
La Legge n. 69/2019 che innalza il massimo della pena a 24 anni di reclusione non è applicabile in base al momento di esercizio dell'azione penale, per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della disposizione modificativa.
In un giudizio avente ad oggetto la condanna dell'imputato per
Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 27 novembre 2023 la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza in data 28 maggio 2021 del G.u.p. del Tribunale di Roma che aveva condannato l'imputato alle pene di legge per violenza sessuale aggravata nei confronti della figlia disabile per fatti commessi dal gennaio 2012 al 19 marzo 2019.
2. Il ricorrente lamenta il vizio di motivazione in merito all'accertamento del fatto perché il periodo in cui sarebbero avvenute le violenze, secondo la vittima, sarebbe coinciso con la sua detenzione in carcere. Lamenta altresì che i Giudici avevano valorizzato a suo carico un episodio del 2019 in cui era completamente ubriaco.
Il difensore presenta una memoria in cui insiste nelle ragioni già espresse con il ricorso.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
I Giudici di merito hanno accertato che l'imputato ha commesso plurime violenze sessuali nei confronti della figlia, iniziate quando la vittima aveva meno di dieci anni e proseguite fino al raggiungimento del quindicesimo anno di età.
3.1. In via preliminare, l'età della vittima pone la questione della competenza per materia del giudice che ha celebrato il giudizio d'appello, perché, in seguito all'entrata in vigore, in data 9 agosto 2019, dell'art. 13, comma 2, lett. b), legge 19 luglio 2019, n. 69, che ha modificato l'art. 609-ter, secondo comma, cod. pen., il massimo edittale per la violenza sessuale ai danni di un minore di anni dieci è stato portato a 24 anni di reclusione con conseguente radicamento della competenza per materia della corte di assise, ai sensi dell'art. 5 cod. proc. pen.
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, di regola, la competenza per materia va determinata sulla base della normativa in vigore al momento in cui il pubblico ministero esercita l'azione penale e ciò in applicazione del principio "tempus regit actum" che governa la successione nel tempo delle norme processuali (Sez. U, n. 3821 del 17/01/2006, Timofte, Rv. 232592 - 01; Sez. 4, n. 37603 del 02/07/2007, Monachino; Rv. 237775 - 01; Sez. 1, n. 26787 del 06/07/2005, Mezzalana, Rv. 231845 - 01; Sez. 1, n. 12148 del 02/03/2005, Norcini, Rv. 231844 - 01).
Nel caso in esame, come si desume dagli atti, l'azione penale è stata esercitata dopo la modifica normativa ex lege n. 69 del 2019, per cui, secondo l'interpretazione offerta da questa Sezione nella sentenza n. 28485 del 14/06/2024, A., Rv. 286706-01, la competenza avrebbe dovuto essere quella della corte di assise, salva l'applicazione della pena più favorevole.
Nella specie, va comunque precisato che il primo grado è stato definito dal G.u.p. con il rito abbreviato, per cui il problema della competenza del giudice superiore investe il grado di appello sicché, ai sensi dell'art. 596, comma 3, cod. proc. pen., la competenza spetterebbe alla corte di assise di appello e non alla corte di appello, trattandosi di reato di competenza della corte di assise. Tale soluzione è conforme al precedente della Sez. 5, n. 31673 del 13/06/2017, A., Rv. 270879-01, che richiama Sez. 3, n. 32322 del 05/02/2015, K., Rv. 264241 - 01.
Ciò posto, osserva il Collegio come la modifica normativa dell'art. 609-ter cod. pen. - che ha portato la pena nei confronti dell'infra-decenne ad anni 24 di reclusione, spostando la competenza dinanzi alla corte di assise - abbia inciso direttamente sulla pena (modifica sostanziale) e solo indirettamente sulla competenza (modifica processuale), per cui alla corte di assise spetta la competenza quanto ai fatti commessi successivamente ali' entrata in vigore della legge n. 69 del 2019, non per quelli commessi in precedenza, e ciò anche nei casi cui l'azione penale sia stata esercitata successivamente.
