Tramite la nota piattaforma, invia ad alcuni amici un filmato in cui viene ripreso mentre corre nudo di sera tra la neve in un bosco. Secondo il Consiglio di Stato, tale comportamento è idoneo a determinare un discredito per la Polizia di Stato.
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza (ud. 23 maggio 2023) 28 novembre 2023, n. 10177
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
1. Il signor -OMISSIS-assistente capo coordinatore della Polizia di Stato, ha proposto il ricorso n. -OMISSIS-dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Friuli - Venezia Giulia per l’annullamento del decreto del Capo della Polizia - Direttore generale della pubblica sicurezza n. 333-D/65426 (prot. n.-OMISSIS-) del 9 ottobre 2018, notificatogli il 22 ottobre 2018, con cui gli è stata applicata la deplorazione, nonché per l’accertamento dell’illegittimità dell’imputazione a “congedo straordinario”, “congedo ordinario”, “aspettativa per malattia” e “legge 104” del periodo di estromissione dal posto di lavoro dal 26 marzo 2018 al 12 maggio 2018.
In particolare l’interessato ha contestato la sanzione disciplinare della deplorazione, emessa nei suoi confronti ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. 737/1981 in conseguenza di un video diffuso sull’applicazione di comunicazione telematica “Whatsapp”, in cui egli era visibile mentre correva nudo di sera tra la neve in un bosco.
Il procedimento disciplinare prodromico alla predetta sanzione era stato avviato dopo aver accertato l’assenza in capo all’assistente capo di patologie neuropsichiatriche e previa sua sospensione cautelare dal servizio dal 26 marzo 2018 al 12 maggio 2018.
1.1. Il Ministero dell’interno si è costituito nel giudizio di primo grado, resistendo al ricorso.
2. Con l’impugnata sentenza n.-OMISSIS- 2010, il T.a.r. . ha respinto il ricorso e ha compensato tra le parti le spese di lite.
3. Con ricorso ritualmente notificato e depositato – rispettivamente in data 22 febbraio 2021 e in data 17 marzo 2021 – il signor -OMISSIS- ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza, riproponendo i motivi svolti in primo grado e articolando poi specifiche sette censure, sostanzialmente inglobanti anche quelle di primo grado.
4. Il Ministero dell’interno si è costituito in giudizio, depositando una memoria di costituzione e chiedendo il rigetto del gravame.
5. In vista dell’udienza di discussione il Ministero ha depositato memoria e il ricorrente ha depositato memoria di replica, con cui le parti hanno ulteriormente illustrato le proprie posizioni e insistito sulle proprie tesi.
6. La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 23 maggio 2023.
7. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e in diritto.
8. Tramite il primo motivo d’impugnazione, l’appellante ha lamentato, richiamando il terzo e quarto motivo sollevato in primo grado, «eccesso di potere per travisamento dei fatti, errata e carente valutazione dei fatti. Contraddittorietà, carenza di motivazione, erronea valutazione dell’elemento soggettivo, erronea definizione ed applicazione del comune senso del pudore e del decoro, erronea definizione ed applicazione del senso del decoro e del prestigio dell’Istituzione e sulla violazione del principio di proporzionalità e dei casi in cui può essere inflitta la deplorazione. Assoluta erroneità della sentenza per contraddittorietà della motivazione. Violazione dell’art. 2 della Costituzione, violazione dei diritti della personalità dell’appellante. Violazione dell’art. 97 della Costituzione. Assenza di qualsiasi disvalore sia nella partecipazione all’attività sportiva sia nell’averla parzialmente ripresa in un video inviato riservatamente a quattro amici».
