Secondo il nuovo arresto della Cassazione, al fine di valutare l'eventuale perdita di efficacia ex art. 300, c. 4, c.p.p., occorre fare riferimento alla pena complessivamente inflitta per tutti i reati oggetto della misura cautelare, anche nel caso in cui per uno di questi debba ritenersi superato il termine massimo di durata di cui all'art. 303, c. 4, c.p.p..
Il Tribunale del riesame di Potenza confermava l'ordinanza con la quale la Corte d'Appello aveva rigettato l'istanza volta ad ottenere la dichiarazione di cessazione della misura cautelare cui è sottoposto il ricorrente, alla luce del superamento del termine di durata previsto dall'
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale del riesame di Potenza confermava l'ordinanza con la quale la Corte di appello aveva rigettato l'istanza volta ad ottenere la dichiarazione di cessazione della misura cautelare cui è sottoposto il ricorrente, in virtù del superamento del termine di durata previsto dall'art. 303, comma 4, lett.b).
L'ordinanza impugnata dava atto che L.F. risulta tutt'ora sottoposto a misura cautelare in ordine al reato previsto dall'art. 416-bis cod.pen. (capo A), nonché per l'estorsione, aggravata ai sensi dell'art. 416-bis.l cod.pen. (capo E), mentre le restanti imputazioni, oggetto del giudizio celebrato dinanzi alla Corte di appello di Potenza, non sono tra quelle oggetto della misura cautelare.
Partendo da tale premessa, il Tribunale riconosceva che, con riguardo al reato associativo - peraltro ritenuto quale fattispecie più grave nella sentenza emessa in appello - il termine di durata della misura (pari a 4 anni) era spirato, evidenziando che L.F. era stato ritenuto mero partecipe dell'associazione e che, conseguentemente, la pena massima prevista per tale reato rientra nel limite di 20 anni in relazione al quale, in base all'art. 303, comma 4, lett.b), cod.proc.pen., è previsto il suddetto termine massimo di durata della misura.
Ciononostante, il Tribunale riteneva infondata la richiesta di cessazione della misura ritenendo che per il capo E), avente ad oggetto un'ipotesi estorsiva pluriaggravata, la pena massima irrogabile sarebbe astrattamente superiore a 20 anni e, quindi, troverebbe applicazione il più elevato termine massimo di durata della misura (pari a 6 anni), previsto dall'art. 303, comma 4, lett.c) cod.proc.pen.
2. Avverso tale ordinanza, il ricorrente ha proposto impugnazione formulando tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, deduce vizio di motivazione e violazione di legge, in relazione alla commisurazione del termine di durata prendendo a riferimento il reato di estorsione contestato al capo E), anziché quello associativo di cui al capo A), nonostante nelle sentenze di merito il reato associativo sia stato espressamente qualificato come più grave. Il Tribunale sarebbe addivenuto a tale erronea conclusione ritenendo che l'estorsione risultava aggravata ai sensi degli artt. 629, comma secondo e 628, comma terzo, n.3 cod.pen., in quanto il reato era stato commesso da appartenente ad associazione di stampo mafioso; inoltre, troverebbe applicazione anche l'aggravante ad effetto speciale prevista dall'art. 416-bis.l cod.pen., il che comporterebbe il superamento della pena massima edittale di anni 20, con conseguente applicazione del termine di custodia cautelare elevato fino a 6 anni.
Deduce il ricorrente che le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale si pongono in insanabile contrasto con l'accertamento contenuto nelle sentenze di merito, lì dove non risulta affatto l'avvenuto riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 416-bis.l cod.pen. nella determinazione dell'aumento disposto a titolo di continuazione, in relazione al capo E), il che giustificherebbe anche la ragione per cui il reato associativo è stato ritenuto più grave.
Inoltre, non si è tenuto conto che nel capo di imputazione sub E) non sarebbe espressamente indicata l'aggravante di cui all'art. 629, comma secondo, cod.pen. né, del resto, nella motivazione si dà atto della ritenuta sussistenza della stessa.
