La Cassazione avvalora un concetto di “cessazione dell’attività dell’azienda” di tipo sostanziale, e non solo formale.
Il Tribunale di Arezzo accoglieva la domanda proposta dalla lavoratrice verso la cooperativa, dichiarando nullo il suo licenziamento e condannando la Curatela alla reintegrazione della stessa nel posto di lavoro nonché alla corresponsione di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegra.
A seguito di...
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Arezzo, sia in fase sommaria che di merito, in accoglimento della domanda proposta da E.P. nei confronti del Fallimento L. C. società cooperativa, ha dichiarato la nullità del licenziamento ex art. 54 T.U. n. 151/2001 e ha condannato la Curatela alla reintegrazione della originaria ricorrente nel posto di lavoro, dichiarando altresì il diritto di quest’ultima ad una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegra, nonché la improcedibilità delle relative domande di condanna a carico della stessa Curatela.
2. La Corte di appello di Firenze, con la sentenza n. 698/2019, ha confermato la suddetta pronuncia.
3. La azionata pretesa era fondata sul fatto che la P., dipendente della Cooperativa con contratto a tempo indeterminato dal 2 gennaio 2015, con qualifica di impiegata ed inquadramento nel livello 8 CCNL Edilizia Cooperative, era stata licenziata con lettera del 17 luglio 2017 dalla Curatela -essendo la Cooperativa stata dichiarata fallita con sentenza del 17 maggio 2017- dopo essere stata in congedo per maternità obbligatoria fino al 2 luglio 2017 per avere partorito il figlio S. il 2.3.2017; la lavoratrice aveva impugnato il licenziamento con lettera del 2 agosto 2017, evidenziando che la risoluzione del rapporto era nulla per essere avvenuta entro l’anno della nascita del figlio e aveva depositato istanza di ammissione al passivo fallimentare il 27 ottobre 2017 chiedendo di essere ammessa al privilegio e in pre-deduzione per crediti retributivi vari oltre che per la indennità di licenziamento.
4. I giudici di seconde cure hanno rilevato che il ricorso di lavoro, proposto nel gennaio del 2018, non era precluso dalla domanda di insinuazione allo stato passivo avendo la prima azione natura costitutiva su diritti non patrimoniali e avendo la seconda ad oggetto mere pretese economiche; hanno poi evidenziato che, dalla prova orale e documentale espletata, non era emerso che si fosse verificata la cessazione dell’attività di impresa per cui era ravvisabile la violazione del divieto legale di licenziamento della lavoratrice madre nel primo anno di vita del figlio.
5. Avverso la sentenza di secondo grado il Fallimento L. C. Società Cooperativa ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, cui ha resistito con controricorso E.P..
6. Le parti hanno depositato memorie.
7. Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
Motivi della decisione
1. Con l’unico articolato motivo si denuncia, ex art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell’art. 104 commi 1 e 2 legge fall. nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 54 co. 3 lett. b del D.lgs. n. 151/2011. Si deduce che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, l’attività di impresa doveva intendersi cessata nel momento in cui la sua prosecuzione non era stata autorizzata, ai sensi dell’art. 104 legge fallimentare, dal Tribunale o dal giudice delegato; pertanto, nel caso di specie, non essendo stato autorizzato l’esercizio provvisorio, né avanzata o autorizzata alcuna proposta di prosecuzione dell’attività, risultavano poste in essere, come emergeva dal programma di liquidazione del 12.2.2008, dal Curatore solo delle iniziative di tipo conservativo per cui doveva ritenersi che, con la dichiarazione del fallimento, era venuta meno l’azienda in quanto tale e, al momento del licenziamento, l’attività aziendale era da considerarsi definitivamente cessata.
2. Il ricorso non è fondato.
3. La questione di diritto che viene sottoposta al Collegio riguarda l’interpretazione del concetto giuridico di “cessazione dell’attività dell’azienda” cui è addetta una lavoratrice madre, prevista dall’art. 54 co. 3 lett. b) D.lgs. n. 151/2001 declinata in relazione alla nozione di esercizio provvisorio dell’impresa ex art. 104 commi 1 e 2 legge fallimentare.
4. Il problema, nel suo inquadramento giuridico, è chiaro: si chiede se, in ipotesi di una impresa, in cui l’esercizio provvisorio non sia stato disposto né con la sentenza dichiarativa del fallimento, né successivamente autorizzato dal giudice delegato, in un contesto in cui dopo il fallimento era stato dimostrato che le attività di liquidazione non erano iniziate e che, invece, erano in corso attività conservative in funzione di trasferimento a terzi (motivo per il quale era in corso una selezione del personale da conservare in servizio), l’azienda possa o meno considerarsi cessata ai fini della operatività della deroga al divieto di licenziamento di cui all’art. 54 co. 3 lett. b) D.lgs. n. 151/2001.
