
Svolgimento del processo
l’Avv. M.A. ricorre, con sei motivi, nei confronti di A.C., D., S., M., N., B. e P.G. (eredi di L.G.) e della società d’assicurazioni Generali Italia S.p.a. (che resistono con controricorsi), nonché della Itas Mutua S.p.a. (che rimane intimata), per la cassazione della sentenza -in epigrafe indicata- della Corte d’appello di Brescia, che ne ha confermato la condanna al risarcimento dei danni nei confronti dei predetti eredi G. per responsabilità professionale;
è stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti;
non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero;
Motivi della decisione
il ricorso si espone ad un preliminare e assorbente rilievo di inammissibilità perché carente del requisito di contenuto-forma prescritto dall’art. 366, comma primo, num. 3, cod. proc. civ.;
la premessa espositiva relativa ai «Fatti di causa» si risolve, alle pagg. 2 - 4 del ricorso, nella mera sintetica narrazione di vicende anteatte dalle quali si deve ritenere abbia avuto origine la pretesa risarcitoria per responsabilità professionale: questa stessa esposizione è, peraltro, assai confusa e indecifrabile, dando essa per scontata la conoscenza di protagonisti ed eventi e non osservando un chiaro e lineare ordine logico e cronologico di questi ultimi;
assolutamente nulla, invece, è detto circa:
a) le ragioni in fatto e in diritto poste a fondamento della domanda risarcitoria proposta, nei confronti dell’odierno ricorrente, dagli eredi G.;
b) le difese e/o eccezioni ad essa contrapposte nel giudizio di primo grado e le eventuali domande riconvenzionali;
c) l’esito del giudizio di primo grado e le ragioni poste a fondamento della decisione;
d) i motivi che erano stati proposti a fondamento dell’appello;
e) le difese in appello svolte dalle controparti;
f) le motivazioni della sentenza d’appello;
anche l’illustrazione dei singoli motivi nulla dice della vicenda processuale e del modo del suo dipanarsi nei due gradi del giudizio di merito, per comprendere i quali dunque non resterebbe alla Corte che la lettura degli atti del processo; la conoscenza della vicenda
processuale nel suo complesso e delle motivazioni della sentenza impugnata viene sempre data per presupposta;
il ricorso si appalesa, dunque, inammissibile per inosservanza della detta norma processuale, dato che la sua struttura, nella parte preposta all'assolvimento del requisito ivi previsto, impedisce qualsivoglia sommaria percezione del fatto sostanziale e processuale, ma pretende che la Corte debba leggere la congerie di atti riprodotti per ricostruirla;
la prescrizione normativa risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. Sez. U 20/02/2003, n. 2602);
la legittimità di tale requisito di accesso al giudizio di legittimità non può essere messa in dubbio in relazione al diritto di difesa delle parti, o a quello al giusto processo, tutelati dagli artt. 24 e 111 Cost., ovvero dall'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata — in uno al protocollo aggiuntivo firmato a Parigi il 20 marzo 1952 — con legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del 24 settembre 1955 ed entrata in vigore il 10 ottobre 1955);
sotto questo profilo, in particolare, giova ribadire che il requisito di contenuto-forma in questione è imposto in modo chiaro e prevedibile, non è eccessivo per il ricorrente e risulta funzionale al ruolo nomofilattico della Suprema Corte e segnatamente all’esigenza di «consentire alla Corte di cassazione di conoscere dall'atto, senza attingerli aliunde, gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell'origine e dell'oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti» (Cass. Sez. U. 10/09/2019, n. 22575; Id. 16/05/2013, n. 11826);
mette conto, altresì, ancora una volta rammentare che la Corte europea, con la sua sentenza 15 settembre 2016, in causa Trevisanato c/ Italia (i cui principi sono stati ribaditi nella recente sentenza, depositata il 31 marzo 2021, nel caso Oorzhak c. Russia), ha riaffermato — perfino riconoscendo l'astratta ammissibilità del pure abrogato sistema del c.d. «filtro a quesiti» per l'accesso in cassazione — il basilare principio della piena legittimità di un sistema anche rigoroso di requisiti formali per l'accesso al giudizio di legittimità e per la redazione dei ricorsi introduttivi: il quale non solo non viola l'art. 6 CEDU, ma anzi è funzionale alla tutela del ruolo nomofilattico della Corte di legittimità e quindi al conseguimento dei valori fondamentali, benché non espressamente codificati nella Convenzione, della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia; solo dovendo la compresente esigenza di tutela del diritto del singolo trovare un contemperamento, così che ogni soluzione possa superare il consueto vaglio di proporzionalità tra fine perseguito e mezzi impiegati (così, in motivazione, Cass. n. 26936 del 2016);
