
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
1. D.P. ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli il fratello D.F., al fine di sentire dichiarare la revocazione per sopravvenienza di figli della donazione indiretta avvenuta tramite la dazione della somma di € 35.000,00, finalizzata a consentire al germano l’acquisto di un immobile da adibire ad autofficina, e per l’effetto ordinare la restituzione della detta somma ovvero, in via alternativa, previa declaratoria di inefficacia della donazione, provvedere alla trascrizione dell’emananda sentenza relativamente all’immobile oggetto di causa.
Si costituiva il convenuto che resisteva alla domanda, sostenendo che in realtà non era intervenuta alcuna donazione, in quanto la somma ricevuta dal fratello era stata a sua volta oggetto di trasferimento da parte del comune genitore, rientrando nell’ambito dei complessi rapporti di dare e avere all’interno della famiglia.
Il Tribunale adito con la sentenza n. 8162/2016 accoglieva la domanda, e previo accertamento dell’intervenuta donazione indiretta, revocava la stessa.
Avverso tale sentenza proponeva appello il convenuto e la Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza n. 180 del 21 gennaio 2021, ha rigettato il gravame.
Quanto al primo motivo di appello, con il quale si contestava la ricorrenza dell’animus donandi, la sentenza di appello osservava che l’appellante non aveva contestato di avere ricevuto le somme da parte del fratello, ma non era stata offerta adeguata prova circa il fatto che la dazione trovasse la sua giustificazione nei plurimi rapporti economici di dare ed avere tra i componenti della famiglia D. e che in particolare le somme versate erano a loro volta provenienti da disponibilità paterne.
In tal senso riteneva corretta la mancata ammissione delle prove richieste con l’atto di appello, e ciò in quanto si faceva richiamo a memorie istruttorie di cui non vi era traccia nella produzione di parte appellante e delle quali non risultava documentato il deposito nel corrispondente foliario.
Inoltre, anche a voler dare per ipotesi avvenuto il deposito di siffatte memorie istruttorie, non risultava reiterata la richiesta di ammissione dei mezzi istruttori in sede di precisazione delle conclusioni dinanzi al Tribunale, il che ne impediva la reiterazione in appello.
In relazione alla richiesta di prendere in esame un documento, prodotto per la prima volta in appello, e dal quale si sarebbe potuta evincere la complessità dei rapporti economici tra le parti, la Corte distrettuale richiamava il disposto dell’art. 345 c.p.c. nel testo scaturente della novella del 2012 che preclude la produzione di nuovi documenti in appello.
Pertanto, una volta esclusa la riferibilità delle somme al padre, e dimostrato l’animus donandi, la sentenza disattendeva anche il motivo di appello che investiva la corretta interpretazione dell’art. 803 c.c., non potendosi ritenere che la consapevolezza alla data della donazione dell’avvenuto concepimento di un figlio da parte del donante fosse preclusiva della possibilità di agire in revocazione.
Quanto infine alla pretesa ultrapetizione nella quale sarebbe incorso il Tribunale, nella parte in cui aveva intestato il bene donato al donante, per effetto della revocazione, la sentenza impugnata ricordava che in realtà le espressioni contenute nelle conclusioni dell’atto di citazione, con il richiamo alla necessità della trascrizione coatta dell’immobile, deponevano nel senso che la domanda iniziale fosse volta, in alternativa alla restituzione della somma donata, alla intestazione del bene a favore del donante, senza quindi pervenire all’accoglimento di una domanda non validamente proposta.
2. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso, affidato a cinque motivi, D.F., illustrati da memorie. L’intimato non ha svolto difese in questa fase.
3. L’ordine logico delle questioni impone la preventiva disamina del secondo motivo di ricorso, con il quale si denuncia la violazione degli artt. 24 e 111 Cost. quanto alla decisione del giudice di appello di escludere la reiterazione in appello delle richieste istruttorie, già avanzate in primo grado, e respinte dal giudice istruttore nel caso in cui le stesse non siano state specificamente rinnovate in occasione della precisazione delle conclusioni.
