
Le modalità dell'azione, il numero delle chiamate in un ristretto arco temporale e il fatto di ricorrere ad utenze altrui, dimostrano che il ricorrente aveva la consapevolezza dell'idoneità della sua condotta a disturbare la persona offesa, e la sua insistenza nel mantenere tale condotta prova la sua volontà di molestare.
L'imputato veniva condannato alla pena di 300 euro e al risarcimento del danno per aver molestato la persona offesa con pressanti richieste di un incontro mediante l'uso deltelefono cellullare. Il Giudice riteneva configurato il reato ex art. 660 c.p. in quanto sussistente una condotta petulante per via del numero di telefonate indesiderate inviate (trentacinque in circa cinquanta giorni) e dal rifiuto della persona di rispondere.
La controversia giunge in Cassazione, dove il ricorrente censura la sentenza impugnata per non aver il giudice considerato che le sue telefonate non erano dettate né da biasimevole motivo né da petulanza, ma dal tentativo di fissare un incontro per dirimere le questioni pendenti con la persona offesa con cui erano intercorsi rapporti economici importanti. Inoltre, molte delle telefonate trovavano il cellulare della persona offesa spento e, dunque solo a posteriori il ricorrente poteva comprendere che tale comportamento del destinatario dimostrava un suo rifiuto ad avere contatti con lui.
Secondo il ricorrente, manca dunque il dolo di agire per petulanza o biasimevole motivo e la consapevolezza di arrecare disturbo alla persona offesa.
Per la Cassazione il ricorso è infondato. La motivazione del provvedimento impugnato è logica, coerente e non contraddittoria anche in merito alla valutazione del dolo del reato. Il giudice ha valutato che «le modalità dell'azione, il numero delle chiamate in un ristretto arco temporale, e il fatto di ricorrere ad utenze altrui dimostrano che il ricorrente aveva la consapevolezza della idoneità della sua condotta a disturbare la persona offesa, e la sua insistenza nel tenere tale condotta prova la sua volontà di molestare, agendo quindi con petulanza». Con questo termine, infatti, si intende un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà, tenuto con la consapevolezza di arrecare disturbo, senza che rilevi l'eventuale convinzione dell'agente di operare per un fine non biasimevole o di esercitare un proprio diritto.
Irrilevante dunque l'affermazione della liceità del motivo delle telefonate, avendo il giudice ritenuto che la condotta molesta sia stata tenuta per petulanza, e non per motivi biasimevoli.
La Cassazione rigetta il ricorso con sentenza n. 6975 del 15 febbraio 2024.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza emessa in data 02 maggio 2023 il Tribunale di Ivrea ha condannato V.D. alla pena di 300 euro di ammenda e al risarcimento del danno in favore della parte civile, per il reato di cui all'art. 660 cod.pen. da lui commesso dal 06 maggio 2020 al 29 qiugno 2020 molestando S.R. con pressanti richieste di un incontro, mediante l'uso del telefono cellulare.
Il Tribunale ha ritenuto provato il reato dalle dichiarazioni della persona offesa, confermate dalle indagini svolte e dalle testimonianze ascoltate, nonché dalle ammissioni dello stesso imputato e del coimputato G.B., poi assolto. Quest'ultimo ha dichiarato che., poiché il R. non rispondeva al cellulare del D., questi usava il suo cellulare, al fine di ottenere risposta. Dal rifiuto della persona offesa di rispondere e dal numero di telefonate indesiderate inviate, indicate nel numero di trentacinque in circa cinquanta giorni, il giudice ha ritenuto sussistente una condotta petulante e configurato, perciò, il reato contestato.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso V.D., per mezzo del difensore avv. P.L., articolando un unico motivo, con il quale deduce la contraddittorietà e la manifesta infondatezza della motivazione, in violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod.proc.pen..
Lo specchietto redatto dai Carabinieri è errato perché elenca 25 telefonate partite dal cellulare del ricorrente e 10 da quello del B., ma il giorno 06 maggio risultano elencate quattro telefonate, mentre dalla trascrizione della registrazione del ricorrente risulta effettuata, dal cellulare del B., solo una telefonata lunga oltre un'ora e non quattro chiamate, come riportato dai Carabinieri.
Le chiamate, poi, non erano petulanti perché tra il ricorrente e la persona offesa erano intercorsi rapporti economici importanti, sfociati in una forte conflittualità, che li aveva portati a scambiarsi denunce. Nella telefonata del 06 maggio 2020 i due avevano concordato di incontrarsi per trovare un accordo, e la stessa persona offesa aveva invitato il ricorrente a richiamarlo, salvo poi smettere di rispondere. Il giudice ha dato atto di questo comportamento, ma ha ritenuto che la condotta successiva della persona offesa dimostrasse che egli non gradiva ricevere telefonate dall'imputato. Le telefonate di quest'ultimo, però, non erano dettate né da biasimevole motivo, né da petulanza: egli cercava di parlare con il R. per dirimere le questioni pendenti tra loro, e continuava a telefonargli non per disturbarlo, ma per concordare quell'incontro che lo stesso R. aveva accettato. Non è credibile che il R. fosse intimorito da quelle telefonate, come ha dichiarato la figlia dello stesso, perché dal decreto di archiviazione di un procedimento a carico del ricorrente per una pretesa estorsione in danno del R. risulta che quest'ultimo si era rivolto alla criminalità organizzata per riscuotere un credito vantato contro una terza persona.
