Le particolari connotazioni culturali e religiose proprie del paese d'origine dell'imputato non possono costituire valide cause di giustificazione per i delitti contro la persona e la famiglia.
L'imputato ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte d'Appello che aveva confermato la sua responsabilità penale in ordine al reato di
Tra i motivi...
Svolgimento del processo
La Corte di appello di Napoli ha, con sentenza pronunziata in data 22 maggio 2023, integralmente confermato, in tal senso rigettando l'impugnazione presentata dall'imputato C.M., la sentenza con la quale, in data 8 luglio 2021, il Tribunale di Avellino aveva dichiarato la penale responsabilità del predetto in ordine ai reati di violenza sessuale continuata e maltrattamenti in famiglia da lui commessi in danno della moglie H.A. e lo aveva pertanto condannato, unificati i reati contestati sotto il vincolo della continuazione, alla pena di anni 7 di reclusione oltre accessori.
Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione la difesa fiduciaria dell'imputato, articolando 3 motivi di ricorso.
Con il primo è contestata la sentenza impugnata, con riferimento alla violazione di legge ed alla contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione alla valutazione degli elementi probatori a carico dell'imputato; in particolare si rileva che le uniche dichiarazioni testimoniali significative a carico del predetto sono quelle promanati dalla persona offesa - gli altri testi a carico evocati sono infatti testi che hanno appreso i fatti per come sono stati loro riferiti dalla citata persona offesa, per cui le loro dichiarazioni non sono di prima mano ma sono de relato - mentre la Corte di merito ha sostanzialmente sminuito le dichiarazioni rese dal figli dell'imputato e della persona offesa i quali, pur avendo ammesso che i rapporti fra i genitori erano tesi; hanno dichiarato di non avere mai assistito a fatti di violenza fisica o verbale o sessuale commessi dall'imputato nei confronti della moglie; circostanza questa che, valutata unitamente alla estrema contenutezza spaziale della casa familiare, avrebbe dovuto indurre a ritenere che siffatte condotte non si sarebbero verificate; la difesa del ricorrente ha, altresì, segnalato la incongruenza del narrato della donna, la quale ha riferito di avere remorato sino al 2018 a denunziare il marito onde conservare l'unità della famiglia, laddove sin dal 2008 i figli si erano allontanati dalla casa familiare.
Con il secondo motivo di impugnazione si contesta la mancata prova del dolo dell'imputato; in altre parole, si rileva che, sulla base della concezione socioculturale dei poteri maritali di cui l'imputato sarebbe stato portatore, le sue condotte non avevano né una finalità maltrattante né una finalità di abuso sessuale, essendo le stesse pienamente consentite nell'ambiente sociale e culturale da cui proveniva il ricorrente ed in cui si era, pertanto, educato e formato sotto il profilo comportamentale.
Di tal che nelle condotte da questo realizzate sarebbe pienamente mancato l'elemento soggettivo che, invece, deve rivestire le condotte poste in essere dagli individui affinché esse assurgano a rilevanza penale.
Infine, con il terzo motivo ci si duole della severità della pena inflitta, distante dal minimo edittale e del fatto che non erano state riconosciute in favore dell'imputato, le circostanze attenuanti generiche, sebbene lo stesso fosse un soggetto incensurato e sebbene le sue condotte, se intervenute, avrebbero corrisposto ad un criterio di sostanziale normalità socioculturale ove valutate alla stregua degli strumenti etici da lui posseduti.
Motivi della decisione
Il ricorso proposto, essendo risultati taluni dei motivi posti a sostegno di esso manifestamente infondati ed altri solamente infondati deve, di conseguenza, essere, nel suo complesso, rigettato.
Manifestamente infondato è, infatti, il primo dei motivi di ricorso articolati dalla ricorrente difesa; esso è sviluppato con riferimento alla inadeguatezza motivazionale (oltre che alla violazione di legge) in punto di valutazione della attendibilità del racconto accusatorio della persona offesa, unico sostanzioso fattore dimostrativo della responsabilità del prevenuto.
