Svolgimento del processo
1. In primo grado e in appello, gli imputati erano stati ritenuti colpevoli dei delitti di violenza privata ed estorsione aggravata in danno del loro connazionale (omissis), per avere da lui ottenuto, con minacce e violenze fisiche, la sottoscrizione in loro favore di alcuni titoli di credito.
La Corte di cassazione, però, con sentenza n. 18688 del 16 febbraio 2023, annullava con rinvio la sentenza d'appello, nella parte in cui era stato ravvisato il delitto di estorsione anziché quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, rilevando: che gli imputati avevano corrisposto all'(omissis) la somma di seimila euro ciascuno, affinché quegli facesse da intermediario con un possibile datore di lavoro, in modo da ottenere per alcuni loro parenti i nulla-osta necessari per consentirne l'ingresso in Italia; che l'assunto della Corte d'appello, per cui la prestazione tra costoro concordata avesse carattere illecito, non risultava adeguatamente dimostrato; che, per la configurabilità del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, non è necessario dimostrare la liceità delle pretesa fatta valere dall'agente, ma soltanto la ragionevole convinzione di quest'ultimo in tal senso; che, nel caso specifico, essendo gli imputati rimasti vittima di un raggiro da parte della persona offesa, dato che quest'ultima aveva consegnato loro dei nulla-osta palesemente falsi, essi, qualora avessero adito l'autorità giudiziaria, avrebbero potuto ottenere il risarcimento del danno.
2. Decidendo in sede di rinvio, la Corte di appello di Milano ha confermato la qualificazione del fatto come estorsione.
Richiamati i princìpi fissati dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 29541 del 16 luglio 2020, rie. Filardo (Rv. 280027), hanno ritenuto quei giudici che, per il raggiro che avrebbe dato origine alla loro condotta violenta, gli imputati non avrebbero potuto ricevere alcuna tutela dall'ordinamento e che di ciò essi erano ben consapevoli, in quanto la prestazione remunerata ad (omissis), non consisteva nell'avvio di una regolare pratica amministrativa per l'ingresso in Italia, quanto piuttosto nel procacciamento, mediante un fittizio e compiacente datore di lavoro, della falsa documentazione necessaria a quel fine.
In sintesi, gli elementi posti dalla Corte distrettuale a sostegno di tale sua conclusione sono i seguenti: a) il contesto in cui è maturato l'accordo tra gli imputati e la persona offesa, estraneo a qualsiasi canale ufficiale di regolarizzazione di cittadini stranieri; b) l'assenza di qualsiasi titolo legittimo, da parte della persona offesa, per l'esercizio di un'attività d'intermediazione; e) l'ingente importo versato dagli imputati, tanto più se rapportato alle loro modeste condizioni economiche di operai; d) il carattere necessariamente aleatorio della procedura di regolarizzazione degli ingressi in Italia, perciò tale da non poter legittimare la ragionevole aspettativa di un esito positivo e, quindi, da giustificare un investimento economico così rilevante; e) l'improbabilità che un imprenditore potesse assumere tutti i cinque familiari degli imputati oggetto della richiesta avanzata ad (omissis); f) la speciale veemenza della condotta violenta verso la vittima, trasportata con la forza nell'abitazione di uno degli imputati ed ivi pesantemente picchiata; g) la risolutezza criminale di costoro, quale emerge dalle loro conversazioni intercettate, in cui si dicevano pronti, se (omissis) non avesse pagato, a sequestrargli la moglie; h) l'aver cercato di procurarsi i documenti di costui presso un altro loro connazionale, al verosimile fine di tenerlo sotto ricatto;
i) l'ulteriore aggressione da lui subìta alcuni mesi dopo, in Egitto, da parte di un parente di uno degli imputati, e quindi l'esercizio della pretesa anche ad opera di terzi diversi dagli ipotetici aventi diritto; /) l'oggetto della prestazione compensativa, consistita nella sottoscrizione di titoli cambiari validi in Egitto, il cui ordinamento consente l'arresto del debitore inadempiente e la confisca dei suoi beni, potendo da ciò desumersi l'intento degli imputati di conseguire un profitto ulteriore e sproporzionato rispetto al danno economico patito e suscettibile di ristoro; m) la strumentalità delle denunce, tutte uguali, sporte dagli imputati nei confronti di (omissis), intervenute soltanto a distanza di vari mesi e frutto di un'azione concertata nonché tesa a screditare costui, come si evince dalle loro conversazioni intercettate.
3. Avverso tale decisione, con unico atto del loro comune difensore, ricorrono gli imputati Abdelrahman e Khalaf, compiutamente in epigrafe generalizzati, censurando vizi cumulativi di motivazione.