In conclusione, il Tribunale del riesame sarebbe giunto ad una indiretta reformatio in peius della sentenza di appello, sia pur ai soli fini cautelari, ritenendo - diversamente da quanto risultante in sentenza - più grave un reato che, per effetto di circostanze aggravanti sulle quali manca un'espressa motivazione, risulterebbe punito con pena maggiore rispetto a quella del reato associativo che, invece, è stato espressamente qualificato quale l'ipotesi base, rispetto alla quale sono stati disposti gli aumenti di pena.
2.2. Con il secondo motivo, deduce violazione dell'art. 300, comma 4, cod.proc.pen., evidenziando che in base a tale norma, la custodia cautelare perde efficacia quando è pronunciata sentenza di condanna, sia pur ancora sottoposta ad impugnazione, ad una pena inferiore rispetto alla durata della cautela.
Nel caso di specie, ove si seguisse il ragionamento recepito dal Tribunale, secondo cui l'unico reato in relazione al quale può ritenersi perdurante la misura cautelare (non essendo superato il termine massimo di cui all'art. 303, comma 4, cod.proc.pen.) è l'estorsione rubricata sub E), dovrebbe prendersi atto che per tale fattispecie è stato disposto un aumento a titolo di continuazione pari ad 1 anno di reclusione, ampiamente inferiore rispetto agli oltre 4 anni di custodia preventiva subita dal ricorrente.
2.3. Con il terzo motivo, infine, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al rigetto dell'istanza di revoca o sostituzione della misura in atto, avanzata in subordine per l'ipotesi in cui fosse stata accolta la dedotta perdita di efficacia.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato.
2. Il primo motivo di ricorso pone la dirimente questione relativa all'individuazione della pena edittale massima in relazione alla quale stabilire la durata della misura cautelare in atto.
In linea generale, si tratta di una problematica in relazione alla quale la giurisprudenza ha dato una univoca soluzione, ritenendo che è irrilevante la misura della pena inflitta in concreto all'imputato, poiché, l'art. 303, comma 4, cod. proc. pen. fa un chiaro riferimento alla pena stabilita dalla legge, modulando sull'entità della sanzione astratta la durata massima della misura (Sez. 5, n. 21028 del 27/03/2013, Madonia, Rv. 255482; Sez. 6, n. 27408 del 16/06/2010, Santangelo, Rv. 247779; Sez.2, n. 16752 del 21/2/2020, dep. 2021, Di Maria, Rv. 281066).
Tale principio, tuttavia, risolve una questione non del tutto sovrapponibile al caso di specie, nel quale si pone il problema di stabilire in relazione a quale dei reati, per i quali è intervenuta condanna, deve farsi riferimento per stabilire i limiti edittali di pena e, conseguentemente, la durata della misura cautelare.
Il dubbio si pone perché, sulla base dell'imputazione, il reato più grave dovrebbe individuarsi nell'estorsione pluriaggravata di cui al capo E), tuttavia, la sentenza di condanna ha individuato l'ipotesi più grave nel reato associativo di cui al capo A).
Le conseguenze in ordine alla durata della misura cautelare sono rilevanti, posto che se, si seguisse l'indicazione contenuta nella sentenza impugnata, il termine massimo sarebbe pari ad anni 4, mentre, considerando la pena prevista per l'estorsione, la sanzione edittale risulterebbe superiore a venti anni di reclusione e, quindi, anche la durata massima della custodia cautelare sarebbe pari a 6 anni.
Ciò posto, si ritiene che le argomentazioni recepite nell'ordinanza impugnata siano da condividere, lì dove sottolineano come, ai fini dell'individuazione della durata massima della custodia cautelare, non rileva il regime sanzionatorio conseguente al riconoscimento della continuazione, nell'ambito del quale il giudice di merito ha ritenuto più grave il reato associativo.