Va, infatti, premesso e ribadito il dato, peraltro riconosciuto dalla stessa difesa dell'imputato, che, ai fini della dimostrazione della responsabilità del prevenuto, può essere considerato fattore sufficiente il corredo probatorio riveniente dall'analisi delle dichiarazioni rese anche dalla sola persona offesa, a condizione che le stesse, sottoposte ad un vaglio di attendibilità più stringente e rigoroso di quello cui sono ordinariamente sottoposte le dichiarazioni rese da un testimone che non sia portatore di alcun interesse alla definizione del giudizio, superino - senza, peraltro, che ciò debba comportare la necessaria verifica della presenza di elementi di riscontro - l'attento scrutinio di attendibilità operato dal decidente, i cui esiti, ove logicamente desunti c:lagli elementi in atti, sono, tuttavia, esenti, in quanti riferiti ad un complessivo giudizio di merito, dal possibile sindacato di questa Corte di legittimità (in tale senso, fra le molte: Corte di cassazione, Sezione V penale, 15 maggio 2019, n. 21135, rv 275312; Corte di cassazione, Sezione II penale, 27 ottobre 2015, n. 43278, rv 265104; in particolare sulla natura di giudizio di merito del giudizio riferito alla attendibilità del teste, anche laddove egli sia persona offesa: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 16 marzo 2020, n. 10153, rv 278609).
Ciò posto si osserva, quanto al caso di specie, che, dapprima, il Tribunale irpino e, quindi, la Corte territoriale di Napoli hanno ritenuto che le dichiarazioni rese dalla persona offesa, H.A., fossero da un lato oggettivamente attendibili (in quanto caratterizzate da linearità, congruità logica e coerenza narrativa diacronica) e, da altro lato, non smentite dalle dichiarazioni rese dai figli della coppia, il cui contenuto, volto non tanto a negare l'esistenza di contrasti fra i genitori quanto a sminuirne la portata, non è tale da giustificare né un giudizio di inattendibilità di quanto dalla donna riferito né ad escludere la responsabilità penale del prevenuto, atteso che il dato riportato dai testi in discorso, cioè che la donna, vessata dal marito, "rispondeva comunque a tono alle provocazioni" di questo, non è fattore che valga ad escludere (al di la della sproporzione fra le condotte ascritte all'imputato e le, assai più contenute, reazioni della H.) la sussistenza del reato (sulla irrilevanza, quale fattore ostativo alla rilevazione del reato di maltrattamenti in famiglia, della eventuale reciprocità dei comportamenti maltrattanti , si veda, infatti: Corte di cassazione, Sezione I penale, 20 maggio 2024, n. 19769, rv 286399; e, già In precedenza, Corte di cassazione, Sezione III penale, 14 aprile 2020, n. 12026, rv 278968).
Quanto alla effettiva vessatorietà delle condotte dell'imputato, tale da rendere letteralmente intollerabile alla donna la prosecuzione della vita coniugale, è plastico indizio di tale condizione, come tale plausibilmente evidenziato in sede di merito, è la circostanza che la H., pur di sottrarsi ad esse, ha preferito allontanarsi dalla casa familiare per essere ospitata per un considerevole lasso di tempo presso una struttura protetta, in tale modo operando una scelta non altrimenti spiegabile dati i disagi che essa inevitabilmente deve avere determinato - anche senza contarne i "costi" di carattere affettivo - quanto meno sotto il profilo della interruzione delle ordinarie consuetudine domestiche, se non riconoscendo l'esistenza della impellente e soverchiante necessità di salvaguardare la propria integrità fisica e psicologica dalle aggressioni che le provenivano da parte del marito.
