La premorienza è un'evenienza incerta anche ove il donante versi in condizioni di malattia irreversibili, e non si può escludere che il donatario premuoia per cause accidentali. Lo scopo dell'atto è quello di assicurare il trasferimento delle quote sociali e non di eludere il divieto di patti successori.
La controversia trae origine dalla richiesta di un padre di dichiarare la nullità, per violazione del divieto dei patti successori, della donazione sotto condizione sospensiva di premorienza del donante effettuata in favore della sorella, avente ad oggetto le sue quote dell'azienda agricola. Dopo la morte del fratello (e della...
Svolgimento del processo
1. La presente controversia trae origine dalla domanda con cui G.M. aveva chiesto al Tribunale di Pordenone di dichiarare la nullità, per violazione del divieto dei patti successori, della donazione sotto condizione sospensiva di premorienza del donante effettuata da M.P. (cui era stata da tempo diagnosticata una malattia, ormai giunta in fase terminale) in favore della sorella S. nel maggio 2002, avente ad oggetto le quote della Azienda Agricola P. s.a.s. di V. e L. P. & C. e della Azienda Agricola M. s.a.s. di V.P. & C. (queste ultime gravate da usufrutto materno). La donataria aveva, in pari data, donato al fratello le proprie quote della Azienda P., sotto condizione sospensiva della propria premorienza. Nell’agosto 2004 M.M era deceduto e la sorella era divenuta esclusiva titolare delle quote sociali anche a seguito del decesso della madre, precedente usufruttuaria.
G.M. aveva, inoltre, chiesto di essere dichiarato unico erede del figlio e di condannare la convenuta al pagamento del controvalore delle quote che nel frattempo quest’ultima aveva ceduto a terzi, per un importo di € 4.071.900,00, oltre accessori dalla domanda.
S.M resisteva, sostenendo che, dopo la morte di M, era stata sciolta la comunione ereditaria e i rapporti successori erano stati definitivamente regolati mediante a) un “atto di assegnazione di beni immobili” di data 22.10.2004, con cui le parti, incluso G.M., avevano accettato gli atti dispositivi compiuti in vita dal defunto, rinunciando all’azione di riduzione, e M.M aveva rinunciato a «tutti gli altri beni immobili posseduti da M.», impegnandosi a rinunciare all’eredità del fratello «relativamente alla quota di beni immobili di cui al presente atto, eventualmente di spettanza», sì da consentirne l’accettazione del solo G.M.; b) un “atto di assegnazione di beni mobili” di data 10.1.2005, con cui le parti avevano dato «per regolata e definita ogni controversia esclusivamente in relazione ai beni sopra indicati, senza che sorgessero ulteriori diritti a compensazioni, versamenti, conguagli in denaro tra le parti»; c) un atto di ripartizione spese e rimborso ASL” del 10.1.2005, con il quale, premessa l’avvenuta definizione dei «rapporti inerenti alla quota immobiliare di spettanza di ciascun erede nonché alle quote di partecipazione nelle aziende agricole P. s.a.s. e M. s.a.s.», G.M. e V.P. si erano accollati al 50% «le spese sostenute ed i rimborsi pervenuti»; d) un “atto riepilogativo” con il quale, sempre in data 10.1.2005, G.M., V.P. e S. M P. avevano dichiarato di «di aver sciolto la comunione ereditaria su tutti i beni mobili e immobili di proprietà o nel possesso di M., di aver definito spese e rimborsi e dunque ogni e qualsiasi controversia presente e futura avente per oggetto la massa ereditaria, senza che nessuno possa pretendere o rivendicare in futuro ulteriori diritti a compensazioni, versamenti, assegnazioni, conguagli in denaro o quant’altro, rinunciando espressamente all’azione di riduzione eventualmente loro spettante in ordine alla sua eredità».
La convenuta affermava di aver comunque tacitamente accettato l’eredità del fratello mediante il compimento di atti di disposizione dei diritti successori; eccepiva la prescrizione dell’azione di restituzione, non suscettibile di accoglimento essendo state cedute le quote sociali, sostenendo che nella determinazione del relativo loro valore avrebbero dovuto tenersi in debito conto i miglioramenti, le addizioni e le spese sostenute.
A seguito delle descritte deduzioni difensive della convenuta, G.M. impugnava per nullità – ai sensi dell’art. 1972 c.c. – anche l’atto di assegnazione di beni immobili del 22.102004, l’atto di assegnazione dei mobili del 10.1.2005 e l’atto di ripartizione e rimborso Asl concluso in pari data e, infine, l’atto riepilogativo, reiterando le precedenti conclusioni unitamente alla richiesta di essere ammesso alla successione ai sensi dell’art. 571 c.c. e di ottenere il controvalore delle quote sociali.