Manca, quindi, il dolo di agire per petulanza o biasimevole motivo, e manca nel ricorrente la consapevolezza di arrecare disturbo alla persona offesa, perché egli telefonava in esecuzione dell'invito ricevuto e, poiché molte delle telefonate trovavano il cellulare del R. spento, solo a posteriori il ricorrente poteva comprendere che tale comportamento del destinatario dimostrava un suo rifiuto ad avere contatti con lui.
La motivazione è, quindi, contraddittoria e manifestamente illogica, perché
contrastante con le prove acquisite.
3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
4. La parte civile ha depositato le proprie conclusioni scritte, con nota spese.
5. Il ricorrente ha depositato una memoria di replica alla requisitoria del procuratore generale, precisando di avere denunciato un vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, derivanti dalla non corretta valutazione degli elementi devoluti1 all'esame del giudice, in particolare per avere questi omesso di valutare quanto contenuto nella memoria difensiva depositata; peraltro la mancanza del dolo della molestia emergerebbe con evidenza.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato, e deve essere rigettato.
2. Esso propone una mera rivautazione delle prove a carico del ricorrente, senza confrontarsi in modo specifico con la motivazione della sentenza impugnata, che sul punto è completa, non contraddittoria e non manifestamente illogica.
Deve ricordarsi che la Corte di cassazione, in particolare nelle sentenze Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, O., Rv. 262965, ha chiarito che «in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che 'attaccano' la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento: . Anche la recente sentenza Sez. 2, n. 25016 del 30/06/2022, n.m., ribadisce nella motivazione che «al giudice di legittimità è preclusa - in sede di controllo della motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di migliore capacità esplicativa».
Non è quindi compito di questa Corte riiesaminare le singole prove e i singoli indizi, e valutare se la loro interpretazione alternativa, prospettata dal ricorrente, sia preferibile a quella seguita dal giudice di merito: il provvedimento impugnato contiene una motivazione congrua e completa, avendo il giudice esaminato tali elementi alla luce delle osservazioni e delle contestazioni mosse dalla difesa, ed avendo egli raggiunto, all'esito di tale valutazione, una conclusione non manifestamente illogica quanto alla sussistenza di una prova che impone la condanna dell'imputato «al di là di ogni ragionevole dubbio».
In particolare, alla pagina 3 della sentenza il giudice ha esaminato la prova costituita dal contenuto della telefonata del giorno 06 maggio 2020, in cui la persona offesa invitava il ricorrente a richiamarlo e ad organizzare un incontro, ma ha ritenuto, con motivazione logica e non contraddittoria, che tale vicenda iniziale non escluda la natura petulante della condotta tenuta dal ricorrente nei giorni successivi, inviando alla persona offesa un numero elevato di telefonate, utilizzando anche l'utenza di una terza persona, ad essa sconosciuta, al fine di ottenere risposta. Il giudice ha motivato,. infatti, che il rifiuto della persona offesa di rispondere alle telefonate dell'imputato dopo quell'iniziale contatto dimostra che egli non voleva coltivare i rapporti con lui, e ha valutato che «il numero delle telefonate, le mancate risposte, il ricorso ad una diversa utenza pur di ottenere risposta dimostra e prova come tale condotta sia oggettivamente petulante, in quanto ripetitiva, insistente e impertinente provocando una interferenza effettiva e significativa nella sfera privata della persona offesa».
Tale valutazione appare logica e fondata sugli elementi oggettivi indicati dal giudice stesso. Il ricorrente, in realtà, chiede a questa Corte di sostituire ad essa una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto, attività preclusa al giudice di legittimità. Non incide sulla corretta ricostruzione della vicenda l'affermazione del ricorrente, secondo cui le telefonate sarebbero in numero inferiore perché il giorno 06 maggio non vi sarebbero state quattro telefonate bensì una, in quanto il loro numero complessivo, trentacinque in cinquanta giorni, non riceve che una lievissima e irrilevante flessione, anche aderendo alla ricostruzione contenuta nel ricorso. Il ricorrente, peraltro, non ha neppure illustrato quale rilevanza possa avere tale sua ricostruzione, solo parzialmente diversa, sull'iter argomentativo applicato dalla sentenza impugnata.
3. La motivazione del provvedimento impugnato è logica, coerente e non contraddittoria anche in merito alla valutazione del dolo del reato. Alla pagina 4 della sentenza, infatti, il giudice ha valutato che le modalità dell'azione, il numero delle chiamate in un ristretto arco temporale, e il fatto di ricorrere ad utenze altrui dimostrano che il ricorrente aveva la consapevolezza della idoneità della sua condotta a disturbare la persona offesa, e la sua insistenza nel tenere tale condotta prova la sua volontà di molestare, agendo quindi con petulanza. Con questo termine, infatti, si intende un atteggiamento di 21rrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà (dr. Sez. 1, n. 6064 del 06/12/2017, dep. 2018, Rv. 272397), tenuto con la consapevolezza di arrecare disturbo, senza che rilevi l'eventuale convinzione dell'agente di operare per un fine non biasimevole o di esercitare un proprio diritto (dr. Sez. 1, n. 50381 del 07/06/2018, Rv. 274537, citata nella sentenza impugnata).
Il ricorrente non si confronta con tale motivazione, in quanto ripete di avere agito solo per un fine legittimo e noto alla persona offesa stessa, ovvero per esercitare un proprio diritto; l'affermazione della liceità del motivo delle telefonate, però, è palesemente irrilevante, avendo il giudice ritenuto che la condotta molesta sia stata tenuta per petulanza, e non per motivi biasimevoli.
4. Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve pertanto essere respinto, e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
Stante la sua soccombenza, egli deve altresì essere condannato al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile nella presente fase processuale, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Sergio R., che liquida in complessivi euro 1.844,00, oltre accessori dli legge