3.2. La sentenza a Sezioni Unite n. 3821 del 17/01/2006, Timofte, ha differenziato, nel par. 7 della motivazione, il caso sottoposto alla sua cognizione, che riguardava la modifica della competenza per il reato di guida in stato di ebbrezza (ritenuta di tipo processuale perché la novella attribuiva espressamente e autonomamente la cognizione al giudice di competenza superiore, ossia al tribunale), con altra omologa situazione che aveva riguardato, in precedenza, la modifica della competenza per il reato di usura (ritenuta di tipo sostanziale perché la novella modificava esclusivamente le pene stabilite per il reato senza alcuna indicazione del giudice competente) e ricordando che, in quest'ultimo caso, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 1878 del 29/04/1993, Maiello, Rv. 194240
- 01), la quale aveva ritenuto di mantenere ferma la cognizione del giudice di competenza inferiore (pretore), per i fatti di usura commessi anteriormente all'aggravamento di pena operato dall'art. 11 "quinquies" decreto legislativo 8 giugno 1992 n. 306 convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, in luogo di quella del giudice di competenza superiore (tribunale), era giustificata dalla natura essenzialmente sostanziale della modifica normativa e non processuale con precipua funzione regolatrice della competenza (ex plurimis, in un caso di conflitto di competenza tra pretore e tribunale, Sez. 1, n. 1751 del 22/03/ 1995, Lopez, Rv. 201618).
Non consta che la giurisprudenza di legittimità si sia mai allontanata dall'enunciato criterio interpretativo, di cui vi è ampia evidenza nelle sentenze relative ai conflitti di competenza per materia tra pretore e tribunale (si vedano ex plurimis, Sez. 1, n. 794 del 05/02/1997, Tralucco, Rv. 206972 - 01 nonché Sez. 1, n. 6789 del 02/12/1997, dep. 1998, Della Maggiore, Rv. 209531 - 01, che ha affermato per il reato di omissione di atti di ufficio contestato come permanente con inizio della condotta in data anteriore all'entrata in vigore della legge n. 286 del 1990, che, allorché la modifica della competenza per materia sia posta in maniera autonoma dalla nuova legge - e non indirettamente come nel caso di diversa determinazione della sanzione edittale - la relativa norma è di carattere processuale e non sostanziale, e pertanto trova immediata applicazione in virtù del principio generale vigente in materia processuale "tempus regit actum", onde non ci si può riferire, al fine di stabilire la competenza per materia, all'art. 2, comma terzo (ora quarto), cod. pen., che riguarda un profilo di diritto sostanziale e non di diritto processuale, e Sez. 1, n. 6023 del 18/11/1996, Giansante, Rv. 206255 - 01, secondo cui, poiché l'art. 11 d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992 n. 356 - che ha elevato da tre a sei anni di reclusione la pena massima per il reato di falsa testimonianza previsto dall'art. 372 cod. pen. - è norma di carattere sostanziale che soltanto come effetto riflesso comporta lo spostamento della competenza dal pretore al tribunale, per cui per i fatti commessi in data anteriore all'entrata in vigore della suddetta disposizione continuano ad applicarsi, in forza dell'art. 2, comma terzo (ora quarto), cod. pen., i limiti di pena preesistenti e, conseguentemente, in assenza di disposizioni transitorie, la competenza continua ad appartenere al pretore).
Per riferimenti giurisprudenziali più recenti, istruttivo, in tema di lesioni personali stradali gravi e gravissime di cui all'art. 590-bis cod. pen., è l'arresto di Sez. 1, n. 48249 del 20/06/2017, Coppa, Rv. 271318 - 01, secondo cui persiste la competenza per materia del giudice di pace per i fatti commessi in data anteriore all'entrata in vigore della legge 24 marzo 2016 n. 41, dovendosi attribuire alla nuova norma valore essenzialmente sostanziale, ovvero di modificazione della sanzione edittale, e non invece di disposizione processuale con funzione regolatrice della competenza, nonché il conforme principio espresso da Sez. 4, n. 46394 del 12/06/2018, D'Angelo, Rv. 274273 - 01.
3.3. In definitiva, l'articolo 13 della legge 19 luglio 2019, n. 89 - nella parte in cui ha modificato l'articolo 609-ter, ultimo comma, ultimo periodo, cod. pen. stabilendo che la pena, da sei a dodici anni di reclusione, è raddoppiata se i fatti di cui all'articolo 609-bis cod. pen. sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni dieci - va qualificato come norma avente natura sostanziale, pur se comporta l'effetto processuale riflesso della modifica della competenza, dal tribunale alla corte di assise, e correlativamente dalla corte di appello alla corte di assise di appello, a conoscere del detto reato.