In particolare l’interessato ha sostenuto che: non avrebbe «fatto nulla di male», essendosi limitato a partecipare, all’estero, ad una competizione sportiva “estrema” che prevede la corsa dei partecipanti di notte nella neve completamente nudi; l’attività è stata svolta «nell’ambito della propria vita privata, al di fuori dell’orario di servizio e senza in alcun modo palesare né la propria identità né la propria appartenenza alla Polizia»; si è trattato solamente di una ripresa con il cellulare effettuata da sé, a cui è seguito l’invio del filmato a pochi amici; il video non sarebbe indecoroso o lesivo del pudore siccome le parti intime non sono visibili e le riprese sono state fatte da lontano; la «completa nudità non deve essere fraintesa (come violazione del pudore o esibizionismo) ma deve essere valutata alla luce del contesto»; la circostanza che gli amici, improvvidamente e senza il suo consenso, abbiano diffuso il video, che poi è giunto a conoscenza dei superiori, non era prevedibile e comunque esso appellante «non può essere chiamato a rispondere di iniziative di terzi»; i superiori abbiano erroneamente ipotizzato «un disturbo psicofisico» e che lo abbiano sospeso dal servizio e sottoposto a una valutazione psicofisica, ipotizzando «del tutto erroneamente, disturbi mentali o l’abuso di sostanze stupefacenti»; la sanzione della deplorazione sarebbe stata adottata sull’errato presupposto di un «grave mancanza attinente alla disciplina o alle norme di contegno», condiviso erroneamente dal T.a.r., in quanto entrambi avrebbero «esaminato e valutato gli eventi in modo del tutto errato e di parte, valorizzando alcuni elementi e trascurando completamente tutte le argomentazioni difensive dell’interessato, con ciò violando chiaramente il principio di imparzialità» e non avrebbero tenuto conto che si trattava di un’attività sportiva e che il video non era stato postato su una piattaforma pubblica, bensì soltanto inviato ad alcuni individuati soggetti mediante l’applicazione “Whatsapp”; la ripresa non sarebbe stata effettuata con «finalità goliardica ed esibizionistica», essendo egli stato “Forse (…) un po’ orgoglioso della propria prestazione sportiva ma non l’ha resa pubblica, l’ha condivisa solo con alcuni selezionati destinatari»; che tale condotta non potrebbe integrare gli estremi di una «grave mancanza attinente alla disciplina o alle norme di contegno»; in forza dell’art. 2 della Costituzione, sebbene che gli appartenenti alle forze di polizia subiscono dei limiti all’esercizio dei diritti della personalità, essi devono essere proporzionati e motivati da reali esigenze di interesse pubblico; non vi sarebbe stata alcuna volontà esibizionistica né l’intento di urtare riservatezza e pudore, richiamando sul punto un precedente di questo Consiglio (sezione III, sentenza 21 febbraio 2014, n. 848), con cui è stata dichiarata illegittima una sanzione disciplinare per l’ipotesi di pubblicazione da parte di un poliziotto di immagini afferenti alla propria identità sessuale collocate in una sezione della pagina della piattaforma “Facebook” accessibile solo previo accreditamento dell’utente; sarebbe incomprensibile la ragione per la quale «la visione del video dovrebbe oggettivamente gettare discredito sull’Istituzione, tenuto anche conto del fatto che non vi è alcun riferimento nel video all’attività professionale svolta e quindi all’istituzione medesima».
Nella memoria di replica l’appellante ha altresì specificato che «La Polizia di Stato deve tutelare la possibilità di esercitare i propri diritti e non sanzionarne l’esercizio. I diritti della personalità dei pubblici funzionari possono essere limitati solo nella misura in cui un tanto sia indispensabile allo svolgimento del servizio. Sul punto non vi è stata né ponderazione di interessi né motivazione», richiamando sul punto anche la sentenza del T.a.r. per la Liguria n. 27 luglio 2022, n. 268, e che «Si è trattato di un comportamento, quello posto in essere dal sig. -OMISSIS-confinato nella vita privata e né illecito né disdicevole. La sanzione inflitta è pertanto ingiustificata e sproporzionata perché si tratta di una sanzione molto afflittiva. Non si comprende perché trattandosi di attività lecita diffusa da terzi si è ritenuto di non emettere la sanzione più lieve inerente un richiamo orale o scritto o, al massimo, una pena pecuniaria».
