
Per la Cassazione, l'istante non ha dato prova dell'impossibilità di ricorso a rimedi alternativi o sostitutivi che avrebbero potuto prevenire la decadenza del termine.
In un giudizio avente ad oggetto il pagamento di una somma a titolo di indennità sostitutiva di mensa, la società ricorrente presenta istanza di rimessione in termini in data contestuale al deposito, ossia quattro giorni dopo la scadenza del termine prescritto
A fondamento della sua istanza, la società ricorrente sostiene che il deposito telematico non è stato completato per il guasto della “scocca” del dispositivo di firma digitale, che ha segnalazione alla sezione Lavoro della Cassazione con un comunicazione PEC; il deposito è avvenuto una settimana dopo a seguito della consegna dal proprio fornitore del nuovo dispositivo di firma digitale e la verifica del suo corretto funzionamento.
A tal proposito, la Suprema Corte ribadisce l'indiritto della giurisprudenza di legittimità secondo cui «l'istituto della rimessione in termini, previsto dall'
Ciò detto, la Cassazione sostiene che il guasto in esame è indubbiamente cagionato da un fattore estraneo alla volontà della ricorrente, ma tuttavia non presenta quel carattere di assolutezza, tale da escluderne l'imputabilità alla medesima, poiché non ha dato prova dell'impossibilità di ricorso a rimedi alternativi o sostitutivi, che ben avrebbero potuto prevenire la decadenza dal termine.
Per questi motivi, la Suprema Corte ha dichiarato il ricorso improcedibile con ordinanza n. 5514 del 1° marzo 2024.
Svolgimento del processo
1. con sentenza 4 gennaio 2023, la Corte d’appello di Milano ha condannato (omissis) s.r.l. al pagamento, in favore di M.P. a titolo di indennità sostitutiva di mensa (per il periodo da agosto 2016 al 31 marzo 2021, data di licenziamento per giustificato motivo soggettivo), della somma di € 6.629,00, oltre accessori di legge: così riformando la sentenza di primo grado, che l’aveva invece rigettata;
2. ferma la natura assistenziale di agevolazione in collegamento occasionale con il rapporto di lavoro, e non retributiva, dei buoni pasto, essa ne ha tuttavia ritenuto, contrariamente al Tribunale, l’irrevocabilità in via unilaterale per effetto della sua fonte (non già in un atto interno aziendale, che ciò consentirebbe, ma) contrattuale, indipendentemente dalla sua qualità collettiva ovvero individuale (nel caso di specie: il contratto di assunzione). Sicché, la modificazione, e tanto più l’abolizione, esigono una rinegoziazione, che in effetti è intervenuta con l’atto abdicativo formalizzato con l’accordo sindacale; ma ad esso il lavoratore non aveva aderito;
3. con atto notificato il 19 giugno 2023, la società ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, illustrati da memoria finale, cui il lavoratore ha resistito con controricorso 4. con istanza depositata il 14 luglio 2023, la società ha richiesto di essere rimessa in termini, ai sensi dell’art. 153, secondo comma c.p.c., per il deposito del ricorso avviato telematicamente il 6 luglio 2023 ma compiuto il 14 luglio 2023, dopo la scadenza del termine di venti giorni dalla data di notificazione;
5. il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Motivi della decisione
1. la ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2099 c.c., per avere la Corte d’appello erroneamente attribuito al buono pasto natura retributiva, anziché assistenziale di agevolazione in collegamento occasionale con il rapporto di lavoro (primo motivo); violazione e falsa applicazione dell’art. 67 CCNL per i dipendenti delle agenzie di sicurezza sussidiaria e degli istituti di investigazioni e di sicurezza, per avere la Corte d’appello erroneamente attribuito ai buoni pasto natura retributiva, benché non indicati tra gli elementi componenti la retribuzione, come puntualmente specificati dalla disposizione contrattuale denunciata (secondo motivo);
2. preliminare all’esame delle due doglianze è tuttavia lo scrutinio dell’istanza di rimessione in termini, richiesta dalla società ricorrente il 14 luglio 2023, in data contestuale al deposito del ricorso (quattro giorni dopo la scadenza del termine prescritto dall’art. 369, primo comma c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis: 10 luglio 2023, di proroga della data di scadenza di calendario, ai sensi dell’art. 155, quarto comma c.p.c.).
Essa l’ha giustificata per l’avvio del deposito telematico il 6 luglio 2023, non completato per il guasto della “scocca” del dispositivo di firma digitale, che ha segnalato alla Sezione Lavoro di questa Corte con una comunicazione PEC del 7 luglio 2023 e che è avvenuto il 14 luglio 2023, a seguito della consegna soltanto il 12 luglio 2023 dal proprio fornitore del nuovo dispositivo di firma digitale e la verifica del corretto funzionamento;
2.1. secondo indirizzo costante della giurisprudenza di legittimità, l'istituto della rimessione in termini, previsto dall'art. 153, secondo comma c.p.c., come novellato dalla legge n. 69 del 2009, opera anche con riguardo al termine per proporre impugnazione e richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà che presenti i caratteri dell'assolutezza, e non già di un'impossibilità relativa, né tantomeno di una mera difficoltà (Cass. 23 novembre 2018, n. 30512; Cass. 3 dicembre 2020, n. 27726; Cass. s.u. 4 dicembre 2020, n. 27773; Cass. 7 luglio 2023, n. 19384, che nella specie ha escluso che il malfunzionamento della rete informatica dello studio professionale, addebitata dal ricorrente ad un "virus" informatico che avrebbe criptato tutti i dati ed impedito l'accesso all'"account" di posta elettronica, non consentendo di visionare la notifica della sentenza impugnata, addotto dal difensore a giustificazione dell'istanza di rimessione in termini, fosse riconducibile ad un fattore estraneo alla parte, avente i caratteri dell'assolutezza e idoneo, in via esclusiva, a causare la tardività dell'impugnazione);
2.2. reputa il collegio che una tale vicenda, interna all’ambito organizzativo della ricorrente e pertanto dipendente da una causa ad essa riconducibile, indubbiamente cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà, non presenti tuttavia quel carattere di assolutezza, tale da escluderne l’imputabilità alla medesima parte: non avendo essa dato prova dell’impossibilità di ricorso a rimedi alternativi o sostitutivi, che ben avrebbero potuto prevenire la decadenza dal termine;
3. pertanto il ricorso deve essere dichiarato improcedibile con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
La Corte
dichiara improcedibile il ricorso e condanna la società ricorrente alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 2.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.