Ne consegue che, per i reati di violenza sessuale commessi prima del 9 agosto 2019, data di entrata in vigore della predetta modifica normativa, ai danni di persone che non hanno compiuto i dieci anni, la competenza spetta al tribunale in composizione collegiale in quanto il referente normativo applicabile nella fattispecie (reati commessi sotto il vigore della /ex mitior) è l'art. 2, comma quarto, cod. pen. e non quello derivante dal combinato disposto degli art. 5 e 6 cod. proc. pen. (disposizioni applicabili, in piena sovrapposizione alla disciplina sostanziale, per i fatti commessi dopo l'entrata in vigore dell'art. 13 legge n. 69 del 2019) e, in caso di gravame, alla corte di appello, indipendentemente dal fatto che l'esercizio dell'azione penale sia avvenuto sotto il vigore della nuova norma, mentre per i reati commessi dal 9 agosto 2019 in poi la competenza per materia è rispettivamente della corte di assise e della corte di assise di appello.
Ne deriva che alla disposizione normativa dell'art. 13 della legge 19 luglio 2019, n. 89, va attribuita natura essenzialmente sostanziale, ovvero di modificazione della sanzione edittale, e non invece di disposizione processuale con precipua funzione regolatrice della competenza, sicché la modifica alla regola processuale, che pure consegue in virtù dei nuovi e superiori limiti edittali, deve ritenersi posta indirettamente e non in maniera autonoma.
4. Nel merito, il ricorrente, premesso di essere stato detenuto tra il 5 luglio 2011 e il 9 agosto 2014, contesta l'accertamento in fatto perché gli episodi di violenza sessuale erano stati denunciati come consumati nel periodo in cui era detenuto in carcere, quando la minore aveva 6 o 7 anni di età. La deduzione non si confronta affatto con la sentenza impugnata ove invece si legge che le violenze, stando al racconto della minore, erano avvenute quando andava in terza o quarta elementare e quindi quando aveva otto o nove anni.
La Corte territoriale ha affermato che la predetta indicazione costituisce un'inesattezza dovuta a un comprensibile deficit di esatta memoria, nel contesto di un racconto caratterizzato da sostanziale precisione, comprovata dalla collocazione stagionale dei toccamenti, dal riferimento all'età anagrafica o alla frequentazione scolastica, per cui la violenza denunciata è compatibile con la scarcerazione dell'imputato nell'agosto 2014.
Più precisamente, la vittima, nell'audizione protetta, aveva riferito di specifici episodi occorsi nell'estate, quando andava "in terza quarta elementare", successivamente aveva dichiarato che le violenze erano iniziate quando aveva sei o sette anni, poi si erano interrotte e ricominciate a dodici anni nell'estate del 2018, quando il ricorrente le aveva chiesto di farle "una sega", ma lei si era rifiutata. La minore aveva deciso di parlare con la madre, il fidanzato e l'amica, perché il padre si ubriacava e osteggiava la sua relazione con il fidanzato. La madre, raccolta la confidenza, aveva cacciato di casa il marito che abitava in cantina. La minore non aveva problemi a vedere o incontrare il padre e sentiva di essersi liberata da questo peso in seguito alla denuncia. I Giudici di merito, che hanno esaustivamente motivato sull'attendibilità della vittima, hanno ritenuto la compatibilità del suo racconto con le risultanze del certificato detentivo del ricorrente, perché hanno fatto risalire l'inizio delle violenze all'età di otto o nove anni, indicazione più precisa, perché ancorata al dato della frequenza scolastica, rispetto a quella anagrafica di sei o sette anni. Su questo punto non vi è stata una specifica censura, essendosi limitato l'imputato a proporre una versione alternativa compatibile con la sua prospettazione difensiva, ma disattesa con motivazione non manifestamente illogica o contraddittoria dai Giudici di merito. Inoltre, il racconto della vittima è stato riscontrato dal fidanzato nonché dal fratello, il quale ha ricordato che, al momento del disvelamento, l'imputato era ubriaco, ma aveva confessato che gli abusi erano avvenuti in un numero limitato di occasioni, aveva pianto e aveva tentato di suicidarsi. La Corte territoriale ha osservato che lo stato di alterazione da alcol non consentiva di ritenere falsa la confessione e ha valorizzato i comportamenti dell'uomo susseguenti al 19 marzo 2019, allorché aveva accettato di trasferirsi a vivere in cantina e non aveva mai cercato di sminuire con i familiari le accuse rivoltegli dalla figlia.
In tale contesto, il ricorso deve ritenersi manifestamente infondato e, in parte, presentato al di fuori del perimetro dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. che limita i poteri cognitivi del giudice di legittimità alla sola verifica dell'esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che hanno determinato la decisione, dell'assenza di manifesta illogicità dell'esposizione e, quindi, della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l'utilizzo e della non emersione dei predetti vizi dal testo impugnato o da altri atti del processo, ove specificamente indicati nei motivi di gravame (si veda tra le più recenti, Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, Chen, R v. 284556-01).
5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata, in ragione della consistenza della causa di inammissibilità del ricorso, in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende