
Svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti del contribuente di cui all’epigrafe un avviso di accertamento con il quale operava il recupero a tassazione, ai fini dell’IRPEF, di proventi illeciti conseguiti dallo stesso contribuente nell’anno 2006 mediante la commissione di plurimi reati di corruzione posti in essere nella qualità di Direttore pro tempore di un Ufficio locale della predetta agenzia fiscale; proventi ricondotti alla categoria dei «redditi diversi» in virtù della norma contenuta nell’art. 14, comma 4, della L. n. 537 del 1993, come autenticamente interpretata dall’art. 36, comma 34-bis, del D.L. n. 223 del 2006, convertito in L. n. 248 del 2006.
Il contribuente impugnava l’atto impositivo dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, sostenendo che i redditi in questione avrebbero potuto formare oggetto di accertamento in relazione all’anno 2005, e non al 2006.
L’adìta Commissione accoglieva il ricorso, annullando l’avviso di accertamento.
La decisione veniva successivamente confermata dalla Commissione Tributaria Regionale con la sentenza di cui all’epigrafe, che respingeva l’appello dell’Amministrazione Finanziaria, rilevando che l’avviso di accertamento risultava illegittimamente emesso dopo la scadenza del termine quadriennale fissato dall’art. 43, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, nel testo applicabile «ratione temporis».
Avverso detta ultima pronuncia l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione, denunciando, fra l’altro, la nullità dell’impugnata sentenza per vizio di ultrapetizione, per avere essa statuito su un’eccezione di decadenza non ritualmente proposta dalla parte privata.
Con ordinanza n. 6441/2018 del 15 marzo 2018, riconosciuta la fondatezza della sollevata censura, questa Corte cassava la sentenza gravata, rinviando la causa alla stessa CTR del Veneto, in diversa composizione, per un nuovo esame della controversia.
Il contribuente riassumeva, quindi, il giudizio davanti al giudice del rinvio, il quale, con sentenza n. 720/19 del 18 settembre 2019, accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate, respingendo l’originario ricorso del contribuente.
Contro tale sentenza il contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a un unico motivo.
L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
La causa è stata avviata alla trattazione in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..
Nel termine di cui al comma 1, terzo periodo, del predetto articolo il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., sono denunciate la violazione e la falsa applicazione degli artt. 7 e 71 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR).
1.1 Si censura l’impugnata decisione per aver ritenuto corretta l’imputazione all’anno d’imposta 2006 dei redditi ripresi a tassazione, pur essendo stato accertato che i proventi illeciti contestati dall’Ufficio erano stati percepiti dal contribuente nel biennio 2004-2005.
La CTR avrebbe, quindi, trascurato di considerare che alla categoria dei redditi diversi ex art. 67 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), nel cui àmbito vanno ricompresi i proventi in questione, si applica il principio di cassa, giusta quanto disposto dall’art. 71 dello stesso decreto.
2. Il motivo è infondato.
2.1 L’art. 1 del TUIR stabilisce che «presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6».
2.2 L’art. 14, comma 4, della L. n. 537 del 1993, nel testo, applicabile «ratione temporis», vigente anteriormente alle modifiche apportate dal D. Lgs. n. 208 del 2015, così recita: «Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria».
2.3 L’art. 36, comma 34-bis, del D.L. n. 223 del 2006, convertito in L. n. 248 del 2006, nel dettare l’interpretazione autentica di tale ultima norma, ha precisato che, «in deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi».
2.4 Ricostruito in breve il quadro normativo di riferimento, giova rammentare che, per giurisprudenza di questa Corte, il termine ”possesso“ utilizzato dall’art. 1 del TUIR, nel suo significato minimo comune, evoca la riferibilità a un soggetto di determinati redditi e la titolarità in capo a lui degli inerenti poteri di disposizione (cfr. Cass. n. 433/2013).
2.5 Tanto premesso, si osserva che, in base a quanto accertato in fatto dalla CTR veneta, il possesso dei redditi recuperati a tassazione fu acquisito dal contribuente nell’anno 2006, nel corso del quale i proventi dell’attività illecita da lui posta in essere, consistita in una pluralità di episodi corruttivi, confluirono sui conti correnti bancari intestati allo stesso contribuente ed a sua moglie.
2.6 Il collegio regionale ha, inoltre, precisato che ai fini fiscali non rileva il momento di commissione dei singoli fatti di reato («momento corruttivo»), bensì quello in cui è avvenuta l’acquisizione dei redditi oggetto di ripresa.
2.7 La soluzione adottata dalla CTR appare giuridicamente corretta, alla luce di quanto chiarito sopra con riguardo all’individuazione del presupposto impositivo del tributo.
2.8 Non va, peraltro, dimenticato che, secondo l’orientamento ormai costante nella giurisprudenza di legittimità, il delitto di corruzione costituisce fattispecie a ”duplice schema“, che si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa o con la dazione-ricezione dell’utilità, fermo restando che, nell’ipotesi in cui alla promessa faccia sèguito la dazione, il reato si consuma ove venga realizzata anche quest’ultima condotta, costituente un approfondimento dell’offesa tipica (cfr. Cass. Sez. Un. Pen. n. 15208/2010; nello stesso senso, ex multis, Cass. Pen. n. 15641/2023, Cass. Pen. 28988/2022, Cass. Pen. n. 20842/2018, Cass. Pen. n. 4105/2016).
2.9 Nessun errore di diritto è, dunque, ravvisabile nell’iter motivazionale della sentenza impugnata; né in questa sede è possibile riesaminare la valutazione del materiale probatorio espressa dal collegio di secondo grado, il quale, sulla scorta di un apprezzamento di merito delle emergenze processuali, insindacabile in cassazione, ha individuato nel 2006 l’anno in cui i proventi di reato entrarono nella sfera di disponibilità del contribuente.
3. Va conclusivamente affermato il seguente principio di diritto: «In tema di ripresa a tassazione, ai fini dell’IRPEF, di redditi costituiti da proventi di attività illecita, per l’individuazione del periodo d’imposta al quale imputare tali redditi deve farsi riferimento al momento in cui viene acquisita la disponibilità dei detti proventi, coincidente con la realizzazione del presupposto impositivo fissato dall’art. 1 del D.P.R. n. 917 del 1986».
4. Per quanto precede, il ricorso deve essere respinto.
5. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
6. Stante l’esito dell’impugnazione, viene resa nei confronti del ricorrente l’attestazione contemplata dall’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 (Testo Unico delle spese di giustizia), inserito dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012.
7. Si ritiene, infine, di dover disporre d’ufficio l’oscuramento dei dati personali identificativi del ricorrente, ai sensi dell’art. 52, comma 2, secondo periodo, del D. Lgs. n. 196 del 2003.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere all’Agenzia delle Entrate le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi 2.300 euro, oltre ad eventuali oneri prenotati a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 (Testo Unico delle spese di giustizia), dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la proposta impugnazione, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo, se dovuto.
Visto l’art. 52 del D. Lgs. n. 196 del 2003, dispone che, in caso di diffusione della presente pronuncia, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi del ricorrente.