Il Tribunale di Pordenone – con sentenza n. 216/2016 - respingeva tutte le domande, regolando le spese.
La decisione, impugnata da G.M, veniva confermata dalla Corte di appello di Trieste, con sentenza n. 201/2017 (pubblicata il 27.3.2017).
La Corte territoriale osservava che il gravame, nella parte in cui riproponeva l’eccezione di nullità delle donazioni per motivo illecito, era inammissibile, non essendo la questione oggetto di domanda, ritenendo che, comunque, non vi fosse prova che il donante avesse disposto delle quote sociali con l’unico scopo di aggirare il divieto di legge.
Rigettava, inoltre, l’eccezione di nullità della donazione effettuata da MM, ritenendo che l’atto costituisse una disposizione sottoposta a condizione sospensiva si premoriar e non di una donazione mortis causa, immediatamente vincolante tra le parti, giacché l’evento morte del donante non era elevato a causa dell’attribuzione, ma incideva esclusivamente sull’efficacia della donazione senza impedire la produzione di effetti limitati o prodromici, peculiari del contratto sottoposto a condizione sospensiva.
Non vi erano elementi – secondo il giudice territoriale - per ritenere che l'uscita del bene dal patrimonio del donante dovesse avvenire prima della morte di M.M, né che questi potesse ancora modificare ulteriormente l'assetto patrimoniale, rendendo inoperante il congegno negoziale posto in essere, evidenziando che la natura di atto inter vivos trovava conferma nel fatto che il bene “non veniva a definirsi come commisurato al tempo della morte del donante, sfuggendo all’applicazione dell’art. 458 c.c.”.
Per la cassazione della sentenza G.M. ha proposto ricorso affidato ad un unico motivo.
S. M P. ha resistito con controricorso.
La causa è stata rimessa in pubblica udienza con ordinanza interlocutoria n. 16160/2023.
Le parti hanno poi depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Deve essere valutata, in via preliminare, l’eccezione – formulata dalla controricorrente - di inammissibilità del ricorso per sua tardività.
Rileva il collegio che essa è priva di fondamento.
L’attuale controricorrente (quale appellata) ha notificato la sentenza di appello presso la cancelleria della Corte territoriale e non presso l’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore, non avendo questi eletto un domicilio autonomo.
Detta notifica era nulla e inidonea a far decorrere il termine breve per proporre il ricorso, essendo compiuta nel vigore delle disposizioni in tema di domicilio digitale, come recentemente novellate D.L. 90/2014 (convertito, con modif., dalla L. 114/2014).
Il ricorso era stato, quindi, avviato tempestivamente alla notifica postale in data 26.10.2017, applicandosi il termine lungo ex art. 327 c.p.c. (nella formulazione successiva alle modifiche introdotte dalla L. 69/2009, dato che il giudizio di primo grado è stato introdotto in data 27.6.2014), tenuto conto della data di pubblicazione della sentenza di appello, avvenuta in data 27.3.2017 e della sospensione feriale dei termini processuali.
E’ utile evidenziare che: 1) a seguito della introduzione del cd. domicilio digitale, conseguente alla modifica apportata all’art. 125
c.p.c. ad opera dell'art. 45-bis, comma 1, cit. D.L. 90/2014, convertito con L. 114/2014, non sussiste alcun obbligo, per il difensore di indicare nell'atto introduttivo l'indirizzo PEC "comunicato al proprio ordine", trattandosi di dato già risultante dal "ReGindE", in virtù di della trasmissione effettuata dall'Ordine di appartenenza, in base alla comunicazione eseguita dall'interessato ex art. 16-sexies D.L. 179/2012, convertito con L. 221/2012 (Cass. 33806/2021; Cass. s.u. 23620/2018; Cass. 13224/2018); b) le
notificazioni e le comunicazioni vanno, quindi, eseguite al "domicilio digitale" di cui ciascun avvocato è dotato, corrispondente all'indirizzo P.E.C. - risultante dal ReGindE e conoscibile dai terzi attraverso la consultazione dell'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC; cfr. Cass. 3685/2021; Cass. 33806/2021; Cass. 2460/2021); c) la notifica effettuata - ai sensi dell'art. 82 del R.D. 37/1934 – presso la cancelleria dell'ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite - è nulla anche se il destinatario abbia omesso di eleggere il domicilio nel Comune in cui ha sede l’ufficio, a meno che, oltre a tale omissione, l'indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario (Cass. 14140/2019; Cass. 14194/2018; Cass. 30139/2017; Cass. 17048/2017); d) detta notifica è, invece, valida solo ove il destinatario abbia scelto, eventualmente in associazione a quello digitale, di eleggere il domicilio presso la cancelleria, dato che l’introduzione del domicilio digitale non esclude la facoltà di eleggere domicilio fisico (Cass. 1982/2020).
