ipotesi si sia verificato in tali poche ore – da alcuna delle ragioni (di sopravvenuto aggravamento del rischio sanitario) che solamente, alla luce della prefata normativa statale vigente, avrebbero potuto giustificare qualsivoglia misura integrativa del citato DPCM. Dalla lettura dell’ordinanza emerge, al contrario, una situazione pandemica sul territorio regionale meno grave (o, a tutto concedere, in linea) rispetto a quella dell’intero territorio nazionale.
Nelle premesse dell’ordinanza si dà infatti conto, genericamente, di un aumento del numero complessivo di contagi sul territorio regionale rispetto ai dati rilevati nei precedenti giorni; e, peraltro, addirittura con la precisazione che «sia apprezzabile una diffusione del contagio inferiore rispetto ad altre parti del territorio nazionale» e che grazie alle efficaci le misure di contenimento adottate dalla Regione Siciliana per contrastare il diffondersi del contagio, la Sicilia, alla luce dei dati raccolti sull'andamento dell'epidemia sin dalla fine di febbraio, «potrebbe essere la prima Regione italiana a raggiungere l'obiettivo di "zero contagi"».
Risulta dunque evidente che, in tale dichiarato contesto fattuale, nessun aggravamento rispetto alle misure statali avrebbe potuto legittimamente imporre la Regione siciliana – né le varie altre regioni che, in contesti fattuali non dissimili, perseguivano il consenso semplicemente cercando di primeggiare quanto a imposizioni di divieti alla popolazione: più spesso, e come in questo caso, contra legem, che praeter legem – la quale dunque neppure avrebbe potuto applicare, in particolare e per quanto rileva ai fini del presente giudizio, il divieto di svolgere financo quella “attività sportiva e motoria” che, almeno “nei pressi della propria abitazione”, la normativa statale ha sempre continuato a voler garantire (alla sola condizione dell’osservanza del c.d. distanziamento sociale minimo di uno o due metri tra le persone).
5. Perseguendo consapevolmente, in tal modo, un sofferto, ponderato, ma complessivamente equilibrato bilanciamento tra l’esercizio dell’autorità (giustificato dall’emergenza pandemica, ma sempre mantenuto nei limiti da essa concretamente imposti) e il rispetto della libertà dei cittadini (sub specie, in particolare, di libertà personale, che non si è mai ritenuto di potere né di volere incidere), lo Stato è giunto fino a porre in essere, in alcuni non brevi periodi, un’estrema limitazione della libertà di circolazione; ma mai, neppure nelle c.d. zone rosse, ha inteso spingere tali limitazioni fino a porre la popolazione non infetta, o non in quarantena, in condizioni sostanzialmente analoghe a quelle della detenzione domiciliare (che parimenti, ex art. 284, comma 3, c.p.p., può consentire di allontanarsi da casa, ma solo per esigenze alimentari e per motivi di lavoro): cosa che invece hanno fatto alcune regioni, tra cui anche la Regione siciliana con l’ordinanza in questa sede impugnata.
È proprio in siffatta prospettiva che si spiega come e perché lo Stato abbia sempre mantenuto aperta, per tale popolazione, la possibilità di svolgere, pur se con modalità conformate alla situazione pandemica (ossia “nei pressi della propria abitazione” e osservando il c.d. distanziamento sociale), quella “attività sportiva e motoria” che ha verosimilmente costituito l’ultimo diaframma, invero però mai violato, fra la massima compressione possibile della libertà di circolazione (imposta in base alla legge, ma per conclamati e innegabili “motivi di sanità”, ex art. 16 Cost.) e l’ablazione, sempre invece doverosamente evitata dallo Stato, della libertà personale (ablazione che l’art. 13 Cost. non prevede “per motivi di sanità”, e che perciò è preferibile ritenere costituzionalmente non consentita).
6. A completamento di detto contesto, si ricorda come, con Ordinanza del Ministro della salute 20 marzo 2020, era stato invero vietato lo svolgimento di attività ludica o ricreativa all'aperto, ma restava nondimeno espressamente consentito di svolgere individualmente attività motoria in prossimità della propria abitazione, sempre nel rispetto della distanza di almeno un metro da ogni altra persona; quindi, con il DPCM 1 aprile 2020, erano state sospese le sedute di allenamento degli atleti, professionisti e non professionisti, all'interno degli impianti sportivi di ogni tipo; finché il DPCM 26 aprile 2020, con effetto dal 4 maggio 2020, ha poi ripristinato maggiore libertà in tema di attività sportiva, in particolare consentendo di svolgere individualmente, ovvero con accompagnatore per i minori o le persone non autosufficienti, l’attività sportiva o quella motoria (non più necessariamente in prossimità della propria abitazione), purché comunque nel rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno due metri per l'attività sportiva e di almeno un metro per ogni altra attività.