Ciò tanto più ove si rifletta sulla circostanza che quest'ultimo non ha saputo fornire alcuna attendibile spiegazione alternativa che, escludendo le ragioni dianzi indicate, potesse giustificare una così radicale scelta di vita compiuta dalla donna; va, al riguardo, cioè in punto di dichiarazioni dell'imputato, rilevare che questi( dopo che la moglie aveva sollecitato l'intervento delle forze dell'ordine - essendosi costei risolta ad abbandonare la casa coniugale per recarsi in una "residenza protetta" - per essere ivi accompagnata a prelevare taluni suoi effetti personale e delle medicine che le
erano necessarie) aveva affrontato gli agenti operanti, i quali non sono certamente sul punto, differentemente da quanto genericamente sostenuto dal ricorrente, dei testi de relato ma dei veri e propri testi diretti, dicendo loro che gli stessi non potevano in tale frangente assistere la moglie la quale, essendo coniugata con lui con matrimonio "non contratto in Italia", doveva sottostare alle regole di quel tipo di vincolo (evidentemente tali, quanto meno secondo la visione del prevenuto, da non prevedere il pieno riconoscimento della pari dignità fra i coniugi).
A riprova dello stato di soggezione nel quale la persona offesa era tenuta dall'imputato è rimarchevole anche il fatto che i documenti personali della donna, per come emerso nella medesima occasione a seguito di attività di ricerca svolta dalla forze dell'ordine, ad onta delle mendaci informazioni al momento fornite al riguardo dall'imputato alle forze dell'ordine, fossero da questo detenuti all'interno della autovettura nella sua disponibilità, elemento questo che va ad ulteriormente integrare, secondo la puntuale ricostruzione operata in sede di merito, il quadro di soggezione in cui la donna era tenuta dal marito.
Non vale ad escludere la plausibilità della valutazione di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa il fatto che le stesse siano state, beninteso quanto alla gravità dei fatti e non quanto alla loro sussistenza, contrastate da quanto riportato dai figli della coppia; infatti, anche a voler trascurare il dato, pur enfatizzato, sebbene ad altro fine, dalla ricorrente difesa che la convivenza dei figli con i genitori non era stata costante nel tempo, di tal che è verosimile che gli stessi potessero non essere stati costantemente diretti osservatori delle condotte che l'imputato aveva realizzato in danno della madre (né tale dato vale a sminuire la logicità della scelta della persona offesa di non denunziare l'imputato giustificata dalla intenzione di non "disgregare l'unità familiare" atteso che siffatto valore non è necessariamente concorrente con il dato della convivenza, trattandosi di un concetto che ha un significato più morale e sentimentale che non concretamente legato ad una coesione fisica fra i vari membri della "società naturale" di cui si tratta), ed in particolare per ciò che attiene alle condotte sessualmente rilevanti, in relazione alle quali è del tutto verosimile che i figli della coppia fossero ignari delle medesime, è ragionevole ritenere, come ha fatto la Corte di merito, che l'intento dei testi in discorso - coinvolti in quello che ben può definirsi un "conflitto di lealtà - abbiano inteso, con le loro dichiarazioni di contenuto mitigatorio, preservare il padre dai rigori della sanzione penale.
Poco spessore ha, infine sul punto, l'ultimo argomento speso dalla difesa del ricorrente per evidenziare un difetto di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta attendibilità della persona offesa; la citata difesa ha, infatti, sostenuto che i giudici del merito avrebbero dovuto concedere maggior adito a quanto dichiarato dall'imputato a propria discolpa; ma, si osserva, la ricostruzione delle fasi del processo contenuta sia nella sentenza di primo grado che in quella di secondo grado non evidenzia l'esistenza di dichiarazioni rese dall'imputato a propria discolpa, di tal che non è dato comprendere a quali dichiarazioni scagionanti del Chikri intendesse riferirsi la difesa ricorrente nel segnalare che esse sarebbero state trascurate in sede di giudizi di merito.