Si deduce che in tal modo il giudice di merito ha prestato adesione all’orientamento più rigoroso del giudice di legittimità, orientamento che però risulta in contrasto con le richiamate norme costituzionali.
Infatti, l’art. 111 Cost ha posto al centro del sistema processuale il principio del contraddittorio e la soluzione sposata in sentenza renderebbe impossibile l’esercizio del potere giudiziale di valutazione ed interpretazione della volontà delle parti, nel caso in cui tale verifica debba avvenire dopo la precisazione delle conclusioni.
Ancora, poiché le conclusioni delle parti vanno formulate nei limiti delle richieste avanzate nei termini di cui all’art. 183 c.p.c., la tesi avversata in ricorso valorizza in maniera eccessiva il potere dispositivo del difensore. Inoltre, la regola che induce a ravvisare una presunzione di rinuncia alle richieste istruttorie non reiterate si porrebbe in contrasto con il principio del giusto processo.
In sostanza il ricorrente reputa che le richieste delle parti siano cristallizzate negli atti difensivi a tal fine deputati e che non possa attribuirsi alcun rilievo alla condotta omissiva tenuta in sede di precisazione delle conclusioni.
Il motivo è infondato.
Questa Corte ha anche di recente ribadito (Cass. n. 10767/2022) che le istanze istruttorie rigettate dal giudice del merito devono essere riproposte con la precisazione delle conclusioni in modo specifico e non soltanto con il generico richiamo agli atti difensivi precedenti, dovendosi, in difetto, ritenere abbandonate e non riproponibili con l'impugnazione; tale presunzione può, tuttavia, ritenersi superata qualora emerga una volontà inequivoca di insistere nella richiesta istruttoria in base ad una valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione tra la richiesta probatoria non esplicitamente riproposta con le conclusioni e la linea difensiva adottata nel processo; della valutazione compiuta il giudice è tenuto a dar conto, sia pure sinteticamente, nella motivazione (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la pronuncia della Corte d'appello che si era limitata a rilevare la mancanza di una specifica riproposizione delle istanze probatorie con le conclusioni, trascurando di considerare che l'istanza di ammissione delle prove orali era già stata reiterata dall'istante con la richiesta, successiva al rinvio della causa per la precisazione delle conclusioni, di revoca o di modifica dei provvedimenti istruttori del giudice di primo grado).
Cass. n. 4487/2021 ha altresì precisato che, quando la causa viene trattenuta in decisione senza che il giudice istruttore si sia pronunciato espressamente sulle istanze istruttorie avanzate dalle parti, il solo fatto che la parte non abbia, nel precisare le conclusioni, reiterato le dette istanze istruttorie, non consente al decidente di ritenerle abbandonate, ove la volontà in tal senso non risulti in modo inequivoco.
Può quindi reputarsi che un primo discrimen necessario al fine di ravvisare nella mancata riproposizione delle istanze istruttorie una presunzione di rinuncia alle stesse, sia l’esistenza o meno di un esplicito provvedimento di diniego dei mezzi di prova da parte dell’istruttore, sebbene adottato con provvedimento sempre suscettibile di rivisitazione al momento della decisione.
In tal senso appare utile il riferimento a Cass. n. 33103/2021, che nel richiamare i precedenti in materia, ha precisato che nel caso in cui il giudice di primo grado non accolga alcune richieste istruttorie, la parte che le ha formulate ha l'onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni, in modo specifico, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, devono ritenersi abbandonate e non più riproponibili in sede di impugnazione; tale presunzione può essere ritenuta, tuttavia, superata dal giudice di merito, qualora dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l'esame degli scritti difensivi.
