
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 15 novembre 2022, la Corte di appello di Genova ha confermato la sentenza del 10 marzo 2022, con la quale il Tribunale di Genova ha condannato X in relazione al reato di cui all'art. 7, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26 del 2019, per avere, al fine di ottenere indebitamente il beneficio del reddito di cittadinanza, reso dichiarazioni false o attestanti cose non vere, ovvero omesso informazioni dovute; in particolare, in sede di istanza volta al percepimento del beneficio, avendo utilizzato la dichiarazione sostitutiva unica presentata in data 3 marzo 2019, nella quale attestava di non svolgere alcuna attività lavorativa, omettendo di comunicare lo svolgimento di quella svolta alle dipendenze della ditta X sin dal dicembre 2018 (in X Genova in data antecedente e prossima al 13 giugno 2019).
2. Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, censurando, con un unico motivo di doglianza, vizi della motivazione, sul rilievo che la Corte d'appello avrebbe omesso di considerare la deduzione difensiva in ordine alla questione di legittimità costituzionale della disposizione incriminatrice, per l'eccessiva quantificazione legale del minimo edittale, che renderebbe evidente l'irragionevole disparità di trattamento con altre fattispecie, tra cui in primo luogo l'art. 316-ter cod. pen. Il giudice di merito, pur avendo riconosciuto un'analogia strutturale tra la fattispecie appena menzionata e quella di cui all'art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, che si porrebbe rispetto ad essa come ipotesi speciale, avrebbe omesso di affrontare la questione, da sollevare all'attenzione del giudice delle leggi, della razionalità del maggiore minimo edittale della disposizione speciale, anche se essa punisce una appropriazione di danaro assai più modesta di quella punita dalla norma generale. Si chiede, dunque, che la Corte di cassazione rimetta alla Corte costituzionale la questione di legittimità della pena edittale prevista dalla disposizione incriminatrice, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., i.n quanto superiore a quella prevista, per casi simili, dagli artt. 316-ter cod. pen. e 76 del d.P.R. n. 445 del 2000.
Motivi della decisione
1. Il ricorso - incentrato sulla mancata risposta della Corte territoriale rispetto alla questione di legittimità costituzionale della disposizione incriminatrice sollevata con l'appello e sulla riproposizione della stessa davanti a questa Corte - è inammissibile.
1.1. Va premesso che, in tema di ricorso per cassazione, i vizi di motivazione indicati dall'art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen. non sono mai denunciabili con riferimento alle questioni di diritto, non solo quando la soluzione adottata dal giudice sia giuridicamente corretta, ma anche nel caso contrario, essendo, in tale ipotesi, necessario dedurre come motivo di ricorso l'intervenuta violazione di legge (ex multis, Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027 - 05). Va altresì richiamato il principio giurisprudenziale - affermato dalle sezioni civili di questa Corte, ma valido anche nel settore penale - secondo cui la questione di legittimità costituzionale di una norma, in quanto strumentale rispetto alla domanda che implichi l'applicazione della norma medesima, non può costituire oggetto di un'autonoma istanza rispetto alla quale, in difetto di esame, sia configurabile un vizio di omessa pronuncia, ovvero (nel caso di censure concernenti le argomentazioni svolte dal giudice di merito) un vizio di motivazione, denunciabile con il ricorso per cassazione, giacché la relativa questione è deducibile e rilevabile nei successivi stati e gradi del giudizio, ove rilevante ai fini della decisione (ex multis, Cass. civ., Sez. L, n. 8777 del 10/04/2018, Rv. 648385; Cass. civ., Sez. 5, n. 1311 del 19/01/2018, Rv. 646917).
Dunque, la questione di legittimità costituzionale - essendo questione di puro diritto rilevabile d'ufficio e proponibile in qualunque stato e grado di qualunque tipo di procedimento giurisdizionale - può essere proposta per la prima volta anche nel giudizio di cassazione, con la conseguenza che il suo mancato esame da parte del giudice di merito davanti al quale sia proposta non può costituire oggetto di ricorso per cassazione per omessa motivazione e non può, dunque, avere come effetto l'annullamento con rinvio della pronuncia di merito impugnata.
1.2. Procedendo all'esame della questione - avente ad oggetto la pena edittale prevista dall'art. 7, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, per violazione degli artt. 3 e 27 Cast., in quanto superiore a quella prevista, per casi simili, dagli artt. 316-ter cod. pen. e 76 del d.P.R. n. 445 del 2000 - deve rilevarsi che la stessa è manifestamente infondata.
1.2.1. I commi 1 e 2 del richiamato art. 7 puniscono con la reclusione da due a sei anni chi, al fine di ottenere indebitamente il reddito di cittadinanza, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere ovvero omette informazioni dovute (comma 1) e con la reclusione da uno a tre anni chi, fruendo già del beneficio, non comunica le variazioni del reddito o del patrimonio (anche se· provenienti da attività irregolari) e le altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio stesso nei termini previsti dall'art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11.