E’ infondata anche l’eccezione di inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 348 ter, commi IV e V, c.p.c., non essendo dedotto l’omesso esame di fatti decisivi, ma risultando proposte censure attinenti alla qualificazione della donazione sottoposta a condizione di premorienza come atto mortis causa o inter vivos.
2. L’unico motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 458 e 1353 c.c. e l’omesso esame circa l’ammissione dei mezzi di prova richiesti con la memoria ex art. 183 co. 6 n. 2 c.p.c.
Assume il ricorrente che M.M aveva disposto delle quote sociali in favore della sorella allorquando era in fase di malattia terminale e gli restavano pochi mesi di vita, per cui la validità della donazione andava valutata senza arrestarsi al dato formale dell’apposizione della condizione di premorienza del donante, occorrendo vagliare il reale scopo perseguito dalle parti, consistente nell’intento di eludere il divieto di patti successori e di regolare la futura successione, in considerazione della decisiva circostanza che il donante aveva disposto nella piena consapevolezza che gli rimanevano pochi mesi di vita e che la sua premorienza era ormai certa.
Sussistevano, a parere del ricorrente, tutti gli elementi sintomatici del perfezionamento di un patto istitutivo nullo alla luce delle circostanze dedotte ad oggetto della prova per testi che illegittimamente il giudice di merito aveva ritenuto di non ammettere.
3. Il motivo non è fondato.
Ai fini della configurazione di un patto successorio vietato, occorre accertare: 1) se il vincolo giuridico abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta; 2) se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura successione e se siano, comunque, ricompresi nella successione stessa; 3) se il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte della propria successione, privandosi, così dello "jus poenitendi"; 4) se l'acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa;
5) se il programmato trasferimento, dal promittente al promissario, avrebbe dovuto aver luogo "mortis causa", ossia a titolo di eredità o di legato (cfr. da ultimo, Cass. 14110/2021; già in tal senso Cass. 1683/1995; Cass. 2404/1971).
L’art. 485 c.c. mira a salvaguardare il principio – di ordine pubblico – secondo cui la successione mortis causa può essere disciplinata, oltre che dalla legge, solo dal testamento (cd. tipicità degli atti mortis causa) e a tutelare la libertà testamentaria fino alla morte del disponente.
In considerazione della ratio del divieto sono – invece - sottratti all’ambito applicativo della norma i negozi in cui l’evento morte non è causa dell’attribuzione, ma viene ad incidere esclusivamente sull’efficacia dell’atto, il cui scopo non è di regolare la futura successione.
In particolare, secondo un autorevole orientamento dottrinale (condiviso esplicitamente da questo Corte: cfr. Cass. 19198/2020), l’atto mortis causa vietato (diverso dal testamento) è destinato a regolare i rapporti che scaturiscono dalla morte del soggetto, senza produrre alcun effetto, neppure prodromico o preliminare fino a quando il soggetto è in vita.
Il negozio mortis causa investe rapporti e situazioni che si formano in via originaria con la morte del soggetto o che dall'evento morte traggono una loro autonoma qualificazione, mentre il negozio post mortem valido è destinato a regolare una situazione preesistente, sia pure subordinandone gli effetti alla morte di una delle parti.
Nei primi tale evento incide sia sull’oggetto che sulla posizione del beneficiario, nel senso che la disposizione mortis causa interessa non il bene come si trova al momento dell’atto, ma come esso figura nel patrimonio del disponente al momento della morte (cd. quod superest) e nel quale il beneficiario è considerato tale in quanto esistente al momento in cui l’atto acquisterà definitiva efficacia.
In carenza di tali condizioni il negozio integra un atto inter vivos ed è in genere valido, salvo che specifiche clausole o condizioni contrattuali conservino in capo al disponente il potere di farne venir meno gli effetti e il carattere vincolante.
In definitiva, l'atto mortis causa è diretto a regolare i rapporti patrimoniali e non patrimoniali del soggetto per il tempo e in dipendenza della sua morte, senza produrre alcun effetto, nemmeno prodromico o preliminare.
L'evento della morte riveste un ruolo diverso nell'atto post mortem, perché qui l'attribuzione è attuale nella sua consistenza patrimoniale e non è limitata ai beni rimasti nel patrimonio del disponente al momento della morte (Cass. SU 18831/2019, nonché Cass. 18198/2020).
Su tali premesse la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte ha da tempo riconosciuto piena validità, sia pure in presenza di determinate condizioni, alla donazione con clausola sospensiva di efficacia subordinata alla premorienza del donante (clausola si premoriar; Cass. 2619/1976; nello stesso senso Cass. 576/1950; contra Cass. 4053/1987).