Il dato cui occorre far riferimento, infatti, è costituito dal fatto che il reato di estorsione pluriaggravato è stato ritenuto sussistente, senza che vi sia stata alcuna esclusione delle aggravanti idonea a elidere l'innalzamento dei limiti edittali oltre la soglia dei venti anni di reclusione.
In effetti, dalla lettura della sentenza di appello, non emerge affatto che le aggravanti in questione siano state escluse e, quindi, deve ritenersi che la condanna è intervenuta per il titolo di reato originariamente contestato.
È pur vero che, nel determinare la pena a seguito del riconoscimento della continuazione, il giudice del merito ha ritenuto più grave il reato associativo, ma tale valutazione - a prescindere dalla sua correttezza o meno - può rilevare solo ed esclusivamente nell'ambito del trattamento sanzionatorio, non incidendo affatto sulla qualificazione giuridica dei reati per il quale è stata pronunciata condanna.
Alla luce di tali considerazioni deve, pertanto, ribadirsi il principio secondo cui nell'ipotesi di reato continuato, per determinare il termine massimo di custodia cautelare deve aversi riguardo ai singoli reati uniti dal vincolo della continuazione e non al reato in relazione al quale sia stata determinata la pena base, ben potendo tale reato essere, in astratto, meno grave o degli altri o di qualcuno di questi (Sez.2, n. 9216 del 2/2/2017, Gallico, Rv. 269339, concernente una fattispecie sovrapponibile a quella in esame; in senso conf: Sez. 1, n. 71 del 13/01/1992, Raso, Rv. 189141).
Deve sottolinearsi, infine, che non è condivisibile la deduzione difensiva secondo cui non risulterebbe contestata l'ipotesi aggravata prevista dall'art. 629, comma secondo, cod.pen., posto che nel capo di imputazione si indica espressamente il capoverso del citato articolo.
3. Con il secondo motivo di ricorso, si sostiene che la misura cautelare dovrebbe ritenersi in ogni caso cessata, dovendo trovare applicazione il disposto dell'art. 300, comma 4, cod.proc.pen., secondo cui la misura perde efficacia nel caso in cui la durata del presofferto risulti superiore rispetto alla pena irrogata.
Partendo dal presupposto recepito nell'ordinanza impugnata, secondo cui la misura risulterebbe ancora efficace esclusivamente in relazione al reato di estorsione, dovrebbe prendersi atto che per tale reato è stata irrogata la pena di 1 anno di reclusione, ampiamente inferiore rispetto agli oltre 4 anni trascorsi dall'applicazione della misura.
La tesi non è condivisibile, dovendo trovare applicazione il consolidato principio secondo cui in caso di condanna non definitiva per reato continuato, al fine di valutare l'eventuale perdita di efficacia (ex art. 300 comma quarto cod. proc. pen.) della custodia cautelare applicata "soltanto" per il reato satellite, la pena alla quale occorre fare riferimento è quella inflitta come aumento per tale titolo (Sez. U, n. 25956 del 26/3/2009, Vitale, Rv. 243588; conf. Sez.6, n.28984 del 28/5/2013, Abbatiello, Rv.255859; Sez.U, n.l del 26/2/1997, Mammoliti, Rv. 207940).
Si tratta di un principio concernente una fattispecie diversa da quella in esame, riguardando il caso di condanna per più reati avvinti dalla continuazione, qualora "solo" per il reato satellite sia stata disposta la misura cautelare custodiale, con la conseguenza che la pena a cui occorre fare riferimento per verificare se la durata della custodia cautelare subita sia non inferiore ad essa è quella concretamente inflitta per il reato satellite cui si riferisce la custodia cautelare.
Nel caso in esame, invece, la custodia cautelare era stata applicata non solo per il reato di estorsione, ma anche per il reato associativo, con la conseguenza che nell'applicazione dell'art. 300, comma 4, cod.proc.pen. non può tenersi conto della sola pena disposta a titolo di continuazione, ma dell'intera sanzione irrogata, proprio perché la custodia cautelare concerneva sia il reato base, sia il reato satellite (in tal senso, in motivazione, Sez.6, n. 37701 del 12/7/2023, Lazri, n.m.).