Tali censure sono infondate.
In proposito va premesso che in materia disciplinare l’amministrazione esercita un’amplissima discrezionalità tecnica, sicché il giudice amministrativo non può sindacare le valutazioni discrezionali compiute dall’organo disciplinare in ordine al convincimento sulla gravità delle infrazioni e alla conseguente sanzione da infliggere, nemmeno sotto il profilo del rispetto del principio di proporzionalità, salvo che non siano affette da palese travisamento dei fatti, manifesta illogicità, notevole e evidente sproporzione e abnormità. Le norme relative al procedimento disciplinare, infatti, sono necessariamente comprensive di diverse ipotesi e, pertanto, spetta all’amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità (cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, sezione II, sentenze 31 marzo 2023, n. 3325, 20 febbraio 2023, n. 1724, 7 novembre 2022, n. 9756, 14 giugno 2022, n. 4858, 20 maggio 2022, n. 4012 e 21 marzo 2022, n. 2004; Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 29 marzo 2021, n. 2629 e 22 marzo 2021, n. 2428).
Ciò posto, si osserva che l’amministrazione, come puntualmente evidenziato dal T.a.r. con motivazione congrua e aderente ai fatti di causa e che il Collegio condivide, ha valorizzato elementi che «effettivamente militano a favore di una predestinazione del video alla visione di soggetti terzi, fin dal momento della sua ripresa, come l’essersi il ricorrente volontariamente auto-filmato e il suo rivolgersi ad un ipotetico pubblico di spettatori», cosicché la condotta dell’interessato è stata reputata in modo non illogico né abnorme, riconducibile all’elenco di fattispecie punibili con la deplorazione recata dall’art. 5, comma 1, del d.P.R. n. 737/1981 e in particolare all’ipotesi di cui al numero 3) della predetta disposizione («le gravi mancanze attinenti alla disciplina o alle norme di contegno»).
Del tutto irrilevanti ai fini della valutazione del comportamento sono le deduzioni sulle ragioni (competizione in uno sport “estremo”) e sulla percezione della nudità in alcuni contesti culturali.
L’unico ed esclusivo elemento preso in considerazione è stato la predestinazione del video a soggetti terzi, che non può che non deporre per un intento goliardico ed esibizionistica, incompatibile, come rappresentato dal Consiglio di disciplina, con «il riserbo e la compostezza che ogni appartenente alla Polizia di Stato dovrebbe avere» e rivelante «un atteggiamento in grado di urtare la riservatezza ed il pudore».
Parimenti non ha rilievo il fatto che l’attività sportiva attiene alla sfera privata e che la condotta non si sia svolto in servizio, giacché, qualora un’attività ovvero un comportamento o un atteggiamento vengano divulgate, esse non appartengono più alla sfera privata. Ad ogni modo, i contegni assunti nella sfera privata dagli appartenenti alle forze dell’ordine ben posso assumere rilevanza disciplinare, in quanto, ai sensi dell’art. 13, comma 2, del d.P.R. n. 782/1985 (recante il regolamento di servizio dell'Amministrazione della pubblica sicurezza), «Il personale anche fuori servizio deve mantenere condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni», cosicché «L’appartenenza al Corpo di Polizia impone di uniformare la propria condotta, anche al di fuori servizio, ad uno stile di vita che sia irreprensibile quanto al decoro, all’immagine offerta ai consociati, all'osservanza dei valori ordinariamente percepiti dalla comunità sociale» (Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 4 luglio 2011, n. 3963).