7. Viceversa, non sempre è stato così per tutte le ordinanze regionali.
Certamente non lo è stato, in particolare e per quanto qui rileva, per l’ordinanza in questa sede impugnata: che, per concludere sul punto, nella parte in cui ha aggravato, in assenza dei presupposti fattuali di legge, i precetti e i divieti recati dal DPCM del 10 aprile 2020 – e segnatamente nella parte in cui ha imposto il divieto per la popolazione sana, in particolare per quella minorenne per restare nei limiti della domanda giudiziale qui riproposta, di uscire da casa anche per svolgere, nei pressi di essa, “attività sportiva e motoria” – va dichiarata illegittima.
8. È solo a proposito della concreta statuizione da rendere che può assumere rilievo (peraltro anche in relazione ai limiti della domanda proposta, per quale devoluta a questo giudice: cfr. le conclusioni dell’atto di appello, ove si chiede di “dichiarare illegittima con qualunque statuizione l’ordinanza contingibile e urgente n. 16 del 11.04.2020 del Presidente della Regione Sicilia”-na) la sopravvenuta perdita di efficacia, nelle more del giudizio, di tale ordinanza: giacché tale sopravvenienza, lungi dal consentire una declaratoria di improcedibilità del ricorso, può nondimeno rilevare, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., nel senso di limitare l’accoglimento della domanda principale all’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato, ciò bastando per scrutinare la domanda risarcitoria accessoria (né, peraltro, essendo nella specie configurabile qualsiasi interesse, neanche morale, del ricorrente al retroattivo annullamento di un atto non più efficace, dato che la declaratoria di illegittimità che qui si va a rendere è oggettivamente idonea a soddisfare anche ogni profilo morale dell’interesse azionato).
9. Ciò posto per quanto concerne la domanda annullatoria qui riproposta (nei riconfigurati termini testé indicati), è fondata e va accolta, nei sensi e limiti di cui infra, altresì la domanda accessoria di risarcimento del danno cagionato alla parte appellante dall’ordinanza in discorso.
Non può esservi luogo a risarcimento di danni patrimoniali, stante la loro insussistenza: per la duplice ragione che essi né, da un lato, sono stati in alcun modo provati dall’appellante; né, d’altro lato, potrebbero ritenersi, secondo l’id quod plerumque accidit, sussistenti nell’an ma incerti nel quantum.
Invero, trattandosi di un minorenne (classe 2009), è proprio secondo l’id quod plerumque accidit che può escludersi la sussistenza di danni patrimoniali che siano stati conseguenza immediata e diretta delle limitazioni al movimento imposte dalla qui impugnata ordinanza.
Nondimeno, quanto al danno non patrimoniale – danno morale, nella specie risarcibile anche ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., quale lesione di diritti di libertà costituzionalmente garantiti – è vero l’esatto contrario.
10. Ai sensi del combinato disposto degli artt. 2056 e 1226 del cod. civ., la liquidazione del danno non patrimoniale deve essere effettuata con valutazione equitativa.
In considerazione di ogni circostanza, ivi inclusa l’età dell’appellante – non correlabile allo svolgimento di attività lavorative, ma assai delicata sotto il profilo della crescita e della formazione psicologica dell’individuo – il Collegio ritiene di liquidare il pregiudizio patito dall’appellante nella misura di Euro 200 pro die, per tutto il periodo di vigenza dell’ordinanza impugnata (non risultando in questa sede che ne siano state impugnate di ulteriori, né precedenti, né successive).
L’ordinanza impugnata, emanata in data 11 aprile 2020, ha dispiegato efficacia (ai sensi di quanto previsto dal suo articolo 6) “dal 14 aprile 2020” e (ai sensi dell’articolo 1 della successiva ordinanza 18 aprile 2020, n. 17) solo fino alla “mezzanotte del 18 aprile 2020”, essendo stata poi sostituita da detta ordinanza n. 17/2020 (che, non essendo stata impugnata, in questa sede non rileva): sicché essa è stata in vigore per complessivi 5 giorni (dal 14 aprile 2020 al 18 aprile 2020, ambo inclusi).
Applicando il suddetto parametro risarcitorio equitativamente individuato, spetta al ricorrente un risarcimento di Euro 200 x 5 = Euro 1.000; nonché – trattandosi di un debito di valore – rivalutazione e interessi su tale importo dal 19 aprile 2020 alla data di pubblicazione della presente sentenza. Successivamente, spetteranno gli interessi legali sul coacervo fino all’effettivo soddisfo.
11. Le spese del doppio grado di giudizio seguono, secondo i principi, la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui in dispositivo, con distrazione come richiesta.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi e limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata:
1) dichiara illegittima l’ordinanza contingibile e urgente emanata dal Presidente della Regione siciliana in data 11 aprile 2020, n. 16;
2) condanna la Regione siciliana al risarcimento del danno non patrimoniale cagionato da detta ordinanza al ricorrente, liquidato in Euro 1.000 oltre accessori, come indicato in motivazione (§ 10);
3) condanna la Regione siciliana a rifondere al ricorrente le spese del doppio grado del giudizio, che liquida in Euro 6.000 oltre spese generali e accessori di legge, con rifusione dei c.u. versati; di cui un terzo per il giudizio di primo grado e due terzi per questo grado, e con distrazione di quelle per il primo grado in favore del difensore ivi costituito.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.