La Corte d'Appello riforma una decisione di primo grado, riconoscendo in capo all'attrice il diritto alla rifusione del danno causato dall'omessa informazione sui risultati dei «markers epatici» che ha determinato il ritardo nella terapia.
Nel caso in esame, la parte attrice lamentava la mancata comunicazione della positività al virus C, emersa nel 1992 a seguito di un ricovero, ma comunicata solo nel 2014, quando questa si era già evoluta in cirrosi epatica. Secondo la paziente, l'omessa comunicazione aveva comportato la perdita della chance di guarigione e, per questo motivo, chiedeva la rifusione del...
Motivi della decisione
Fatti di causa
Il Tribunale di Palermo, con sentenza n. 1511/2021 emessa in data 6.4.2021, rigettò la domanda attorea volta ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale patito da G.N., quantificato in complessivi € 2.247.823,00, in conseguenza del comportamento colposo tenuto dai sanitari in servizio presso omissis, per omessa comunicazione della positività al virus C, già emergente nell’anno 1992, in occasione di un intervento di tiroidectomia, scoperta successivamente, nell’anno 2014, quando la patologia era già evoluta in cirrosi epatica.
Avverso la predetta decisione proponeva appello G. N.. Resistevano al gravame l’omissis e l’Assessorato regionale alla salute.
Disposta la trattazione scritta ai sensi dell’art. 127ter c.p.c., il giorno 30.10.2023, sulle conclusioni precisate come in epigrafe, la causa è stata posta in decisione, con assegnazione, ex artt. 352 e 190 c.p.c., dei termini di giorni sessanta per il deposito delle comparse conclusionali, e di giorni venti per il deposito delle memorie di replica.
Motivi di appello
1. Con il primo motivo di appello, l’attrice in primo grado investe di gravame la sentenza nella parte in cui ha erroneamente applicato le regole del riparto dell’onere probatorio, ritenendo che non fosse provato il nesso causale tra il comportamento colposo della omessa comunicazione con il danno prospettato della perdita della chance di guarigione o mancato aggravamento, senza tener conto che, in forza delle regole discendenti dalla responsabilità contrattuale dell’azienda ospedaliera, il danneggiato deve solo provare l’esistenza del contratto ed allegare l’altrui inadempimento, spettando alla controparte dimostrare di avere correttamente adempiuto. Nella specie, la sentenza del Tribunale di Palermo avendo addossato alla parte attrice l’onere probatorio relativo alla malattia contratta prima del ricovero presso il nosocomio ha violato i principi della vicinanza della prova ripetutamente affermati dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite. La G., avendo scoperto di essere già positiva al virus nel 1992 ha affermato che, in occasioni dei 3 parti eseguiti negli anni 1985, 1989 e 1990, a seguito del controllo epatico, alcuna positività era emersa con l’effetto che, pertanto, il contagio avrebbe dovuto collocarsi in epoca immediata-mente antecedente all’intervento del 1992.
2. Con il secondo motivo di appello, G. rileva l’errore del primo giudice per avere escluso l’esistenza del nesso causale rispetto alla chance di guarigione ovvero all’aggravamento della malattia degenerativa, trascurando che, l’omessa comunicazione dell’infezione è comportamento colposo qualificato, astrattamente idoneo alla produzione del danno impedendo all’attrice di intervenire tempestivamente per evitare la cronicizzazione e l’evoluzione in cirrosi, con conseguente diminuzione dell’aspettativa e il peggioramento della qualità di vita che poteva migliorare attraverso la somministrazione di cure adeguate tempestive, anche di tipo palliativo, con lesione all’autodeterminazione.
Tanto premesso, deve prendersi atto che la sentenza di primo grado non è investita di gravame ed è, pertanto, passata in giudicato nella parte in cui ha affermato il difetto di legittimazione passiva dell’omissis rispetto all’evento di danno per cui è causa, riconoscendo la legittimazione unicamente in capo all’Assessorato regionale. E’, ancora, passata in giudicato la sentenza nella parte in cui ha rigettato l’eccezione di prescrizione la cui decisione è parimenti non appellata.