a tale contesto ermeneutico di riferimento non apporta significative novità la pronuncia della Corte Edu 28/10/2021, Succi c. Italia: questa richiama anzi espressamente, confermandone i principi, tra le altre, la propria sentenza 15/09/2016, Trevisanato c. Italia;
essa ha bensì riscontrato la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione con riferimento ad uno dei tre casi al suo esame (nel quale venivano in rilievo i diversi requisiti di ammissibilità di cui ai nn. 4 e 6 dell’art. 366 cod. proc. civ.), ma ciò ha fatto considerando, all’esito di un esame in punto di fatto degli atti ivi considerati, non certo che quei requisiti rispondessero di per sé e in astratto a inammissibile formalismo fine a sé stesso ma che nel caso allora in esame, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di cassazione, fossero stati in realtà rispettati;
quel che dunque è stata in quella sede censurata è la concreta applicazione delle formalità previste dall’ordinamento nazionale, che occorre osservare all’atto della proposizione del ricorso, in quanto nel caso esaminato ritenuta (l’applicazione, non le formalità) in contrasto con il diritto di accesso ad un tribunale perché di fatto ispirata ad eccessivo formalismo e tale, dunque, da impedire il pur possibile esame nel merito del ricorso proposto dall'interessato;
in tale prospettiva, la Corte EDU con la medesima pronuncia ha invece escluso la violazione della detta norma convenzionale in un altro caso contestualmente esaminato in cui veniva in considerazione proprio il requisito dell’art. 366 n. 3 cod. proc. civ. (ritenuto in quel caso non rispettato dalla S.C. per l’utilizzo della tecnica redazionale del c.d. assemblaggio), osservando in particolare che:
— l'interpretazione data all'esposizione sommaria dei fatti è compatibile con l'applicazione del principio dell'autosufficienza del ricorso che esige che la Corte di cassazione, ad una lettura globale del ricorso, sia in grado di comprendere l'oggetto della controversia nonché il contenuto delle censure che dovrebbero giustificare l'annullamento della decisione impugnata e sia in grado di pronunciarsi;
— la giurisprudenza della Corte di cassazione prevede procedure chiare e definite (si vedano i paragrafi 17 e 30) per la redazione dell'esposizione dei fatti rilevanti;
— la procedura davanti alla Corte di cassazione prevede l'assistenza obbligatoria di un avvocato che deve essere iscritto in un albo speciale, sulla base di determinate qualifiche, per garantire la qualità del ricorso e il rispetto di tutte le condizioni formali e sostanziali richieste; l'avvocato del ricorrente era quindi in grado di sapere quali fossero i suoi obblighi al riguardo, sulla base del testo dell'art. 366 e con l'aiuto dell'interpretazione della Corte di cassazione, definita «sufficientemente chiara e coerente»;
ciò premesso, occorre quindi ribadire la piena legittimità del requisito in parola e che per soddisfarlo è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, ma anzi chiaro e sintetico, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed infine del tenore della sentenza impugnata (v. Cass. Sez. U. n. 2602 del 2003; ed ancora da ultimo, ex multis, Cass. 08/08/2023, n. 24149; 03/11/2021, n. 31318; 19/10/2021, n. 28929);
se fosse possibile prescindere da tale preliminare e assorbente rilievo, il ricorso andrebbe incontro comunque ad analogo esito per altre ragioni intrinseche al contenuto dei motivi;
il primo motivo - rubricato «violazione degli articoli 1375 e 1175 c.c., in relazione all'articolo 360, n. 3, c.p.c.» - lungi dall’evidenziare l’affermazione in diritto che, nella sentenza impugnata, dovrebbe palesare l’inesatta interpretazione o l’errata applicazione delle norme evocate, prospetta la necessità di una diversa valutazione di merito circa la rilevanza ai fini di causa di una (così descritta) «lettera di accompagnamento» alla «transazione raggiunta con Generali», «inoltrata all’Avv. G.»;
pur a prescindere dalla inammissibilità di una tale impostazione censoria, non può non evidenziarsi anche che: a) nulla si dice del contenuto e degli effetti della evocata transazione; b) non si riporta il contenuto della stessa né si collocano la transazione e la detta lettera di accompagnamento nel fascicolo di causa, in violazione degli artt. 366 n. 6 e 369 n. 2 cod. proc. civ.; c) nulla si dice su cosa si era argomentato nei gradi di merito con riferimento a detti atti, né circa il peso e la valutazione che essi hanno avuto nella sentenza impugnata; analogamente deve dirsi riguardo al secondo motivo, rubricato «sul danno reclamato - violazione dell’articolo 112 c.p.c. e 2697 c.c., in relazione all'articolo 360, n. 3, c.p.c.»;
con esso si svolgono considerazioni circa la necessità di quantificare diversamente il risarcimento, prescindendo del tutto da ogni indicazione di quale sia stata sul punto la decisione della Corte d’appello e dalla relativa motivazione, ma anzi invitando esplicitamente questa Corte a leggere la sentenza impugnata (v. ricorso, pag. 9, primo capoverso);