Ai dati di fatto ed agli argomenti valorizzati in sentenza, il ricorso obietta che:
- l'accordo intervenuto tra gli imputati ed (omissis) non era estraneo a qualsiasi canale ufficiale di regolarizzazione, poiché la relativa procedura normativa, disciplinata dall'art. 24, t.u. immigrazione, e non tenuta in considerazione dalla Corte d'appello, richiede pressoché inevitabilmente la previa mediazione volta al reperimento di un'attività lavorativa in Italia necessaria per l'ingresso dello straniero nel nostro territorio;
- per svolgere tale attività di mediazione non sono richiesti alcun titolo particolare o speciale qualifica;
- illogica è la motivazione là dove reputa inverosimile che un unico datore di lavoro potesse assumere tutti e cinque i parenti degli imputati: si trattava, infatti, di poche persone e, di solito, alla procedura di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari accedono imprese di significative dimensioni, che hanno necessità di consistente forza lavoro e di personale non qualificato;
- la valutazione di eccessività della somma pagata dagli imputati è del tutto soggettiva e non tiene conto delle obiettive difficoltà della procedura, degli importi ben maggiori corrisposti dai migranti clandestini per giungere in Italia, del fatto che gli imputati fossero soggetti - secondo la stessa Corte d'appello - ben inseriti nel contesto socio-lavorativo in Italia, nonché dell'impossibilità per costoro di adire direttamente gli organi istituzionali competenti per l'avvio delle pratiche, non essendo essi imprenditori;
- i giudici d'appello non spiegano quale sarebbe stata la procedura parallela ed illegale con la quale gli imputati avrebbero inteso procurarsi i documenti;
- i contatti telefonici preliminari alle denunce non dimostrano alcuna pervicacia accusatoria, essendo invece perfettamente compatibili con la comune situazione dannosa in cui gli stessi versavano e con l'opportunità di una difesa comune;
- la sottoscrizione delle cambiali è stata determinata unicamente dalla mancanza di disponibilità di sufficienti liquidità da parte di (omissis), ed anzi è sintomatica della convinzione degli imputati circa della liceità della loro pretesa economica; peraltro, quei titoli recavano un importo complessivo esattamente corrispondente alle somme versate da costoro;
- la richiesta del documento d'identità di (omissis), avanzata dagli imputati al suo datore di lavoro, era giustificata soltanto dalla volontà di adire le vie legali, come riferito da costui allo stesso (omissis).
4. Gli stessi vizi e gli stessi temi vengono dedotti con il comune ricorso proposto dagli imputati Mohamed Hesham e Mohamed Ibrahim per il tramite del loro difensore.
In sintesi, ivi si rileva:
- che gli imputati sono rimasti vittima di una truffa e, pertanto, la loro pretesa non può ritenersi del tutto arbitraria e sfornita di una possibile base legale, secondo quello che è il discrimine tracciato dalla giurisprudenza di legittimità tra le due fattispecie incriminatrici in discussione;
- che, per giustificare il carattere illecito della prestazione convenuta con l'(omissis), la sentenza valorizza le dichiarazioni di quest'ultimo, tuttavia da quegli stessi giudici ritenute in parte inverosimili;
- che la somma versata dagli imputati non è esosa, se paragonata a quella che si spenderebbe avvalendosi di professionisti per l'espletamento della procedura;
- che la sentenza illogicamente trascura il fatto che anche altre persone, oltre agli imputati, siano rimaste vittime di analogo raggiro da parte di (omissis);
- che nessuna rilevanza può attribuirsi alla conversazione in cui gli imputati ipotizzano ritorsioni anche a danno della moglie di costui, trattandosi di fatto estraneo alla contestazione e di semplice manifestazione d'intenti, non seguita da alcun atto esecutivo;
- che l'ammontare della somma richiesta dagli imputati non eccedeva quanto da essi versato per effetto del raggiro patito;
- che l'aver essi denunciato per truffa l'(omissis) conferma la loro buona fede.
5. Ha depositato requisitoria scritta il Procuratore generale, concludendo per l'inammissibilità dei ricorsi.
Motivi della decisione
1. Il compito devoluto dalla sentenza rescindente al giudice di rinvio era quello di «valutare l'oggetto dell'accordo intervenuto tra gli imputati e il loro connazionale, che comportava anche la risoluzione di aspetti burocratici e il contatto con imprenditori disponibili ad assumere stagionalmente i parenti dei cittadini extracomunitari già presenti sul territorio, e il carattere eventualmente illecito della prestazione concordata, e verificare se dagli atti emerge la prova che gli imputati abbiano posto in essere la condotta loro contestata nella ragionevole convinzione di essere stati vittima di un raggiro e di avere il diritto di ottenere la restituzione della somma pattuita e versata». Questo perché - specifica la Corte di cassazione - «emerge pacificamente dall'esame degli atti che gli imputati erano stati vittime di un raggiro da parte della persona offesa, che in cambio della somma di 6.000 € aveva loro consegnato un nullaosta grossolanamente falsificato»; con la conseguenza che, «nella veste di vittime di una truffa, i predetti, qualora avessero denunciato all'autorità giudiziaria la persona offesa, avrebbero potuto ottenere il riconoscimento del danno subito coincidente con la somma di denaro versata per ottenere i nulla osta contraffatti».
