
Svolgimento del processo
1. Con contratto del 1° luglio 1999, P. F. S. concesse in comodato ad uso abitativo e senza predeterminazione di durata (ma con la pattuizione del rilascio a semplice richiesta con preavviso di trenta giorni) un appartamento di sua proprietà sito in (omissis) al figlio G. S., all’epoca single.
Verso la fine dell’anno 2003, G. S. conobbe A. B., con la quale dal gennaio 2004 iniziò una convivenza more uxorio nell’appartamento oggetto di comodato, convivenza da cui nacquero (nell’anno 2005 e nell’anno 2010) due figli e che cessò nell’aprile 2011, per sopravvenuta intolleranza della comunione di vita, con trasferimento di G. S. presso altra residenza (messagli a disposizione dalla madre).
Con decreto del luglio 2014, il Tribunale di Genova assegnò ad A. B. l’appartamento quale casa familiare.
Nel frattempo, con atto del febbraio 2006, P. F. S. aveva donato il diritto di nuda proprietà sull’immobile, in quote paritarie di 1/3 ciascuno, ai suoi tre figli (G., F. e M. S.), riservando a sé l’usufrutto vitalizio.
2. Con ricorso del luglio 2016, P. F. S., G., F. e M. S. domandarono giudizialmente declaratoria di cessazione del contratto di comodato con condanna di A. B. al rilascio dell’immobile.
3. La domanda è stata disattesa in ambedue i gradi del giudizio di merito.
4. Avverso la decisione in epigrafe indicata, resa in sede di appello, ricorre per cassazione P. F. S., affidandosi a tre motivi; resiste, con controricorso, A. B..
Non svolgono difese nel giudizio di legittimità, benché ritualmente intimati, G., F. e M. S..
5. Le parti costituite hanno depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso deduce «violazione e falsa applicazione degli artt. 1321 e 1326 cod. civ., dell’art. 1230 cod. civ., di norme e princìpi giuridici relativi alla destinazione d’uso di immobile, desumibili dai capi 1 e 2 della legge n. 392 del 1978, dall’art. 981 cod. civ., dall’art. 23-ter del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, degli artt. 41 e 42 Cost., ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3-4, cod. proc. civ.». Ad avviso di parte ricorrente, la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto una modifica del contratto di comodato in origine stipulato tra P. F. S. ed il figlio G. in difetto degli indefettibili presupposti della proposta di una parte e dell’accettazione dell’altra, non certo desumibili dal silenzio e dall’inerzia serbati dalla comodante, oltremodo in assenza di qualsivoglia mutamento di destinazione d’uso dell’immobile, sin dalla genesi del negozio adibito ad uso d’abitazione; ad ogni buon conto, una pur eventuale modifica del contratto non implicava il venir meno della clausola pattizia di libera disdettabilità, espressamente pattuita per iscritto, non rinunciata dalla comodante ed integrante un limite alla durata del comodato per esigenze familiari.
2. Il secondo mezzo denuncia «violazione o falsa applicazione degli artt. 1803, 1809 e 1810 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, primo comma, numm. 3-4, cod. civ.».
Rileva la ricorrente che il comodato concesso per soddisfare esigenze familiari deve intendersi di durata pari alle esigenze stesse, salvo che le parti non abbiano pattuito particolari limitazioni, come accaduto nel caso concreto: da ciò deduce che la gravata sentenza, nel reputare caducata la clausola di disdettabilità del rapporto, «ha violato la concreta volontà delle parti, aumentando in maniera spropositata (da 30 giorni a 30 anni) il limitato peso che, del tutto gratuitamente e liberamente, la comodante si era voluta addossare allorché aveva concesso l’appartamento in comodato».
3. Il terzo motivo prospetta «violazione o falsa applicazione degli artt. 1362, 1366, 1371 e 1372 cod. civ.. Violazione di un principio fondamentale dell’ordinamento. Denuncia ai sensi dell’art. 360, primo comma, numm. 3-4, cod. civ.».
Secondo l’impugnante, il giudice territoriale, trascurando la volontà espressa dalle parti con la clausola di disdettabilità, ha violato i canoni di ermeneutica negoziale, in particolare la regola dell’interpretazione secondo buona fede per cui «il contratto deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato».
4. I motivi - da scrutinare congiuntamente, attesa l’intrinseca connessione che li avvince – sono destituiti di fondamento.
4.1. Lo statuto di disciplina del comodato di immobile stipulato per esigenze familiari costituisce l’esito di una progressiva elaborazione della giurisprudenza di questa Corte, nella sua composizione più tipica di organo della nomofilachia.