La condotta sanzionata ha inoltre certamente cagionato un discredito per l’amministrazione, considerato che il fatto che il dipendente non fosse riconoscibile nel video quale appartenente alla Polizia di Stato, atteso che il discredito alla Polizia di Stato può determinarsi anche tramite la visione del filmato da parte di chi conosca personalmente il protagonista e in particolar modo i suoi colleghi o gli abitanti di -OMISSIS-, evidenziato peraltro che, come correttamente puntualizzato dal T.a.r., «sotto questo profilo non giova la valorizzata “notorietà” locale dello stesso ricorrente, più volte distintosi con azioni meritevoli di menzione sulla stampa locale».
Il riferimento alla sentenza di questo Consiglio n. 848/2014, oltre a non essere chiaramente vincolante per il Collegio, non è collimante con il caso di specie, in quanto nel precedente richiamato è stato precisato «l’accesso al profilo personale è possibile solo a chi conosca lo username dell’interessato, il quale funziona da filtro per l’accesso, e che non può ritenersi, pertanto, indiscriminatamente visitabile da chiunque, ma rivolto essenzialmente a “conoscenti”, che abbiano appunto la “chiave” di accesso (lo username). All’apertura del profilo compariva, come già ricordato, una foto di donna non riferibile al Sig (…), nonché alcune delle altre foto, raffiguranti il mezzobusto del ricorrente (…) erano visionabili solo dopo l’accesso; a ciò va aggiunta l’altra modalità, ossia che altre foto, che presentano “parti di corpo in abiti succinti”, queste senza dubbio più suscettibili di urtare la riservatezza ed il pudore, erano visionabili solo su specifica autorizzazione dell’interessato», mentre nella fattispecie in esame l’interessato ha perso il controllo del filmato che tramite la piattaforma “Whatsapp” può essere fisiologicamente e strutturalmente inviato ad altri soggetti, che a loro volta posso ulteriormente inviarlo, così come i successivi destinatari, secondo uno schema di propagazione esponenziale tendenzialmente illimitato.
Anche il su citato richiamo al precedente del T.a.r. per la Liguria non è pertinente, trattandosi di un caso inerente al clamore mediatico di una relazione sentimentale tra un poliziotto e una minorenne, da cui era scaturito un procedimento penale (poi archiviato), mentre nella fattispecie oggetto del presente giudizio l’amministrazione non ha stigmatizzato una scelta di vita relativa alla sfera intima e personale del dipendente, bensì un suo atteggiamento esibizionistico, contrario ai doveri di riserbo e compostezza, propagato all’esterno e fuori dal suo controllo.
Tanto delineato, nel caso di specie non si riscontra alcuna abnormità della valutazione, perfettamente aderenti ai fatti e congruente (e comunque non palesemente sproporzionata) rispetto alla gravità della condotta, sensatamente non mitigabile con i precedenti di servizio dell’interessato e altre circostanze soggettive. La sanzione della deplorazione – connotata da un’afflittività nettamente inferiore rispetto alla sospensione dal servizio o addirittura con la destituzione – è stata dunque coerentemente motivata e, in ogni caso, essa non è irragionevole.
9. Mediante la seconda doglianza, la parte privata ha dedotto che «Sulla carenza e contraddittorietà della valutazione dei fatti si veda anche la circolare n. 555 del Ministero dell’Interno del 25.10.2019 sull’utilizzo di social network e di applicazioni di messaggistica da parte degli operatori della Polizia di Stato», precisando che «Il Ministero dell’Interno ha emesso la circolare richiamata in epigrafe dopo l’adozione dei provvedimenti impugnati. Essa è tuttavia interessante perché indica in via astratta una serie di comportamenti che gli appartenenti alle forze di pubblica Sicurezza devono evitare quando utilizzano i “social”, vi è quindi una sorta di elenco astratto di condotte riprovevoli».