Destituito di fondamento è il secondo motivo di impugnazione, riguardante la mancata prova del dolo dell'imputato.
Il suo impianto consiste nella affermazione secondo la quale, ove si ammettesse che l'imputato ha tenuto le condotte di cui in imputazione, le stesse non sarebbero state poste in essere con la "coscienza e volontà di annichilire e svilire il coniuge (...) atteso che la disparità fra uomo e donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato per tanti anni"; ha aggiunto il ricorrente che, essendo quella ora in esame la tematica dei "reati culturalmente orientati", dovrebbe tenersi conro che le relative condotte sono accettate nei paesi da dove provengono gli individui che le pongono in essere essendo, anzi, giustificate dalle "norme giuridiche vigenti nell'ordinamento di origine" dei soggetti agenti.
Si tratta di affermazioni che non trovano alcun albergo, neppure sotto il profilo dell'astratto formalismo giuridico, nel nostro ordinamento.
Deve, infatti, in primo luogo premettersi che i reati addebitati al prevenuto sono reati per i quali non vi è la previsione della loro punibilità a condizione che ricorra, sotto il profilo soggettivo, il dolo specifico essendo, invece entrambi punito sulla base del semplice dolo generico; ciò in e a rilevare che non vi è alcuna necessità, ai fini della rilevanza penale delle condotte, che il soggetto che le abbia realizzate intendesse perseguire uno scopo ulteriore rispetto a quello direttamente previsto quale elemento oggettivo del reato.
In altre parole, ai fini della sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia, nelle specie in danno del coniuge, non vi è la necessità che l'individuo agente avesse il fine di annichilire e svilire la persona offesa, è sufficiente che lo stesso abbia la consapevolezza delle condotte da lui tenute e che queste siano tali da integrare, con la continuità che un reato abituale postula, una condotta maltrattante; parimenti per ciò che attiene alla ipotesi della violenza sessuale, ove le condotte integranti atto sessuale siano poste consapevolmente in essere in assenza della espressione, tacita o espressa, del benestare del soggetto nei cui confronti esse sono realizzate o fatte realizzare, si deve intendere integrato l'atto sessuale, quale che sia stat(\.,la finalità che l'agente avesse perseguito.
Nessun rilievo può avere, in una tale fattispecie, la convinzione da parte dell'agente sia di non violare la legge o, addirittura, di esercitare un proprio diritto; si tratterebbe, infatti, in ambedue i casi di errore sulla portata della norma penale nazionale (unica cui si possa e si debba fare riferimento), sia pure sotto il profilo della ampiezza della esimente dell'esercizio del diritto, che non avrebbe alcuna efficacia scriminante della condotta posta in essere.
Né, si osserva, può darsi rilievo a quello che la difesa del ricorrente definisce il "bagaglio" costituito dalla sua "cultura di origine" che l'individuo che arrivi nella nostra Nazione reca con sé.
Come questa Corte ha avuto occasione di osservare, in un passato ancora recente, è ben vero che il rilievo secondo il quale il contesto sociale e culturale in cui una certa condotta si sia manifestata deve essere preso in considerazione al fine di correttamente interpretarne la eventuale rilevanza penale è esperienza non ignota a questa Corte.
Essa ha, infatti, considerato che, ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale, va qualificato come atto sessuale anche il bacio sulla bocca che si sia limitato al semplice reciproco contatto delle labbra, potendosi detta connotazione escludersi solo in presenza di particolari contesti sociali, familiari o culturali nei quali l'atto risulta privo di valenza erotica come ad esempio nel caso del bacio sulla bocca scambiato nella tradizione russa come segno di saluto (Corte di cassazione, Sezione III penale, 2 luglio 2007, n. 25112).
Ma, è stato aggiunto, un tale dato "socio-culturale" è suscettibile di essere valorizzato solo in presenza di una condotta che non sia platealmente invasiva della sfera della intimità sessuale o della stessa integrità, morale o fisica, del soggetto, a volte in nome di pretese subculture etniche esse stesse espressive di forme di atavismo culturale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 11 maggio 2023, 19972, non massimata).