Dapprima Cass., Sez. U, 21/07/2004, n. 13603, enunciò il principio di diritto per cui in caso di comodato avente ad oggetto un bene immobile, stipulato senza la determinazione di un termine finale, l’individuazione del vincolo di destinazione in favore delle esigenze abitative familiari non può essere desunta sulla base della mera natura immobiliare del bene, concesso in godimento dal comodante, ma implica un accertamento in fatto, di competenza del giudice del merito, che postula una specifica verifica della comune intenzione delle parti, compiuta attraverso una valutazione globale dell’intero contesto nel quale il contratto si è perfezionato, della natura dei rapporti tra le medesime, degli interessi perseguiti e di ogni altro elemento che possa far luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare.
A questa affermazione Cass., Sez. U, 29/09/2014, n. 20448, ha successivamente apportato le seguenti puntualizzazioni:
-) il comodato di bene immobile stipulato per la soddisfazione di esigenze abitative familiari del comodatario, pur inquadrabile nello schema del «comodato a termine indeterminato», non è, in punto di disciplina, riconducibile al comodato senza determinazione di durata (altrimenti denominato precario) regolato dall’art. 1810 cod. civ., bensì alla figura prevista dall’art. 1809 cod. civ., in quanto la determinazione della durata della concessione, non ancorata ad un termine prefissato, è comunque desumibile per relationem dall’uso convenuto;
-) il comodato di casa familiare non ha necessariamente durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorché disgregata: compete ai giudici di merito valutare la sussistenza della pattuizione di un termine finale di godimento del bene, importando la concessione per destinazione ad abitazione familiare una scrupolosa verifica delle intenzioni delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti, sicché il rapporto è destinato a persistere o a venir meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari (pur relative ai figli minori) che avevano legittimato l’assegnazione dell’immobile;
-) la suddetta verifica si risolve, al fondo, in un «mero problema di prova, risolvibile grazie al prudente apprezzamento del giudice di merito»: più specificamente, «il comodatario, o il coniuge separato con cui sia convivente la prole minorenne o non autosufficiente, che opponga alla richiesta di rilascio la esistenza di un comodato di casa familiare con scadenza non prefissata, ha l’onere di provare […] che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento», e «la prova potrebbe risultare più difficile qualora la concessione sia avvenuta in favore di comodatario non coniugato né prossimo alle nozze, dovendosi in tal caso dimostrare che dopo l’insorgere della nuova situazione familiare il comodato sia stato confermato e mantenuto per soddisfare gli accresciuti bisogni connessi all'uso familiare e non solo personale»;
-) spetta invece a chi invoca la cessazione del comodato per il raggiungimento del termine fissato per relationem dimostrare il relativo presupposto, ovvero l’avvenuto dissolversi delle esigenze connesse all’uso familiare;
-) l’art. 1809 cod. civ. rivela, quale componente intrinseca del tipo contrattuale, che il comodato di casa familiare nasce nella convinzione della stabilità del rapporto, con la possibilità di risolverlo in caso di un «urgente ed impreveduto bisogno»: un bisogno, cioè, sopravvenuto rispetto al momento della stipula del contratto ed altresì imminente (senza che rilevino bisogni non attuali, né concreti o solo astrattamente ipotizzabili), da apprezzare da parte del giudice secondo canoni di proporzionalità ed adeguatezza nel comparare i valori della persona (e, se del caso, la tutela della prole) con il bisogno del comodante.
In conformità agli illustrati princìpi (che possono dirsi integrare un orientamento consolidato, alla luce della frequente reiterazione degli stessi negli arresti del giudice di nomofilachia: ex multis, cfr. Cass. 29/07/2015, n. 16061; Cass. 17/10/2016, n. 20892; Cass. 03/07/2018, n. 17332; Cass. 27/06/2023, n. 18334) si è poi chiarito, in fattispecie analoghe a quella qui oggetto di vaglio, che nell’ipotesi in cui il vincolo matrimoniale del comodatario sopravvenga, occorre che sia dimostrato come il proprietario abbia inteso, in virtù di scelta sopravvenuta, trasformare la natura del comodato, rispetto alla sua precedente finalità, ancorando la destinazione del bene alle esigenze del gruppo familiare neocostituito (così Cass. 18/08/2017, n. 20151; Cass. 29/09/2023, n. 27634).