Detta censura è infondato, in quanto, da un lato, in via pregiudiziale e in via assorbente ogni ulteriore considerazioni sul punto, la circolare è successiva ai fatti di causa e soprattutto all’adozione della sanzione e, dall’altro, comunque e per completezza, essa non è fonte del diritto, potendo venire in rilievo soltanto come elemento di un eventuale indice sintomatico di eccesso di potere, che, comunque, va in concreto escluso siccome detta circolare prevede un elenco, per sua intrinseca natura non tassativo, di comportamenti che gli appartenenti alle forze di pubblica sicurezza devono evitare nella utilizzazione dei cosiddetti “social network”, tra cui non compare il comportamento tenuto dall’appellante soltanto perché strutturalmente diverso – e più grave – di quelli elencati.
10. Attraverso il terzo motivo di gravame l’appellante ha argomentato «Sulla diffusione del video ad opera dei colleghi contro la volontà dell’odierno appellante», deducendo che il T.a.r. avrebbe errato nel reputare che «il ricorrente doveva prefigurarsi anche i possibili rischi derivanti dal “fattore umano” (notoriamente l’anello debole della sicurezza informatica), cioè dal comportamento dei destinatari» e asserendo che erroneamente egli è stato sanzionato per non ha previsto tale eventualità e in forza di un comportamento altrui.
Tale doglianza è infondata, poiché, come correttamente evidenziato dal T.a.r., la condotta dell’interessato è una stata certamente imprudente e, dunque, di connotazione colposa, avendo, infatti, egli trasmesso, senza precauzioni e senza alcuna effettiva necessità, il filmato a più soggetti, sebbene di sua fiducia, a mezzo della piattaforma “Whatsapp”, il cui utilizzo espone a un fisiologico rischio di diffusione incontrollabile dei contenuti, a nulla rilevando che detta piattaforma sia abbastanza impermeabile ad attacchi informatici esterni, essendo comunque prefigurabile, alla stregua di un canone di ragionevole precauzione, colposamente non rispettato dall’assistente capo, un comportamento di successiva propagazione a terzi del filmato da parte dei destinatari.
11. Con la quarta censura l’interessato ha insistito «Sulla violazione del principio di proporzionalità», lamentando che l’amministrazione non avrebbe valutato la sua lunga carriera del ricorrente, la liceità della condotta, l’assenza di responsabilità nella diffusione, l’attinenza alla vita privata dei fatti contestati, né avrebbero precisato, come anche il T.a.r., le motivazioni per cui vi sarebbe stata una grave mancanza alle norme di contegno.
Siffatto motivo è infondato, giacché l’aver trasmesso il video a dei colleghi non poteva non essere considerato comportamento irrispettoso di quella compostezza e sobrietà cui l’appartenente alle forze dell’ordine deve improntare la propria condotta, a prescindere dalla sua liceità. D’altra parte, la lunga e meritoria carriera è stata tenuta in considerazione dell’amministrazione, la quale, invero, per tale ragione ha applicato una sanzione maggiormente mite (la deplorazione) rispetto a quella inizialmente prospettata (destituzione).
12. Tramite il quinto motivo l’appellante ha sostenuto la «tardività dell’avvio del procedimento disciplinare», specificando che erroneamente il T.a.r. ha affermato che il ritardo sia ragionevolmente giustificazione dalla necessità di accertare previamente l’idoneità psicofisica dell’interessato, da cui potevano derivare conseguenze sulla validità del procedimento disciplinare (che postula una piena capacità di autodeterminazione dell’incolpato) e sulla possibilità di permanere in servizio.
Al riguardo il dipendente ha asserito che il dubbio sul proprio equilibrio psicofisico si è rivelato del tutto infondato, con la conseguenza che il procedimento sarebbe tardivo, non potendosi considerare giustificabile il ritardo nell’avvio per la necessità di previamente verificare la lucidità dell’incolpato, trattandosi di un’ipotesi non prevista dalle norme che regolamentano il procedimento disciplinare.