non diversamente è a dirsi dei restanti motivi, così rispettivamente sintetizzabili:
- 3) «Inesistenza di un danno effettivo per i fratelli G. Violazione degli articoli 2697 c.c. 32 e 100 c.p.c. in relazione all'articolo 360, n. 3, c.p.c.»: la Corte avrebbe violato l’art. 32 cod. proc. civ., il quale prevede che le cause di garanzia possono essere proposte nello stesso giudizio relativo alla causa principale; l'azione di garanzia (impropria) può essere proposta anche in un giudizio distinto da quello nel quale sia stata formulata la domanda principale (dal cui eventuale accoglimento può derivare la nascita del diritto del soccombente alla manleva), purché al momento dell'autonoma proposizione, in altra sede processuale, della stessa domanda di essa sia stata garanzia (diversamente dall'ipotesi in tempestivamente articolata nel giudizio principale), sussista, in capo all'attore, l'interesse ad agire, che sorge solo nel caso di condanna del garantito; nel caso in esame, la causa di garanzia o manleva era stata iniziata nel 1995, quindi ben dopo quattro anni dalla causa principale; le domande svolte poggiavano sì sulla mala gestio dell'assicuratore, ma le stesse erano volte solo ed esclusivamente al recupero delle somme versate sino a quel momento, e non ad altro;
- 4) «inesistenza di un danno effettivo per i fratelli G. Violazione degli articoli 2697 c.c. articolo 18 L. 990/1969 in relazione all'articolo 360, n. 3, c.p.c.»: qualora fosse stata mantenuta la statuizione della sentenza conclusiva del procedimento R.G. 4014/1991, ed anche qualora non fosse stato presentato appello da parte del Sonzogni, l'assicurato non sarebbe andato esente da richieste successive dell'assicuratore e/o, comunque, sarebbe stato onerato dell'obbligo di tenere l'assicuratore indenne e manlevato da qualsiasi maggior importo da questi versato ai danneggiati, valendo, nel caso di specie, il limite assoluto del massimale di polizza, superato sin dal sorgere del danno;
- 5) «Decadenza - Violazione degli articoli 269 c.p.c. - e 165 c.p.c. in relazione all'articolo 360, n. 3, c.p.c.»: l'azione di garanzia per mala gestio non poteva essere esperita essendo i fratelli G. decaduti dal proporla, non avendo l’Avv. Foglieni, sebbene autorizzato, chiamato in causa la compagnia d’assicurazioni nel giudizio di risarcimento danni promosso dal danneggiato; nel separato giudizio non poteva chiedersi altro se non quanto versato dal conducente al danneggiato;
- 6) «Violazione dell'articolo 273 c.p.c. e 100 e 2952 c.p.c. in relazione all'articolo 360, n. 3, c.p.c.»: non potendosi instare per la declaratoria della mala gestio dell'assicuratore, stante l'intervenuta decadenza, si è pensato di proporre l'azione per ottenere, in via di rivalsa, quanto dall'assicuratore negato e, quindi, le somme dovute per l'avvenuta gestione della lite con tutela dei soli interessi dell'assicuratore;
si deduce, con tali motivi, la violazione di norme sostanziali o processuali senza alcuna indicazione delle affermazioni contenute in sentenza o delle impostazioni qualificatorie nelle le quali tale violazione dovrebbe ravvisarsi;
si tratta piuttosto di argomentazioni volte a sollecitare una rivisitazione di fatti e vicende processuali evocati in termini generici e con inosservanza degli oneri di specificità e autosufficienza imposti dall’art. 366 n. 6 e 369 n. 2 cod. proc. civ.;
il tutto, peraltro, secondo chiavi di lettura di difficile comprensione e di ancor meno ravvisabile fondamento giuridico (tali, ad es., la tesi delle decadenze conseguenti alla mancata proposizione della domanda di garanzia mediante chiamata in causa nel giudizio sulla domanda risarcitoria proposta dal danneggiato o quella secondo cui nel separato giudizio non vi sarebbe interesse a chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’assicuratore di rivalere l’assicurato in caso di mala gestio anche rispetto a pretese risarcitorie non ancora accertate);
si sostiene l’inesistenza di un danno riconducibile alla prestazione professionale prescindendosi del tutto – come detto – dalla stessa indicazione di quale sia stata la prestazione riconosciuta come inadempiente e fonte di danno e, comunque, da una compiuta esposizione dei fatti e delle questioni dibattute nel giudizio di merito e delle ragioni della decisione impugnata, in termini tali, dunque, che rendono del tutto incomprensibili le ragioni di critica e a fortiori impossibile vagliarne -prima ancora che la fondatezza- l’ammissibilità, anche in relazione alla eventuale novità delle questioni agitate e dei loro riferimenti fattuali;
per tutte le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo;
va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13;
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, che liquida, in favore di ciascuna delle due parti contoricorrenti, in Euro 5.600 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.