Si tratta di una soluzione che, peraltro, risponde alla ratio dell'art. 300, cod.proc.pen., finalizzato ad adeguare la durata della custodia all'effettiva ritenuta gravità del fatto e alla pericolosità dell'imputato, che deve logicamente tenere conto della pena complessivamente inflitta per tutti i reati per i è stata disposta la misura, senza tener conto delle singole componenti della pena inflitta.
3.1. Tale principio non può essere diversamente modulato valorizzando la circostanza che, nel caso in esame, la misura cautelare per uno dei reati posti in continuazione è cessata per superamento del diverso termine di cui all'art. 303, comma 4, cod.proc.pen.
La funzione degli artt. 300 e 303 cod.proc.pen. non è sovrapponibile. L'art. 300, comma 4, cod.proc.pen., infatti, si limita ad attuare il principio per cui la misura cautelare - stante la sua funzione strumentale - non può eccedere la durata della pena irrogata e, quindi, fa necessariamente riferimento alla pena nel suo complesso irrogata.
I termini di durata massima di cui all'art. 303 cod.proc.pen., invece, rispondono alla diversa ratio volta a predeterminare la durata della misura cautelare in relazione alle fasi del giudizio, senza che ciò comporti un rapporto diretto tra durata della misura e pena concretamente irrogata, tant'è che l'art.303, comma 4, cod.proc.pen. prende a riferimento i limiti edittali di pena e non già la pena concretamente irrogata.
Del resto, volendo diversamente interpretare i rapporti tra i predetti istituti, si porrebbe il problema dello scomputo del presofferto rispetto al reato per il quale la misura debba intendersi cessata ex art. 303, comma 4, cod.proc.pen. Ove pure si applicasse tale regola, dovrebbe rilevarsi che, nel caso in esame, per il reato di cui all'art. 416-bis cod.pen. è stata irrogata la pena di 12 anni, rispetto alla quale, quindi, la durata della misura cautelare subita è ampiamente inferiore.
Ne consegue che, ove si seguisse la tesi della difesa, si farebbe cessare la misura cautelare ai sensi dell'art. 300, comma 4, cod.proc.pen. nonostante la durata della misura sia ampiamente inferiore rispetto alla pena irrogata per il reato base, imputando il presofferto non già a tale reato, bensì solo a quello posto in continuazione.
In buona sostanza, affermare che la durata della custodia cautelare presofferta è superiore rispetto alla durata per la pena inflitta per il reato satellite, implicherebbe una non consentita imputazione della durata della custodia cautelare ad uno solo dei titoli custodiali, senza tener conto delle pene irrogate per gli altri reati ugualmente oggetto della misura cautelare.
In conclusione, pertanto, deve affermarsi il principio secondo cui in caso di condanna non definitiva per reato continuato, al fine di valutare l'eventuale perdita di efficacia ex art. 300, comma 4, cod. proc. pen., occorre fare riferimento alla pena complessivamente inflitta per tutti i reati oggetto della misura cautelare, anche nel caso in cui per uno di questi debba ritenersi superato il termine massimo di durata di cui all'art. 303, comma 4, cod.proc.pen.
4. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato, risolvendosi nella reiterazione di argomentazioni in tema di perdurante sussistenza dei presupposti applicativi della misura che risultano adeguatamente vagliati nell'ordinanza impugnata. L'intervenuta conferma in appello della sentenza di condanna, l'esposizione di condotte dimostrative di una apprezzabile propensione a delinquere, sono elementi che - sia pur sinteticamente - sono stati correttamente valorizzati al fine di ritenere la perdurante sussistenza delle esigenze cautelari, anche a voler tacere il fatto che, stante la condanna per il reato di cui all'art. 416- bis cod.pen., opera la doppia presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della sola custodia in carcere.
5. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94-ter, disp.att., cod.proc.pen.