Detta contestazione è infondata, poiché la legittimità della scelta di effettuare accertamenti psicofisici non può essere vagliata a posteriori e in base all’esito negativo degli stessi accertamenti (che hanno escluso disturbi di natura psichiatrica e la dedizione all’assunzione di sostanze stupefacenti); tale esito, invero, non implica che non vi fosse un ragionevole dubbio iniziale, giustificato dal principio di precauzione, considerato che l’eccentricità dell’accaduto ha fatto sorgere congruamente nell’amministrazione l’esigenza di verificare le condizioni di salute mentale del dipendente e che i relativi approfondimenti sono stati nell’esclusivo interesse di questi.
13. Con la sesta doglianza l’interessato ha dedotto la «violazione dell’art. 13 comma 4 D.P.R. 737/1981», sostenendo l’erroneità di quanto affermato dal T.a.r. circa la maggiore garanzie offerte dalla procedura adottata dall’amministrazione (e inerente alle sanzioni della sospensione del servizio e della destituzione) rispetto a quella che sarebbe stata sufficiente per la più lieve sanzione in concreto comminata (deplorazione), in quanto «per infliggere la deplorazione debba essere sentita anche la commissione consultiva di cui all’art. 15 e un tanto non è avvenuto».
Tale motivo è infondato, poiché, essendo il meno ricompreso nel più, la regolarità formale di un procedimento non può a posteriori essere inficiata dal suo esito qualora, come nel caso di pecie, il procedimento adottato sia più gravoso per l’amministrazione e soprattutto più garantista per l’incolpato, oltre che inizialmente obbligato alla luce delle contestazioni formulate che avrebbero potuto condurre alla irrogazione di una sanzione molto più severa.
14. Mediante la settima censura l’appellante ha argomentato «Sulla natura della disposta sospensione dal servizio», sostenendo, in sintesi, che «Contrariamente a quanto affermato dal TAR vi è tutto l’interesse del sig. -OMISSIS- ad un riconoscimento dell’inesistenza dei presupposti (una patologia della sfera neuropsichiatrica) sulla base dei quali è stato sospeso. Vi è un interesse, quanto meno morale, al riconoscimento che non ha mai sofferto di patologie della sfera psichiatrica che lo rendevano inidoneo al servizio. E’ stato esautorato dal servizio per un dubbio relativo all’esistenza di una patologia che è stata assolutamente esclusa dal Centro di Neurologia e Psicologia Medica -OMISSIS- (…) Vi è quindi l’interesse a che il periodo in cui è stato sospeso non sia riconducibile ad una patologia in effetti non sussistente (…) Nella sentenza appellata si afferma che vi sarebbe doverosità della sospensione dal servizio in presenza di dubbi sulla salute mentale del personale di polizia. In effetti però il medico della Polizia non ha accertato alcun sintomo né effettuato alcuna diagnosi e inoltre non si è limitato a prevedere un’inidoneità parziale a determinate funzioni (che magari avessero previsto l’uso di armi) ma ha stabilito una radicale sospensione dal servizio di circa 45 giorni».
Il suddetto motivo è infondato, in quanto, da un lato, la qualificazione dei periodi di sospensione dal servizio come «congedo straordinario per malattia» (dal 26 marzo 2018 al 1° maggio 2018) e «aspettativa per malattia» (dal 2 maggio 2018 all’11 maggio 2018) non hanno provocato alcun danno all’interessato, stante l’integrale percezione della retribuzione e la computabilità ad ogni effetto (tra cui progressione di carriera e aumenti stipendiali ecc.) dei relativi intervalli temporali ai sensi degli articoli 40 e 68 del d.P.R. 3/1957 e, d’altro lato, comunque la sospensione dal servizio è stata sostanzialmente doverosa in presenza di ragionevoli dubbi sulla salute mentale del dipendente, con conseguente necessità di attribuire un regime giuridico a tale periodo, indipendentemente dal concorso della volontà dell’interessato.
15. In conclusione l’appello va respinto.
16. La peculiarità della vicenda giustifica tra le parti le spese processuali del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 2456 del 2021, come in epigrafe proposto, lo respinge; compensa tra le parti le spese di lite del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento U.E. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità del ricorrente, nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelarne lo stato di.