In altri e più sintetici termini, si trattava di accertare quale fosse stato l'intento degli imputati: se, cioè, avessero agito con l'intenzione di eludere la normativa in materia d'immigrazione, pagando per procurarsi una fittizia assunzione dei loro parenti; oppure se il loro scopo fosse stato quello di ottenere effettivamente tale assunzione, remunerando chi si era palesato loro come capace d'intercedere positivamente presso un datore di lavoro.
E le conseguenze sul piano giuridico di tali ipotesi alternative le aveva delineate già la stessa sentenza rescindente, dalla quale non è dunque possibile discostarsi: nel primo caso, cioè, si sarebbe potuta configurare l'estorsione; nel secondo, invece, l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, essendo plausibile che gli imputati avessero agito nella convinzione della legittimità della loro pretesa, una convinzione peraltro fondata, in quanto vittime di una truffa.
2. Tanto premesso, le circostanze di fatto indicate dai giudici d'appello come rivelatrici di un'intenzione fraudolenta condivisa dagli imputati con il loro connazionale Ali (omissis), e quindi della natura estorsiva della successiva condotta da essi tenuta nei suoi confronti, ad avviso del Collegio non si presentano dirimenti, poiché risultano compatibili con entrambe le suddette ipotesi alternative.
Il rigore della disciplina normativa italiana in tema d'immigrazione dai Paesi esterni all'Unione europea, da un lato, e la forte pulsione psicologica, dall'altro, dei cittadini stranieri provenienti dalle aree economicamente più svantaggiate, che nasce dal bisogno e dalla prospettiva di migliorare notevolmente le proprie condizioni di vita e quelle dei propri familiari, rappresentano l'humus più favorevole per la nascita e l'alimentazione di un mercato del lavoro per lo meno opaco, in cui l'intermediazione è affidata a persone sprovviste di specifici titoli professionali, ma capaci, di fatto ed in modi più o meno disinvolti, di favorire l'incontro tra domanda ed offerta di lavoro.
Calando, allora, la vicenda in esame in un siffatto contesto, risulta del tutto plausibile che gli imputati, senza alcun intento fraudolento, ma soltanto con l'obiettivo di procurare un effettivo lavoro in Italia ai loro parenti, si potessero rivolgere agli operatori di questo mercato "sotterraneo", dando fondo ai loro risparmi per remunerarli e reagendo al raggiro subìto con particolare violenza: quella che può nascere anche dalla disperazione e non solo da finalità prevaricatrici, ma che comunque - secondo la citata "sentenza Filardo" delle Sezioni unite - non costituisce elemento differenziale tra i delitti di estorsione e di "ragion fattasi".
Piuttosto, la circostanza per cui costoro abbiano assunto anche iniziative legali, quali la proposizione delle querele ed il ricorso a titoli cambiari a garanzia del loro credito, peraltro per un importo esattamente pari a quanto versato al loro connazionale, dà sostegno logico alla conclusione per cui essi abbiano agito nella ragionevole convinzione di avere un titolo legittimo alla restituzione di quelle somme.
3. In ragione di quanto esposto, deve allora concludersi per la sussunzione della condotta degli imputati nella fattispecie delittuosa dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, prevista e punita dall'art. 393, cod. pen..
Questo reato è procedibile soltanto a querela di parte, la quale, nelle more del processo, è stata rimessa dalla persona offesa, con remissione accettata dagli imputati (vds. verbali, depositati in atti).
Il reato, perciò, si è estinto (art. 152, primo comma, cod. pen.).
Più precisamente, tanto è avvenuto nei confronti degli imputati (omissis), (omissis) e (omissis), non anche nei confronti di (omissis): tuttavia, la remissione della querela, con i relativi effetti estintivi, deve intendersi estesa anche a quest'ultimo, a norma dell'art. 155, secondo comma, cod. pen., non risultando che egli l'abbia ricusata.
Estintosi il reato, la sentenza impugnata dev'essere conseguentemente annullata senza rinvio.
Rimangono a carico degli imputati ricorrenti le spese del procedimento, non essendosi diversamente convenuto in sede di remissione (art. 340, quarto comma, cod. pen.).
P.Q.M.
Qualificato il fatto ai sensi dell'art. 393 cod. pen., annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per remissione di querela.