Nel merito, l’attrice si duole del mancato riconoscimento del danno patito in conseguenza del comportamento colposo tenuto dai sanitari dell’omissis per omessa informazione circa gli esiti dei “markers epatici”, cui venne sottoposta in occasione del ricovero presso il reparto di Chirurgia III dell’Ospedale Civico di Palermo dal 27.10.1992 al 14.11.1992. In quell’occasione veniva refertata, in data 6.11.1992, ma solo nel foglio del servizio di microbiologia e virologia allegato alla cartella clinica per non trascritto nel diario clinico, la presenza di “anticorpi anti HCV positivo”, esiti neppure inseriti nella relazione di dimissione ove veniva indicato solo “esami di laboratorio: routine nei limiti”.
Lamenta la G. di avere scoperto di essere affetta da malattia epatica solo nell’anno 2014, quando a seguito di una visita epatologica (03.12.2014) si evidenziava una “cirrosi epatica HCV+ scarsa-mente attiva (ALT circa 2 volte la norma) in buon compenso funzionale (classe A di Child) con segni di ipersplenismo funzionale (PLT 60.000)” e la paziente, che all’anamnesi presentava “familiarità positiva per epatopatia (la mamma)”, appariva in “buone condizioni generali… obiettiva-mente fegato palpabile di consistenza aumentata. Splenomegalia. Non altri segni di epatopatia scompensata”. Venivano quindi condotti accertamenti strumentali, con riscontro di “Piccole varici esofagee. Beanza Cardiale. Gastropatia ipertensiva lieve” (cfr. esame EGDS del 23.03.2015), valori al fibroscan indicativi di cirrosi (Stifness KPa 17,8 all’esame del 15.04.2015, poi incrementato a 22,8 al successivo del 29.01.2016) e alta replicazione virale in circolo (HCV RNA 1.620.000 U/ml in data 20.04.2015). Il comportamento omissivo iniziale avrebbe comportato l’assenza, per un arco temporale molto lungo (circa 22 anni), di assunzione di terapie adeguate minando la chance di guarigione ovvero di minor aggravamento della malattia sfociata in cirrosi epatica.
Il primo giudice, tenendo conto degli esiti della ctu, ha ritenuto che fosse carente il nesso di causalità tra tale comportamento omissivo colposo e il danno prospettato alla stregua della considerazione esposta dal ctu: “sicuramente l’omessa comunicazione di positività ad HCV ha causato un effettivo ritardo nella valutazione dello stato della malattia ed ha impedito alla paziente di poter essere avviata a specifici proto-colli diagnostico-terapeutici; se questi avrebbero effettivamente evitato l’insorgenza della cirrosi compensata come poi mostrato nel 2014 non è possibile asserirlo con sufficiente grado di probabilità, attesi unicamente i dati statistici sopra riportati, anche alla luce del genotipo (1b) di HCV presentato dalla paziente”.
Il ragionamento esposto dal primo giudice è investito da gravame nella parte in cui ha ritenuto di addossare sulla danneggiata l’onere probatorio sul nesso di causalità e sull’epoca del contagio, in assenza di fattori di rischio salvo la positività della madre ad epatopatia, dichiarata nell’anno 2014, senza, tuttavia, involgere l’accertamento peritale e l’analisi condotta esaurientemente dal ctu.
L’appello è fondato nei termini che di seguito si espongono.
E’ emerso con certezza, mai neppure contestato, che vi è stato un comportamento omissivo colposo dei sanitari dell’omissis nell’anno 1992, consistente nella “omessa informazione” sulla positività ad infezione da virus HCV non indicata nella relazione di dimissione né comunicata in altro modo alla paziente. Il comportamento alternativo corretto sarebbe stato, come è ovvio, quello di adeguatamente informare la G. sulla riscontrata HCV positività, sì da consentirle di “accedere tempestivamente ad un percorso di approfondimento clinico-strumentale diagnostico sullo stato della malattia e, eventualmente, anche sulle possibili cause della positività, in tal modo avviandola a controlli specialistici seriati di natura epatologica”.
