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16 febbraio 2024
Irrilevante la liceità del motivo delle chiamate se sussiste il dolo di agire per petulanza: scatta la condanna per molestie telefoniche

Le modalità dell'azione, il numero delle chiamate in un ristretto arco temporale e il fatto di ricorrere ad utenze altrui, dimostrano che il ricorrente aveva la consapevolezza dell'idoneità della sua condotta a disturbare la persona offesa, e la sua insistenza nel mantenere tale condotta prova la sua volontà di molestare.

La Redazione

L'imputato veniva condannato alla pena di 300 euro e al risarcimento del danno per aver molestato la persona offesa con pressanti richieste di un incontro mediante l'uso deltelefono cellullare. Il Giudice riteneva configurato il reato ex art. 660 c.p. in quanto sussistente una condotta petulante per via del numero di telefonate indesiderate inviate (trentacinque in circa cinquanta giorni) e dal rifiuto della persona di rispondere.
La controversia giunge in Cassazione, dove il ricorrente censura la sentenza impugnata per non aver il giudice considerato che le sue telefonate non erano dettate né da biasimevole motivo né da petulanza, ma dal tentativo di fissare un incontro per dirimere le questioni pendenti con la persona offesa con cui erano intercorsi rapporti economici importanti. Inoltre, molte delle telefonate trovavano il cellulare della persona offesa spento e, dunque solo a posteriori il ricorrente poteva comprendere che tale comportamento del destinatario dimostrava un suo rifiuto ad avere contatti con lui.
Secondo il ricorrente, manca dunque il dolo di agire per petulanza o biasimevole motivo e la consapevolezza di arrecare disturbo alla persona offesa.

Per la Cassazione il ricorso è infondato. La motivazione del provvedimento impugnato è logica, coerente e non contraddittoria anche in merito alla valutazione del dolo del reato. Il giudice ha valutato che «le modalità dell'azione, il numero delle chiamate in un ristretto arco temporale, e il fatto di ricorrere ad utenze altrui dimostrano che il ricorrente aveva la consapevolezza della idoneità della sua condotta a disturbare la persona offesa, e la sua insistenza nel tenere tale condotta prova la sua volontà di molestare, agendo quindi con petulanza». Con questo termine, infatti, si intende un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà, tenuto con la consapevolezza di arrecare disturbo, senza che rilevi l'eventuale convinzione dell'agente di operare per un fine non biasimevole o di esercitare un proprio diritto.

Irrilevante dunque l'affermazione della liceità del motivo delle telefonate, avendo il giudice ritenuto che la condotta molesta sia stata tenuta per petulanza, e non per motivi biasimevoli.

La Cassazione rigetta il ricorso con sentenza n. 6975 del 15 febbraio 2024.

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