Ferma, difatti, la nullità della donazione mortis causa per violazione dell’art. 485 c.c., la donazione con clausola sospensiva di premorienza del donante produce effetti preliminari immediati in vita del donante ed investe un singolo bene inteso come entità separata dal resto del patrimonio, sempre che permangano l’irrevocabilità della disposizione e l’immediata costituzione del vincolo giuridico tra le parti, con conseguente attualità dell’attribuzione la cui efficacia è solo differita alla morte, avendo il donatario facoltà di compiere atti conservativi e finanche di disporre del bene (sotto condizione).
Il bene donato viene valutato dai contraenti non quale entità che residua al momento della morte, ma nella sua consistenza ed oggettività al momento del perfezionamento del negozio.
L’eventuale contrasto della donazione con il divieto di patti successori può allora dipendere dalla persistenza di un residuo potere dispositivo in capo al donante, tale da minare o rendere solo apparente l’irrevocabilità della disposizione e la sua immediata efficacia vincolante, non in sé per la maggior o minore probabilità del verificarsi dell’evento condizionante.
La premorienza del donante è, per sua natura, evenienza incerta anche ove il donante versi in condizioni di malattia irreversibili (non potendo escludersi, in linea di principio, che premuoia il donatario per cause accidentali, improvvise, impreviste e indipendenti dal suo stato di salute sicché la donazione non diviene efficace), né è – in tal caso - prevedibile la durata della vita residua, conservando utilità pratica la connotazione di irrevocabilità della disposizione.
Questa Corte ha chiarito che per accertare nei singoli casi se le parti abbiano posto una donazione inter vivos, coi requisiti richiesti per la sua validità, ovvero un’attribuzione patrimoniale gratuita, di altra natura, eventualmente non consentita dalla legge, è necessario procedere alla ricerca della volontà negoziale delle parti in applicazione delle regole ermeneutiche stabilite dalla legge per la interpretazione dei contratti e, in particolare, del criterio dell'interpretazione complessiva, che postula l'esame delle varie clausole dell'atto onde interpretarle le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna di esse il senso risultante dal loro complesso, facendo, inoltre, applicazione del principio secondo cui la qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio non dipende dal significato letterale delle parole o dal nomen juris attribuitogli dalle parti, ma dal suo concreto contenuto e dalla comune intenzione delle parti (cfr., testualmente, Cass. 1547/1966).
Nel caso di cui si discute, la Corte di merito ha, appunto, stabilito che la donazione era immediatamente efficace ed aveva ad oggetto beni (quote sociali) considerati nella loro consistenza e valore al momento della disposizione, dando vita ad un vincolo giuridico produttivo di effetti prodromici, valorizzando l’assenza di elementi che deponessero - anche solo in via indiretta - per l’effettiva persistenza in capo al donante di un potere dispositivo, a conferma dell’irrevocabilità dell’attribuzione.
Benché M.P. fosse certamente affetto da un male incurabile, la sua premorienza rispetto alla sorella poteva al più considerarsi altamente probabile ma non certa, né comunque imminente (la morte è sopraggiunta mesi dopo il perfezionamento della donazione, nell’agosto 2004), permanendo, nonostante la gravità delle condizioni di salute del donante, lo scopo pratico di assicurare il trasferimento delle quote in capo alla sorella con effetti irrevocabili e parzialmente anticipati, indirizzando da subito, nella direzione auspicata, le vicende del complesso aziendale.
L’unico motivo di ricorso non merita, pertanto, accoglimento, non potendo addebitarsi alla Corte di merito di aver escluso la violazione dell’art. 485 c.c., sottovalutando le condizioni di grave malattia e il grado di probabilità della premorienza del donante rispetto alla donataria nella ricerca dello scopo pratico voluto dai contraenti; è incensurabile, nella presente sede di legittimità, la qualificazione della donazione quale negozio inter vivos valido alla luce degli indici posti in rilievo nella sentenza, consistenti nella natura condizionale della clausola di premorienza, nell’idoneità dell’atto a produrre effetti prodromici e nell’assenza di previsioni che, anche solo indirettamente, conducessero a ravvisare la permanenza in capo al donante della facoltà di revoca della disposizione.
4. In definitiva, il ricorso deve essere respinto, con la regolazione delle spese del presente giudizio in base al generale principio della soccombenza. Esse si liquidano come da dispositivo, tenendo contro del rilevante valore della causa (euro 4.071.900,00) e delle attività defensionali in concreto espletate nell’interesse della controricorrente.
Si dà atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in solido
delle spese processuali, liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 22.000,00 per onorari, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%.
Dà atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.