Condizioni entrambe non riscontrabili nella presente fattispecie, in cui, invece, le condotte del prevenuto - non solo sono espressive di una concezione del rapporto coniugale che, non essendo fondato sulla pari dignità di entrambi i coniugi, non è ammissibile nel nostro ordinamento - ma sono anche espressive, sia con riferimento alla violazione del precetto contenuto nell'art. 572 cod. pen. che di quello contenuto nell'art. 609-bis cod. pen., di una grave e manifesta compressione della posizione soggettiva della persona offesa, indubbiamente non bilanciabile con il preteso rispetto per la diversa formazione culturale (termine questo usato in una accezione che si potrebbe dire solo formale, dovendosi escludere che concezioni esistenziali che postulino una programmatica condizione di subalternità del coniuge di sesso femminile nella coppia coniugale o, più in generale, la non pari dignità dei due membri del sodalizio coniugale - o se si vuole paraconiugale - possano essere espressive di una "cultura", laddove essa sia intesa, secondo l'accezione più comune, come espressiva di una ricca "sapienza umana") di cui l'imputato sarebbe portatore.
Quanto, infine, all'entità del trattamento sanzionatorio, anch'esso oggetto di censura, si rileva, in ordine alla esclusione delle circostanze attenuanti generiche, che la pretesa di riconoscerle al prevenuto in quanto lo stesso, oltre ad essere incensurato (elemento che, se valutato autonomamente non consente l'applicazione del beneficio di cui trattasi) avrebbe commesso i fatti per cui è imputato in quanto, come già dianzi rilevato, portatore di una cultura nell'ambito della quale gli stessi sono ammessi (dato questo appare essere il frutto di una mera petizione di principio, posto che la pretesa liceità delle condotte realizzate dall'imputato nell'ambito della legislazione del suo paese di provenienza è stata solo postulata dal ricorrente e non ha alcuna base documentale, sebbene sarebbe stato onere suo offrire una dimostrazione di tale sua asserzione), non vale sicuramente a sminuirne il valore, trattandosi, come dimostrato di una cultura deviante che non può trovare alcun riconoscimento positivo, neppure a livello di accidentalia delicti, nel nostro ordinamento, non giustificando l'appartenenza ad essa, come ad ogni altri tipo di "cultura" che non sia rispettosa dei diritti fondamentali della persona, un trattamento sanzionatorio più clemente per chi sostenga di avere violato la legge in adesione ai valori di cui tale pretesa "cultura" (parola questa, come già segnalato, del tutto inadeguata nella sua accezione più diffusa ad esprimere il concetto che si vuole tuttavia intendere) si sarebbe resa veicolo.
Per quanto riguarda la determinazione della pena base, collocata ad un dipresso dal minimo edittale e, comunque ampiamente al di sotto del medio edittale (circostanza questa che già renderebbe non necessaria una specifica motivazione sul punto, cfr. infatti: Corte di cassazione, Sezione III penale, 9 luglio 2019, n. 29968, rv 276288), si rileva che tale dosimetria, in relazione alla quale il sindacato di questa Corte di legittimità è limitato, stante la evidente discrezionalità della relativa scelta, alla illogicità della motivazione, è stata giustificata dai giudici del merito sia in funzione della iterazione delle condotte criminose sia in funzione del fatto che le stesse, realizzate in concomitanza con l'avvenuto abuso da parte del prevenuto di sostanze alcoliche, evidenziano la spiccata negatività della personalità del prevenuto, così giustificandosi l'incrementato disvalore delle condotte poste in essere da questo per come plausibilmente ritenuto in sede di merito.
Il ricorso deve, in conclusione, essere rigettato ed il ricorrente, visto l'art. 616 cod. proc. pen., va condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.