Il punto controverso, che ha determinato il primo giudice a rigettare la domanda, attiene al nesso causale giacché lo stesso consulente ha confermato che, anche qualora fosse stato adempiuto correttamente tale obbligo ciò, con elevato grado di probabilità, non avrebbe scongiurato la cronicizzazione della malattia perché, in primo luogo, l’infezione da HCV nell’80%-85% dei casi evolve in epatite cronica e di questi una percentuale variabile del 20-30% dei soggetti evolva verso la cirrosi in un periodo medio di 20-30 anni; in secondo luogo, tenendo conto dell’epoca di infezione, negli anni 1990-2000, anche il tipo di terapie conosciute e la risposta benefica era scarsa “una alta percentuale dei soggetti non rispondeva alla terapia farmacologica passata, con percentuali del 20% di efficacia nei primi trattamenti con interferon e sino al 29% nei trattamenti combinati con interferon e ribavirina con fattori sfavorevoli (come il genotipo 1, presente anche nel caso in questione), con percentuali lievemente più alte nei più recenti trattamenti con interferon peghilato in combinazione con ribavirina, che comunque supera-vano il 50% di risposta in casi selezionati e senza fattori predittivi negativi”.
Dal quadro esposto, tuttavia, può agevolmente ricavarsi che, se anche con percentuali basse, che si assestano intorno al 15% di probabilità di guarigione (percentuale che residua da quella dell’80-85% che si evolve in epatite cronica), la totale omessa informazione ha ostato all’avvio precoce di terapie adeguate che avrebbero potuto rallentare e, dunque, diminuire l’evoluzione negativa e l’aggravamento della malattia, come osservato dallo stesso ctu, il quale non è riuscito, anche per l’incertezza del tempo del contagio, a quantificare il grado di probabilità comunque basso, che per integra comunque un pregiudizio suscettibile di ristoro.
Il danno, oggetto di risarcimento, in presenza di comportamento colposo accertato, riferibile causalmente all’omessa informazione è, dunque, dato da quella percentuale, seppur bassa, di probabilità di guarigione ovvero di minor aggravamento della malattia (15%), sfociata poi in cirrosi epatica, che poteva pure essere scongiurata nel caso di somministrazione precoce delle cure, fin dall’anno 1992.
Quanto ai criteri di liquidazione di tale tipo di danno, necessaria-mente ancorato a parametri equitativi, il ctu ha accertato: “si ritiene che la signora G. N. rientri oggi nella fascia intermedia della classe III di danno epatico (“…sono da collocarsi in questa classe tutte quelle forme cliniche caratterizzate dall’instaurarsi dello stato cirrotico con una sorta di compenso senza gravi complicanze...da tenere presente comunque la possibilità di un’ampia fluttuazione fino ai casi di scompenso con complicanze e situazioni di insufficienza epatica tali da non poter essere in alcun modo vicarbabili…”) per cui appare potersi riconoscere complessivamente un danno biologico pari al 50%, senza associato periodo di danno biologico temporaneo assoluto o parziale (stante la non documentata insorgenza di complicazioni connesse alla terapia antivirale). E’ possibile asserire che molto probabilmente al momento della omessa comunicazione la paziente si presentasse in una prima classe di danno epatico, valutabile intorno al 5-10% di danno biologico permanente (essendovi il solo riscontro di HCV positività, in assenza di ipertransaminasemia), mentre non è dato sapere quando la paziente sia andata incontro a cirrosi epatica, che nel 2014 veniva diagnosticata e che sino al gennaio del 2016, stante il quadro clinico-strumentale, poteva es-sere valutata invece all’interno della classe III di danno epatico, con una percentuale prossima al 50%, analogamente a quella oggi riportata (“…sono da collocarsi in questa classe tutte quelle forme cliniche caratterizzate dall’instaurarsi ello stato cirrotico con una sorta di compenso senza gravi complicanze…”, cfr. Bargagna e Canale, op. cit.)”.
