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21 febbraio 2024
Il dipendente licenziato per associazione mafiosa deve essere reintegrato nel posto di lavoro e risarcito
La condanna penale riportata dal lavoratore riguardava reati sicuramente gravi (art. 416-bis c.p.c.) ma commessi più di 20 anni prima rispetto alla contestazione disciplinare e all'instaurazione del rapporto di lavoro con la società. Tale condanna, pur essendo infamante, non ha inciso sul rapporto di lavoro in atto, né messo in pericolo il corretto adempimento delle prestazioni future, né ha compromesso l'affidamento del datore di lavoro sui futuri adempimenti.
di La Redazione

La Corte territoriale confermava la decisione del Giudice di primo grado con cui era stata accolta l'impugnativa del licenziamento intimato per giusta causa a Tizio dalla società X, esercente attività di raccolta di rifiuti solidi urbani, con conseguente condanna alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata a 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. La Corte precisava che l'art. 73 del CCNL Servizi ambientali applicabile al rapporto prevede il licenziamento senza preavviso «per condotte poste in essere nell'esercizio dell'attività lavorativa, come l'insubordinazione nei confronti dei superiori gerarchici, l'uso delle vie di fatto, quindi l'aggressione ai danni dei colleghi o dei superiori, il furto perpetrato in azienda e anche l'aver riportato condanne per reati infamanti commessi nell'esercizio dell'attività lavorativa». Ma, «In ogni caso, a prescindere dalla specifica previsione contrattuale, riveste carattere generale il principio secondo cui possa configurarsi un illecito disciplinare passibile di licenziamento nel caso in cui il lavoratore riporti una condanna penale per reati non afferenti le mansioni svolte, ma di gravità tale da ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro e l'affidamento di questi sul futuro corretto adempimento».

Per la Corte, nel caso di specie la condanna penale riportata dal lavoratore riguardava reati sicuramente gravi (art. 416-bis c.p.c.) ma commessi più di 20 anni prima rispetto alla contestazione disciplinare e la condanna penale ha acquisito definitività nel 2009, comunque molti anni prima dell'instaurazione del rapporto di lavoro con la società, avvenuto nel 2016, e del licenziamento disciplinare, avvenuto nel 2019.
Il fatto per cui si è riportata la condanna penale deve essere idoneo a minare la fiducia del datore di lavoronei futuri adempimenti o comunque nella fedeltà e affidabilità del lavoratore nello svolgimento delle mansioni affidategli.
Nel caso di specie tale condanna, pur essendo teoricamente infamante, non ha però inciso sul rapporto di lavoro in atto, né messo in pericolo il corretto adempimento delle prestazioni future, né compromesso l'affidamento del datore di lavoro sui futuri adempimenti.
Inoltre, per la Corte d'Appello «non hanno trovato riscontro gli accenni alla normativa antimafia, il cui art. 85 d.lgs. 159/2001 preclude l'accesso ad appalti pubblici ad imprese i cui organi apicali siano in odore di mafia, non certo alle imprese i cui dipendenti abbiano precedenti penali, né sussiste un rischio attuale di misure interdittive a carico dell'impresa».
Avverso tale decisione, la società ricorre per la cassazione della sentenza.

La Corte territoriale ha escluso che la condotta addebitata rivestisse i caratteri della grave negazione del vincolo fiduciario con il datore di lavoro alla luce dell'art. 2119 c.c.; la condotta criminosa contestata al dipendente è stata realizzata molto prima dell'instaurazione del rapporto di lavoro, per cui il giudice dovrà direttamente valutare se la condotta extralavorativa sia di per sé incompatibile con l'essenziale elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro, osservando il seguente principio di diritto:

ildiritto

«Condotte costituenti reato possono - anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso- integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell'instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino - attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto - incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza».


Nel caso di specie, la «condanna, pur essendo infamante, non ha però inciso sul rapporto di lavoro in atto, né messo in pericolo il corretto adempimento delle prestazioni future, né compromesso l'affidamento del datore di lavoro sui futuri adempimenti».

Come osservano gli Ermellini, i quali confermano la decisione dei Giudici di secondo grado, « consentire di licenziare qualcuno solo perché pregiudicato, senza valutazioni in ordine alla compromissione dei successivi adempimenti, significa impedire il reinserimento del condannato, che invece il nostro Stato propugna (art. 27 Cost.) ».

In definitiva, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso con l'ordinanza n. 4458 del 20 febbraio 2024.