In tale precedente, moderando il rigore di alcune pregresse affermazioni (cfr. Cass. n. 5741/2019; Cass. n. 19352/2017; Cass. n. 16290/2016; Cass. n. 2093/2013, richiamata da parte ricorrente, sebbene non del tutto pertinente, in quanto riferita alla mancata reiterazione delle domande ed eccezioni, e non anche alle richieste istruttorie, per le quali è invece possibile una delibazione negativa, ancorché non definitiva da parte del giudice), è stato quindi confermato che in generale deve ritenersi che la mancata riproposizione delle richieste istruttorie generi una presunzione di abbandono, a fronte di un esplicito provvedimento di diniego dell’istruttore, a meno che dalla valutazione complessiva della condotta della parte, non possa escludersi l’operatività di detta presunzione giudiziale, per l‘esistenza di un diverso contegno, comunque confermativo della volontà di tenere ferme le deduzioni istruttorie e di sollecitare, sebbene implicitamente, una rivalutazione della prima deliberazione espressa sul punto.
La soluzione che impone, a fronte di un provvedimento di diniego dei mezzi istruttori, di dover sollecitare una rivalutazione non appare poi di per sé in contrasto con l’art. 111 Cost., ed in particolare con il principio della durata ragionevole del processo, in quanto proprio la delibazione, sia pure provvisoria, del giudice sulle istanze istruttorie, in assenza di una reazione, non necessariamente esplicita della parte, consente di ritenere che vi sia stata una sostanziale acquiescenza sulla stessa, e pone la questione delibata al di fuori di quella ancora sottoposta alla decisione del giudice, assicurando quindi uno sfoltimento delle questioni da affrontare, con un indubbio appagamento dell’esigenza di economia e con un risparmio delle risorse decisorie del giudice, che, a voler diversamente opinare, sarebbe egualmente tenuto a dare una risposta alle richieste istruttorie, sebbene già offerta in precedenza, ed ancorché la parte non mostri di dolersi delle ragioni poste a fondamento del diniego di ammissione delle prove.
Tornando alla vicenda in esame, il ricorrente, dopo aver richiamato il contenuto delle note istruttorie da lui depositate, e dopo aver ricordato come il giudice avesse con ordinanza resa fuori udienza invitato a precisare le conclusioni per una successiva udienza, ravvisando la superfluità delle prove richieste dal convenuto, richiama il contenuto delle note depositate in vista dell’udienza di discussione ex art. 281 sexies c.p.c., dalle quali si ravvisa una sostanziale adesione al giudizio di superfluità delle prove - ancorché giustificato sul presupposto che lo stesso attore non avesse contestato l’esistenza dei plurimi rapporti economici endofamiliari - che lungi dal sorreggere una implicita richiesta di revisione del giudizio di superfluità, avalla piuttosto la convinzione espressa dal giudice di appello circa la possibilità ravvisare nel silenzio sul punto in sede di conclusioni, una situazione legittimante la conclusione circa la rinuncia alla reiterazione delle richieste di prova.
Il motivo deve quindi essere rigettato.
4. Il rigetto del motivo che precede, e quindi la conferma di una delle rationes che hanno indotto il giudice di appello ad escludere la valutazione e l’ammissione delle prove dedotte in primo grado (ratio che appare connotata da una sua autonomia e che la rende quindi tale da sorreggere ex se la decisione presa in sede di gravame), determina l’inammissibilità del primo motivo che invece denuncia la violazione degli artt. 347 co. 3, c.p.c., 36, 73 e 173 bis disp. att. c.p.c., nella parte in cui il giudice di appello ha ritenuto che non fosse stata offerta la prova del deposito delle memorie istruttorie ex art. 183 c.p.c., in assenza della loro presenza in forma cartacea nella produzione di parte appellante ovvero della loro annotazione nel foliario, senza però avvedersi che si trattava di atti depositati in forma telematica e dei quali restava traccia nello storico del fascicolo telematico.
Infatti, ove anche la deduzione circa l’avvenuto deposito in tale forma si ritenga fondato (conclusione che la Corte reputa attendibile), residuerebbe in ogni caso la diversa ratio legata alla mancata reiterazione delle richieste in sede di precisazione delle conclusioni, che rende quindi irrilevante appurare se le memorie siano state effettivamente depositate o meno.
5. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 345, co. 3, c.p.c., nella formulazione scaturente dalla novella del 2012, nella parte in cui il giudice di appello ha ritenuto tardiva la produzione del documento indicato alla lett. B1 che a detta del ricorrente risulterebbe idoneo a fornire la prova dei rapporti economici tra i fratelli D. ed il genitore e ad escludere, quindi, che la dazione della somma oggetto di causa fosse suscettibile di configurare una donazione indiretta da fratello a fratello.
Il motivo è fondato.
Il novellato testo della norma di cui in rubrica recita che non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono prodursi nuovi documenti che la parte dimostri di non avere potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.
La Corte d’appello si è limitata a richiamare la lettera della legge, ma non ha preso in alcuna considerazione la circostanza che il ricorrente nell’atto di appello aveva accompagnato la produzione documentale de qua all’allegazione del fatto che si trattava di documento del quale era in possesso la madre e del quale era venuto a conoscenza solo nell’agosto del 2016 (dopo la sentenza del Tribunale), allorché la madre lo aveva messo a sua disposizione, vincendo le sue iniziali resistenze a renderlo noto, nel timore che potesse accrescere il contrasto tra i due fratelli.
L’allegazione risulta poi corroborata anche da una richiesta di prova testimoniale finalizzata a comprovare le modalità di scoperta del documento e quindi la non imputabilità della mancata produzione.
In presenza di tale allegazione sia in punto di fatto che di carattere istruttorio, appare evidente come l’affermazione del giudice di appello in ordine alla inammissibilità della produzione de qua in appello sia apodittica e del tutto sganciata dal richiamo alle ragioni addotte dall’appellante al fine di giustificare la produzione in appello ex art. 345 c.p.c.
Il motivo è quindi fondato e deve essere accolto.
6. Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 803 e 804 c.c., nella parte in cui la Corte d’Appello ha ritenuto che anche la sopravvenienza di un secondo figlio determini la revocazione della donazione, ed ha altresì escluso che l’avvenuto concepimento del primo figlio alla data della donazione, concepimento del quale il donante era chiaramente a conoscenza, non risultava preclusivo della possibilità di agire in revocazione.
In punto di fatto si evidenzia che la donazione revocanda è avvenuta in data 28 luglio 2009 e che il primo figlio dell’attore è nato il 31 agosto del 2009, a circa un mese di distanza, il che porta a reputare che dell’imminente paternità il donante fosse evidentemente consapevole.
Sostiene parte ricorrente che, poiché il secondo comma dell’art. 803 c.c. permette di agire in revocazione anche in caso di concepimento alla data della donazione, analogamente a quanto previsto per il figlio riconosciuto, la revocazione non è ammessa nel caso in cui del concepimento il donante sia già consapevole all’atto della donazione.
Il motivo è infondato.
E’ sicuramente erronea l’affermazione del giudice di appello che ritiene che la revocazione possa essere disposta anche nel caso in cui sopraggiunga un secondo figlio, e ciò in quanto si tratta di affermazione in contrasto con quanto affermato da questa Corte che ha sostenuto che la revocazione della donazione per sopravvenienza di figli o discendenti, rispondendo all'esigenza di consentire al donante di riconsiderare l'opportunità dell'attribuzione liberale a fronte della sopravvenuta nascita di un figlio, ovvero della sopravvenuta conoscenza della sua esistenza, in funzione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione che derivano da tale evento, è preclusa ove il donante avesse consapevolezza, alla data dell'atto di liberalità, dell'esistenza di un figlio ovvero di un discendente legittimo. Né tale previsione contrasta con gli artt. 3, 30 e 31 Cost., non determinando alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, i quali sono tutelati solo in via mediata ed indiretta, in quanto l'interesse tutelato dalla norma è quello di consentire al genitore di soddisfare le esigenze fondamentali dei figli, sicché è proprio l'assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell'essere umano, che può non essere stato valutato adeguatamente dal donante che non abbia ancora avuto figli, diversamente da quello che, avendo già provato il sentimento di amore filiale, si è comunque determinato a beneficiare il donatario, benché conscio degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale (Cass. n. 5345/2017, che ha reputato anche manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 803 c.c., in relazione agli artt. 3 e 30 Cost., nella parte in cui preclude la revocazione per sopravvenuta nascita di un figlio nel caso al momento della donazione il donante abbia già la consapevolezza dell'esistenza di un altro figlio, non determinandosi alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, in quanto è proprio l'assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell'essere umano, in quanto il donante che non abbia ancora alcun figlio non può valutare adeguatamente l'interesse alla cura filiale, non avendo ancora provato il sentimento di amor filiale con la dedizione che esso determina ed il superamento che esso provoca di ogni altro affetto, viceversa non sussiste il fondamento applicativo della revocazione, allorché l'atto di liberalità sia stato compiuto da chi già aveva avuto modo di provare l'affetto filiale, e che, quindi, si è determinato a beneficiare il donatario pur nella consapevolezza degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale).