Escludendo che alla stessa possa riconoscersi un risarcimento commisurato alla percentuale attuale del 50% di danno biologico, riferibile alla cirrosi epatica, come detto non causalmente riconducibile al comportamento colposo, si ritiene, tuttavia, di muovere dall’entità di tale danno ed applicare alla somma così determinata, la percentuale di possibilità di guarigione o di minor aggravamento, che è la misura del pregiudizio eziologicamente connessa all’illecito e suscettibile pertanto di ristoro (15%).
Indi, ai fini della liquidazione del danno, il collegio reputa congruo procedere applicando i parametri indicati dalla Tabella di Milano aggiornata al 2021 (cfr. Cass. n. 12408/2011), che si ritengono congrui per la liquidazione del danno biologico (cfr. 7770/2021, 26300/2021, 10579/2021, 11719/2021, 33005/2021), ancorando il danno all’anno 2014, quando la malattia si è evoluta in cirrosi epatica e il danno permanente oramai consolidato, il risarcimento sarà pari a complessivi €358.224,00 (punto 6.368,40 + 3184,21 per la personalizzazione da riconoscersi in via presuntiva rispetto a tale tipo di malattia permanente e progressiva, per anni 51), sulla cui somma viene applicata la percentuale del 15%, che misura la chance di guarigione o minor aggrava-mento perduta, per un risarcimento complessivo pari ad € 53.733,60 da riconoscersi all’attrice.
Su tale somma, già rivalutata all'attualità, vanno calcolati gli interessi legali, previa devalutazione al momento del fatto (agosto 1992) e rivalutazione di anno in anno secondo gli indici Istat dal fatto alla data della presente pronuncia (cfr. Cass. Sez. Un. n. 1712/1995), per l'importo finale di € 89.531,59 (di cui € 35.797,99 a titolo di interessi).
Pertanto, in parziale accoglimento dell’appello proposto ed in parziale riforma della sentenza di primo grado impugnata, l’Assessorato regionale alla salute è condannato a pagare a G. N. la complessiva somma di € 89.531,59, oltre gli interessi legali dalla data della domanda fino al soddisfo.
Spese
In ossequio al principio della soccombenza, l’Assessorato regionale è condannato a rimborsare all’appellante le spese del primo e del secondo grado del giudizio che si liquidano come in dispositivo, secondo i parametri di cui al D.M. 55/2014 come modificato ed integrato dal D.M. 147/2022 per il solo giudizio di secondo grado, ponendo quelle di ctu, come liquidate con separato decreto emesso nel giudizio di primo grado, a carico della parte soccombente; l’appellante dovrà es-sere condannata a rimborsare le spese di lite di questo grado del giudizio all’omissis rispetto alla quale è confermato il difetto di legittima-zione passiva, come dichiarato dal primo giudice, la cui sentenza in parte qua non è stata impugnata.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando, nel contraddittorio delle parti, in parziale accoglimento dell’appello proposto e in parziale riforma della sentenza n. 1511/2021 emessa dal Tribunale di Palermo in data 6.4.2021;
condanna l’Assessorato regionale alla salute, in persona dell’assessore pro tempore, a pagare a G. N. la complessiva somma di € 89.531,59, oltre gli interessi legali dalla data della presente decisione fino al soddisfo;
condanna l’Assessorato regionale alla salute, in persona dell’assessore pro tempore, a rimborsare a G. N. le spese del giudizio che si liquidano in complessivi € 7050,00 per il primo grado ed € 7160,00 per il secondo grado, oltre spese generali, cpa ed iva come per legge, oltre le spese di ctu, come liquidate con separato decreto emesso nel giudizio di primo grado;
condanna G. N. a rimborsare all’omissis – omissis, le spese di questo grado del giudizio che liquidano in complessivi € 6070,00 oltre spese generali ed oneri previdenziali previsti per legge.