L'art. 316-ter cod. pen. (Indebita percezione di erogazioni pubbliche) - disposizione indicata dal ricorrente quale tertium comparationis - per la parte che qui rileva prevede che, «Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'articolo 640-bis, chiunque mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l'omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni [ ...] (primo comma). Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a lire sette milioni settecentoquarantacinquemila si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da dieci a cinquanta milioni di lire. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito (secondo comma)».
L'art. 76, comma 1, del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa) - altra disposizione indicata dal ricorrente quale tertium comparationis - prevede che «Chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia. La sanzione ordinariamente prevista dal codice penale è aumentata da un terzo alla metà».
1.2.2. La giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 49686 del 13/07/2023, Rv. 285435) ha chiarito, quanto alla natura del reato, che integrano il delitto di cui all'art. 7 del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell'autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza solo se funzionali a ottenere un beneficio non spettante ovvero spettante in misura superiore a quella di legge, con ciò affermando, a contrario, che la semplice omissione o falsità da parte del richiedente non integrano il reato.
Il legislatore, con l'introduzione delle fattispecie di cui all'art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, ha inteso punire più severamente di quanto previsto in casi analoghi, condotte che altrimenti potrebbero sfuggire alla sanzione penale, non potendo ricadere in astratto nell'ambito di applicazione dell'art. 316-ter cod. pen. o dell'art. 640-bis cod. pen. Quanto, in particolare, all'ipotesi di "indebita percezione di erogazioni pubbliche" (art. 316-ter cod. pen,), la sanzione prevista è meno grave di quelle di cui all'art. 7 e prevede una soglia minima di contributo percepito pari a euro 3.999,96, al di sotto della quale è esclusa la punibilità penale. Orbene, poiché il reddito di cittadinanza si caratterizza per essere un contributo mensile che non supera mai la soglia anzidetta, il reato non potrebbe mai configurarsi e ciò ha reso necessaria l'espressa previsione di una speciale fattispecie di reato, non essendo sufficiente la sanzione amministrativa pecuniaria, inefficace quanto a soggetti per definizione poco capienti sul piano patrimoniale. Infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, n. 7963 del 20/4/2020, Romano, Rv. 278455- 02), il superamento della soglia di punibilità indicata dall'art.316-ter, secondo comma, cod. pen. integra un elemento costitutivo del reato e non una condizione obiettiva di punibilità, sicché è irrilevante che il beneficiario consegua in momenti diversi contributi che, sommati tra loro, determinerebbero il superamento della soglia, in quanto rileva il solo conseguimento della somma corrispondente ad ogni singola condotta percettiva.
A tale prima ratio legis se ne affianca un'altra, specificamente rilevante in punto di trattamento sanzionatorio: il legislatore ha scelto di creare, nell'ambito della legge speciale sul reddito di cittadinanza, una fattispecie penale speciale dotata di un apparato sanzionatorio più grave di quello del richiamato art. 316- ter, nella consapevolezza del fatto che il reddito di cittadinanza è un beneficio di portata significativa e relativamente facile da conseguire da parte di un gran numero di persone, prestandosi, per le modalità di accesso particolarmente agevoli, ad essere occasione per la produzione di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere o per l'omissione di informazioni dovute.
Il più gravoso trattamento sanzionatorio previsto dal richiamato art. 7 del d.l. n. 4 del 2019 è dunque pienamente ragionevole su un piano costituzionale, in quanto giustificato, sia dall'esigenza di colpire attraverso lo strumento penale l'area degli illeciti che non raggiungono la soglia di punibilità prevista dall'art. 316- ter cod. pen., sia dalla necessità di far corrispondere ad un beneficio di così larga applicazione e di così facile accesso - tanto che numerosi sono i procedimenti penali avviati in materia - una sanzione dotata di adeguata efficacia dissuasiva. Dunque, l'art. 316-ter codice penale non può assumersi come tertium comparationis in un giudizio di ragionevolezza, sussistendo tra l'art. 7 del d.l. n. 4 del 2019 e tale disposizione un rapporto di specialità assistito da chiare e coerenti ragioni sistematiche.
1.2.3. Le considerazioni appena svolte valgono anche quanto al rapporto tra l'art. 7 del d.l. n. 4 del 2019 e l'art. 76, comma 1, del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, giacché tale ultima disposizione è afferente al più ampio e generale ambito di materia della documentazione amministrativa. A ciò deve aggiungersi che l'art. 76, comma 1, risulta ispirato ad una ratio parzialmente diversa rispetto a quella dell'art. 7 del d.l. n. 4 del 2019 - ovvero quella del falso e non quella della truffa
- perché punisce chi semplicemente «rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso», senza prevedere specifiche finalità di indebito conseguimento di benefici.
2. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria ·dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.