Tuttavia si palesa incensurabile la diversa affermazione che ha del pari portato al rigetto della tesi difensiva del ricorrente, secondo cui sarebbe irrilevante ai fini della domanda proposta la circostanza che il donante fosse consapevole del concepimento di un figlio.
La norma in esame prevede per la sua operatività un duplice presupposto di cui uno negativo ed uno positivo.
Quello negativo è costituito dal fatto che il donante non avesse o ignorasse di avere figli o discendenti legittimi al momento della donazione (essendo equiparata alla assenza anche la loro morte in data anteriore alla donazione).
Il presupposto positivo è costituito dalla sopravvenienza oppure dalla conoscenza dell’esistenza di un figlio o di un discendente legittimo.
La revocazione è poi ammessa anche in caso di riconoscimento del figlio (ovvero di dichiarazione giudiziale di paternità), ma in tal caso (ed al fine di evitare che tramite il riconoscimento il donante sia rimesso in termini per conseguire la revocazione della donazione), la norma prevede che la domanda possa essere disattesa ove si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio.
La norma, la cui attuale formulazione deriva anche dall’intervento della Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 250 del 2000 ha rimosso il limite costituito dal fatto che il riconoscimento dovesse avvenire entro il biennio dalla donazione, è stata poi intesa dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che, ai fini dell’operatività del detto limite, è necessario che vi sia la compiuta conoscenza dell’esistenza in vita del figlio riconoscendo, non essendo sufficiente la sola notizia del suo concepimento (Cass. n. 1112/1965).
La correttezza della soluzione cui è pervenuto il giudice di appello, nel ritenere irrilevante anche la mera conoscenza del concepimento appare sorretta dal dettato della norma oltre che dalla ratio dell’istituto.
Il giudice di legittimità ha a più riprese ribadito che la revocazione della donazione, regolata dall'art. 803 cod. civ., ha il suo fondamento nell'esigenza di consentire al donante una rivalutazione dell'opportunità della donazione di fronte al fatto sopravvenuto della nascita o conoscenza dell'esistenza di figli o discendenti legittimi e ciò di eventi che essendo successivi alla perfezione ed efficacia del negozio di donazione non possono sullo stesso influire se non nel momento in cui si siano verificati (Cass. n. 2031/1994).
Poiché la revocazione della donazione per sopravvenienza di figli risponde all'esigenza di consentire al donante di riconsiderare l'opportunità dell'attribuzione liberale a fronte della sopravvenuta nascita di un figlio, o della sopravvenuta conoscenza della sua esistenza, in funzione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, che derivano da tale evento, come anche dall'adozione del minore d'età ex art. 27 della legge n. 184 del 1983, la revocazione della donazione non è consentita per sopravvenuta adozione del maggiore d'età, la quale è finalizzata non a proteggere la prole, ma ad assicurare all'adottante la trasmissione del nome e del patrimonio ("adoptio in hereditatem"), essendo, quindi, manifestamente infondata la questione di illegittimità dell'art. 803 cod. civ., in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede la revocazione degli atti di liberalità per sopravvenienza di figli adottivi maggiorenni (così Cass. n. 6761/2012).