4.2. Le rappresentate regulae iuris sono state correttamente applicate dalla sentenza impugnata.
Svolgendo l’indagine finalizzata alla ricerca della volontà delle parti contraenti, la Corte d’appello genovese, pacifico che il comodato fosse sorto in funzione di un uso personale del solo G. S., ha analizzato il contegno serbato nel corso del tempo dalla comodante, ravvisandovi una consapevole accettazione della (diversa) destinazione dell’immobile per esigenze della famiglia del comodatario.
In specie, ha al riguardo valorizzato plurime circostanze fattuali caratterizzanti la condotta della comodante: la conoscenza dell’utilizzo dell’appartamento come luogo di convivenza del comodatario con A. B., sin dall’inizio della stessa (inizi anno 2004), di poi anche insieme alle figlie nate dalla loro relazione e sino all’allontanamento dall’alloggio di G. S. (nell’anno 2011); la mancata contestazione della destinazione ad uso familiare, protratta per un così lungo arco di tempo e nemmeno operata al momento dell’atto di donazione della nuda proprietà del bene; la accettazione dell’uso familiare dell’alloggio anche dopo la disgregazione del rapporto tra G. S. e A. B., desunta dal tempo (oltre due anni) trascorso prima di avanzare richiesta di restituzione del bene, formulata nei riguardi della B. solo nel novembre 2013.
Ma il giudice territoriale ha avuto altresì cura di accertare, per un verso, l’ininfluenza sul rapporto contrattuale della disgregazione del nucleo familiare, in ragione dell’assegnazione della casa familiare ad A. B., e, per altro verso, la mancata allegazione, ad opera della comodante attrice, di «una personale ed effettiva situazione di bisogno tale da giustificare il rilascio ex art. 1809 cod. civ.».
Risulta così condotto un ragionamento diffuso, articolato, basato sull’analisi unitaria e complessiva degli elementi a valenza presuntiva acquisiti in giudizio, logicamente e coerentemente estrinsecato, che concreta, al fondo, l’apprezzamento, tipicamente riservato al giudice di merito, in ordine alla prova della intentio del comodante di continuare la concessione dell’immobile anche dopo l’insorgere del nuovo status del comodatario e, soprattutto, di orientarla alla soddisfazione delle differenti esigenze correlate al nucleo familiare dello stesso.
4.3. A fronte di ciò, le censure di parte ricorrente si profilano in primis inammissibili laddove sollecitano questa Corte ad esprimere un proprio apprezzamento sulla concludenza della inerzia o silenzio della comodante, un contegno qualificato dal giudice territoriale al lume di plurime condotte positive, sopra riferite: e tanto perché in tal guisa richiedono una rivalutazione della quaestio facti e una diversa lettura delle emergenze istruttorie, attività del tutto estranee alla natura ed alla funzione del giudizio di legittimità.
Per il resto, l’argomentare dell’impugnante si manifesta privo di fondamento giuridico.
Conclamata la mutata teleologica destinazione del comodato, vano appare infatti richiamare - con marcata insistenza, reiterata nella memoria illustrativa - la clausola di disdettabilità ad nutum connotante sì l’originaria conformazione del negozio, ma caducata in conseguenza della destinazione della res ad esigenze familiari, tale da ricondurre - in perfetta coerenza con l’esegesi dell’istituto propugnata dall’indirizzo di nomofilachia - il contratto nella figura disciplinata dall’art. 1809 cod. civ., che una risolvibilità libera di tal fatta ontologicamente non tollera. Del pari inconferenti i richiami (oltremodo generici) alla pretesa inosservanza di canoni di ermeneutica negoziale, ineccepibile invece apparendo non soltanto la sussunzione del rapporto contrattuale, come modificato in corso di esso, alla tipologia del comodato ex art. 1809 cod. civ. ma anche il concreto regime di disciplina dello stesso.
Del pari inconferente l’evocazione dell’art. 1230 cod. civ. in punto di novazione: l’evoluzione del rapporto controverso in comodato a destinazione familiare risulta invero apprezzata dal giudice territoriale, in conformità ai princìpi dettati dalle Sezioni Unite, sulla scorta di una pluralità di circostanze di significativa valenza indiziaria.
Infine – e ancora una volta in forza dell’orientamento richiamato – non pertinente il richiamo del ricorrente (peraltro praticato senza nemmeno evocare una violazione delle norme sulla forma dei contratti) all’originaria stipulazione per iscritto del comodato in discorso.
5. Il ricorso è in definitiva rigettato.
6. Il regolamento delle spese del giudizio di legittimità segue il principio della soccombenza.
7. Atteso l’esito del ricorso, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente - ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 - di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla refusione in favore della parte controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro
3.500 per compensi professionali, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori, fiscali e previdenziali, di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento al competente ufficio di merito da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.