5. In altri termini, relativamente al concetto di cessazione dell’attività di azienda, per la tutela delle lavoratrici madri, il quesito cui occorre dare una risposta è relativo al fatto se debba prevalere una concezione sostanziale (naturalistica) o formale (giuridica) dell’evento “cessazione”: infatti, ai sensi della disposizione di cui all’art. 104 legge. fall., con la sentenza dichiarativa di fallimento si ha una cessazione formale dell’attività, salvo il suo esercizio provvisorio autorizzato in presenza di particolari presupposti; l’art. 54 co. 3 lett. b) D.lgs. n. 151/2001 fa riferimento, invece, unicamente all’avvenimento della “cessazione”.
6. Per la soluzione della questione, è opportuno evidenziare alcuni principi riguardanti la ratio, la natura giuridica ed il contenuto dell’art 54 citato, richiamati dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
7. La necessità di sanzionare quei trattamenti penalizzanti che possono essere riservati alle donne coniugate, in stato interessante, o ancora con figli in età prescolare, in realtà non è nuova ed era già stata disciplinata dalla previgente legislazione; il riferimento è ad esempio alla norma di apertura della prima legge sulla parità di trattamento (art. 1, comma 2, l. n. 903/1977), la quale vietava qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, per quanto riguarda l'accesso al lavoro, anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza, nonché, inter alia, alla disciplina che vieta di licenziare la lavoratrice in stato di gravidanza dal momento del concepimento sino al compimento del primo anno di vita del bambino (regolato dapprima dalla l. n. 1204/1971, oggi trasfuso nell'art. 54 del d.lgs. n. 151/2001).
8. Il legislatore ha, dunque, sempre posto attenzione al fattore di rischio della maternità (e dello stato di gravidanza), che oggi trova una sua disciplina generale anche nel Codice delle pari opportunità, come riformato dal D.lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, il quale, nel recepire la Direttiva 2006/54/CE, relativa al principio di pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione ed impiego, ha provveduto ad una parziale modifica del vigente Codice.
9. Nella giurisprudenza di legittimità, è stato, al riguardo, precisato che la disposizione di cui all’art. 54 predetto, il quale prevede limiti precisi e circoscritti per la deroga al generale divieto di licenziamento della lavoratrice madre dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, in considerazione del fatto che l’estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato, non può essere interpretata in senso estensivo (Cass. n. 13861/2021).
10. Inoltre, è stato affermato che la deroga al divieto di licenziamento dell’art. 54 citato, dall’inizio della gestazione fino al compimento dell’età di un anno del bambino, opera solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale, sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva o analogica alle ipotesi di cessazione dell’attività di un singolo reparto della azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale (Cass. n 22720/2017; Cass. n. 14515/2018).
11. Per la non applicabilità del divieto devono, infine, ricorrere due condizioni, cioè che il datore di lavoro sia una azienda e che vi sia cessazione dell’attività (cfr. Cass. n. 10391/2005 in motivazione); la prova incombe sul datore di lavoro (Cass. n. 5221/1996).
12. Alla luce di tale quadro dogmatico-giurisprudenziale ritiene, pertanto, questo Collegio che, del concetto di cessazione dell’attività disciplinato dall’art. 54, debba darsi una lettura rigorosa, nel senso che deve essere esclusa, dal suo perimetro operativo, ogni possibilità che comporti, in qualche modo, la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga, avvalorando, quindi, un profilo sostanziale e non formale del fenomeno “cessazione”.
13. Del resto, una lettura della norma che privilegi la tutela dei diritti della lavoratrice madre rispetto ai diritti patrimoniali, sottesi in qualche modo alla salvaguardia della par condicio creditorum di cui alla legge fallimentare, è conforme al disposto dell’art. 37 Cost. che riconosce, nelle condizioni di lavoro, una speciale adeguata protezione alla madre e al bambino per l’adempimento della essenziale funzione familiare.
14. Con le fondamentali sentenze della Corte costituzionale n. 123 del 1969 e n. 137/1986, si è precisato, infatti, che la norma costituisce una applicazione nel settore del lavoro, del disposto più generale dell’art. 3 della Cost. che assicura a tutti i cittadini a pari dignità sociale e l’eguaglianza dinanzi alla legge senza distinzione, tra l’altro, di sesso, e dell’art. 4 della Cost. che sancisce, per tutti i cittadini, il diritto al lavoro con la garanzia della sua effettività.
15. E anche la giurisprudenza euro-unitaria (Corte Giustizia UE 29 ottobre 2009, n. 63 III) acquisisce, sul punto, significativo rilievo nella misura in cui pone l’accento sulla esigenza di rendere “effettiva” la tutela della lavoratrice madre in caso di licenziamento.
16. Venendo al caso in esame, atteso che la Corte territoriale aveva accertato che, sia al momento della dichiarazione di fallimento che successivamente ad essa (luglio 2017), erano in corso attività conservative dell’impresa e non di sua liquidazione, la statuizione circa la ritenuta mancata cessazione dell’attività aziendale, operata dai giudici di seconde cure, rilevante ai fini dell’art. 54 co. 3 lett. b) D.lgs. n. 151/2001, è condivisibile e corretta in punto di diritto, con riguardo ai principi sopra precisati.
17. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.
18. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
19. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dei Difensori della controricorrente dichiaratisi antistatari. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.