Può quindi affermarsi che l’esigenza in vista della quale è stata prevista la revocazione di cui all’art. 803 c.c. è evidentemente correlata all’effettiva venuta ad esistenza del figlio poiché è solo in quel momento che sorge l’esigenza di poter riconsiderare l’opportunità dell’attribuzione liberale.
Depone per questa lettura anche il disposto di cui all’art. 804 co. 2 c.c., che prevede che l’azione de qua non possa essere proposta o proseguita dopo la morte del figlio o del discendente, a conferma del fatto che solo l’effettiva esistenza in vita e la permanenza del rapporto di filiazione o di discendenza sorreggono la possibilità di rendere inefficace la donazione.
E’ solo per l’ipotesi di riconoscimento che il legislatore pretende che vi sia anche l’ignoranza da parte del donante del rapporto di filiazione, e ciò in vista della segnalata esigenza di evitare che tramite il riconoscimento di un soggetto, con il quale il rapporto di filiazione in punto di fatto era ben noto, possano rendersi inefficaci atti di liberalità posti in essere allorché il detto sentimento di affetto paterno aveva già avuto modo di manifestarsi, ma senza che avesse però inibito il compimento di atti siffatti.
Né in senso contrario può richiamarsi il disposto del secondo comma dell’art. 803 c.c., che prevede che la revocazione può essere domandata anche se il figlio del donante era già concepito al tempo della donazione, trattandosi di norma che lungi dall’avallare la tesi sostenuta dal ricorrente, conferma piuttosto che è solo la circostanza sopravvenuta della nascita di un figlio a legittimare la revocazione, e che la medesima non è impedita anche nel caso in cui il concepimento fosse già avvenuto al momento della donazione.
La soluzione sopra richiamata, in relazione all’ipotesi del riconoscimento del figlio (che ritiene irrilevante ai fini della conoscenza il solo concepimento), ipotesi per la quale solamente il legislatore fa riferimento anche alla conoscenza del donante, impone di reputare che analogamente sia irrilevante la coscienza del concepimento in caso di nascita di figli o discendenti successiva alla donazione, avendo la norma di cui al secondo comma piuttosto la finalità di ribadire l’irrilevanza del mero concepimento alla data della donazione, sebbene dello stesso fosse a conoscenza il donante.
Opinare, come fa parte ricorrente, nel senso che la norma di cui al secondo comma si riferisca alle sole ipotesi di concepimento ignoto al donante, renderebbe la stessa del tutto priva di rilevanza, in quanto nell’ipotesi di ignoranza, la revocazione sarebbe già giustificata alla luce del dettato del primo comma dell’art. 803 c.c., ricorrendo la fattispecie ivi prevista di assenza di figli in vita e di ignoranza, in questo caso, del loro sopravvenire. E’ evidente che con il secondo comma il legislatore abbia inteso piuttosto riconoscere la possibilità di agire in revocazione anche nel caso di figlio già concepito al momento della donazione, attribuendo rilievo alla successiva nascita rispetto alla donazione, malgrado dell’imminente arrivo il donante fosse già consapevole.
7. Il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 189 c.p.c., nella parte in cui il giudice di appello ha escluso che il Tribunale fosse incorso nel vizio di extrapetizione allorché, previa revocazione della donazione, aveva disposto l’attribuzione del bene immobile al donante, ancorché limitarsi a disporre la restituzione della somma donata.
Si deduce che la sentenza di appello è sul punto contraddittoria ed in contrasto con le conclusioni rese in relazione alla omessa riproposizione delle richieste istruttorie, in quanto in questo caso avrebbe accolto una domanda che in realtà non era stata adeguatamente coltivata.
Il motivo resta assorbito per effetto dell’accoglimento del terzo motivo, essendo lo stesso logicamente condizionato al riscontro dell’esistenza di una donazione, la cui prova è rimessa alla valutazione ex novo del giudice di rinvio.
8. Il giudice del rinvio come sopra designato provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, rigetta il primo, il secondo ed il quarto motivo ed dichiara assorbito il quinto motivo, e cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio;