29 marzo 2022
Dichiarazione fraudolenta: in assenza di deleghe, tutti i membri del CdA rispondono del reato tributario
In assenza di deleghe ad alcuno dei componenti del consiglio di amministrazione di un Consorzio, grava su tutti i consiglieri la responsabilità solidale per gli illeciti deliberati o posti in essere dal consiglio di amministrazione, da riferirsi solidalmente a ciascuno di essi.
di Dott. ssa e consulente compliance aziendale - 231 Tiziana Satta Mazzone
Il caso
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La sentenza in commento, allineandosi al proprio consolidato orientamento, ribadisce il principio della responsabilità di tutti gli amministratori per l'illecito deliberato dal consiglio di amministrazione, salvo che l'atto non rientri nelle attribuzioni delegate al comitato esecutivo o a taluno dei consiglieri che ne sono parte. |
Il diritto
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La Suprema Corte, ritenendo il ricorso complessivamente infondato, lo ha rigettato. 1. opera solo nei confronti dell'Erario, per debiti tributari, e non di altre categorie di creditori; |
La lente dell'autore
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La sentenza in commento, pur collocandosi nell'ambito di una vicenda cautelare, affronta il rilevante tema dell'individuazione dei soggetti penalmente responsabili all'interno delle imprese, caratterizzate spesso da un'articolata ripartizione delle attribuzioni tra una pluralità di soggetti, con conseguente difficoltà di individuare le persone fisiche cui imputare i fatti-reato. Tale individuazione assume un significato del tutto peculiare nell'ambito penale, dominato dal fondamentale canone costituzionale (art. 27 Cost.) del carattere personale di tale forma di responsabilità che, a prescindere dalle qualifiche rivestite dai diversi soggetti, impone uno stringente accertamento del soggetto che abbia concretamente agito. |
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza (ud. 4 febbraio 2022) 28 marzo 2022, n. 11087
Svolgimento del processo
1. Con ordinanza 21.12.2020, il tribunale del riesame di Firenze confermava il decreto di sequestro preventivo emesso in data 16.10.2020 dal GIP/tribunale di Firenze impugnato dal M. e da tale C.F., qui non ricorrente, in quanto indagato per il reato cui all'art. 110, c.p., 2, d. lgs. n. 74 del 2000.
2. Avverso l'ordinanza il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, articolando due motivi.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di motivazione apparente in quanto eseguita per relationem con conseguente violazione degli artt. 292 e 309, c.p.p. e carenza assoluta del fumus per insussistenza degli elementi indiziari con testati all'indagato, e correlativa mancanza dell'elemento soggettivo ed assenza di motivazione in ordine alla sussistenza del dolo. In sintesi, la difesa del ricorrente censura l'ordinanza laddove ha ritenuto sussistere il fumus del reato ipotizzato senza indicare gli indizi relativi alla conoscenza od alla conoscibilità da parte del ricorrente del disegno criminoso ipotizzato, non essendo assolutamente sufficiente il richiamo offerto dai giudici del riesame, consistente nella sola condizione soggettiva della carica di consigliere assunta dal ricorrente. Dopo la riforma dell'art. 2392, cod. civ., infatti, sostiene la difesa, è stato eliminato in capo ai semplici componenti del C.d.A. l'obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, proprio al fine di evitare che in capo agli amministratori non operativi si potessero addebitare rilievi sulla base di quella che altro non era che una responsabilità oggettiva. In secondo luogo, poi, la difesa del ricorrente si duole per aver il tribunale del riesame riproposto in maniera pedissequa le risultanze di quanto evidenziato già nella relazione della GdF, nella richiesta del Pm e nel provvedimento del GIP, senza alcuna autonoma ed aggiuntiva valutazione sulla sussistenza in capo all'indagato del fumus, con conseguente violazione degli artt. 292 e 309, c.p.p.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 292 e 309, c.p.p., e correlato vizio di motivazione e motivazione apparente essendo la motivazione unicamente eseguita per relationem. In particolare, si censura l'ordinanza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che nei reati tributari il limite all'espropriazione immobiliare previsto dall'art. 76, d.P.R. n. 602/1973, opera solo nei confronti dell'Erario per debiti tributari, non costituendo limite né all'adozione della confisca penale né al sequestro preventivo ad essa funzionale. Si sostiene che l'indagato avrebbe dato prova che l'immobile sottoposto a sequestro è l'unica e prima casa adibita a residenza familiare. Richiamando giurisprudenza di questa Corte a proposito dell'insequestrabilità dei tratta menti retributivi pensionistici e assistenziali se non nella misura della loro pignorabilità, sostiene la difesa la necessità di un allineamento di tale disciplina a quella dell'insequestrabilità della prima ed unica casa di residenza, impignorabile per debiti verso l'Erario ex art. 52, lett. g), d.l. n. 69/2013. Si conclude, pertanto, chiedendo che venga disposto l'annullamento del provvedimento in quanto illegittimo per violazione del divieto di sequestro della prima casa di abitazione in applica zione della ratio di cui all'art. 52, d.l. n. 69 del 2013 e, in subordine, valutandosi la rimessione alle Sezioni Unite o alla Corte costituzionale, della questione di costituzionalità dell'art. 52 citato, nella parte in cui non prevede l'insequestrabilità anche a fini di confisca ad opera dell'A.G. della prima ed unica casa di abitazione.
3. Con requisitoria scritta pervenuta in data 13.01.2022, il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto l'annullamento con rinvio dell'impugnata ordinanza. In particolare, il PG condivide le argomentazioni sviluppate dal ricorrente ritenendo che l'ordinanza sarebbe carente di argomentazioni in merito, avendo concentrato i giudici la decisione circa il coinvolgimento nei reati dell'inda gato solo in virtù della carica formale di componente del C.d.A. del Consorzio, omettendo ogni valutazione in relazione alla sussistenza dell'elemento psicologico, donde il provvedimento impugnato sarebbe privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza.
4. La difesa del ricorrente ha fatto pervenire in data 26.01.2022 conclusioni scritte a mezzo PEC presso la cancelleria di questa Corte, chiedendo, in tesi l'annullamento senza rinvio dell'impugnata ordinanza, con immediata revoca e perdita di efficacia, ovvero, in subordine, nell'associarsi alle conclusioni depositate dal Sostituto Procuratore Generale, l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è complessivamente infondato.
2. Ed invero, quanto al primo motivo, la censura afferente all'insussistenza del fumus del reato tributario per la non corretta applicazione dell'art. 2392 cod. civ. non ha pregio in questa sede, non solo perché la stessa è intempestiva (considerato che a venire in rilievo in questa sede non è la gravità indiziaria, come invece avviene nei provvedimenti cautelari personali, quanto piuttosto, la configurabilità del fumus del reato ipotizzato), ma perché la stessa articolazione del motivo rende evidente la non pertinenza al caso di specie della doglianza mossa, come già rilevato da questa Corte nel parallelo procedimento impugnatorio proposto dalla coindagata C., deciso da questa stessa Sezione con la sentenza n. 30689/2021 ed originato dall'impugnazione della medesima ordinanza cautelare, i cui principi vanno integralmente ribaditi in questa sede.
3. In relazione al primo motivo, occorre infatti premettere che l'art. 2392 cod. civ., norma che regola la posizione di garanzia degli amministratori all'interno delle S.p.A., dispone che questi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza dei doveri loro imposti dalla legge o dallo statuto, a meno che non si tratti di attribuzioni proprie o del comitato esecutivo o attribuite in concreto ad uno o più di essi, così come ribadisce specificamente per il consiglio di amministrazione l'art. 2381, secondo comma, cod. civ.. Dovendosi perciò distinguere l'ipotesi in cui il consiglio di amministrazione operi con o senza deleghe, deriva dal suddetto assetto normativo che, a meno che l'atto non rientri nelle attribuzioni delegate al comitato esecutivo o taluno dei consiglieri che ne sono parte, tutti i componenti del consiglio di amministrazione rispondano - salvo il meccanismo di esonero contemplato dal terzo comma dell'art. 2392 cod. civ. che prevede l'esternazione e l'annotazione dell'opinione in contrasto da parte del consigliere dissenziente nonché immune da colpa- degli illeciti deliberati dal consiglio anche se in fatto non decisi o compiuti da tutti i suoi componenti. Diversa è invece l'ipotesi in cui specifiche materie siano state attribuite ad uno o più amministratori, nel qual caso gli illeciti compiuti investono esclusivamente la responsabilità dei consiglieri ad esse delegati, salva in tal caso la responsabilità solidale dei consiglieri non operativi, ovverosia esenti da delega, in conseguenza non già della posizione di garanzia sancita dall'art. 2392, primo comma, cod. civ., bensì per effetto della violazione dolosa o colposa del dovere di informa zione che grava, anche a seguito della riforma legislativa attuata con il d.lgs. 6/2003, sui singoli amministratori in ordine all'andamento della gestione sociale e sulle operazioni più significative che pone su costoro, in presenza di segnali di allarme, l'onere di attivarsi per assumere ulteriori informazioni rispetto a quelle fornitegli dagli organi delegati e di fare quanto nelle loro possibilità per impedire il compimento dell'atto pregiudizievole o eliderne le conseguenze dannose.
4. Tutto ciò premesso, risulta affermato dall'ordinanza impugnata, senza che l'assunto sia stato fatto oggetto di alcuna specifica confutazione, che all'interno del consiglio di amministrazione del Consorzio, a nessuno dei consiglieri che ne erano parte fosse stata attribuita alcuna delega. Muovendo da tale dato fattuale, le dissertazioni spese dalla difesa in ordine alla mancanza di un obbligo di vigilanza sui consiglieri privi di deleghe (come già avvenuto in sede di impugnazione proposta dalla C., decisa da questa Sezione all'ud. 4.05.2021 e dianzi richiamata) devono ritenersi inconferenti, trattandosi di principi applicabili alla di versa ipotesi in cui vi sia stata attribuzione specifica di materie o compiti a taluni componenti del C.d.A: non vi è dubbio che la riforma del 2003 abbia alleggerito gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe, responsabili verso la società nei limiti delle attribuzioni proprie, quali stabilite dalla disciplina normativa, rimuovendo il generale obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione (già contemplato dall'art. 2392 c.c., comma 2) e sostituendolo con l'onere di agire informato, atteso il dovere nell'ottica di una gestione informata di assumere informazioni sancito dall'ultimo comma dell'art. 2381 cod. civ., accompagnato dal potere di richiedere ulteriori informazioni (cfr. Cass. civ., Sez. U, sen tenza n. 20933 del 30/09/2009, Rv. 610513), ma trattasi di disposizioni applicabili in presenza di materie delegate o al comitato esecutivo o ad uno o più consiglieri.
5. Conseguentemente, come già avvenuto a proposito della coindagata C., anche le dispiegate doglianze del M., volte a sostenere che l'interpretazione adottata dall'ordinanza impugnata sia in contrasto con l'ordinamento vigente in cui le disposizioni incriminatrici in tema di diritto penale societario si svuotano di contenuto laddove rivolte a soggetti che non si identifichino in un amministratore delegato, non colgono nel segno posto che ad esse non si accompagna la deduzione, sulla quale soltanto avrebbe potuto fondarsi l'invocata assenza di responsabilità (peraltro da prospettarsi non già nell'incidente cautelare di legittimità), che ad altri consiglieri fossero state attribuite specifiche deleghe in materia, per quanto qui rileva, di adempimenti fiscali-tributari, limitandosi invece la difesa ad evidenziare che il M. fosse privo di deleghe, circostanza questa già accertata dai giudici del riesame. Invero, è solo per l'amministratore privo di delega che si pone il problema, quale necessario antecedente logico della posizione di garanzia, derivata dall'accettazione della carica in seno al consiglio di amministrazione, della "conoscibilità" delle determinazioni pregiudizievoli assunte dal o dai titolari della delega, occorrendo in tal caso segnare il limite operativo dell'art. 40, secondo comma, cod. pen. al fine di evitare di sovrapporlo ad una responsabilità di natura colposa, incompatibile con la lettera delle fattispecie incriminatrici, che configurando comportamenti modulati su consapevolezza dolosa, non consentono di addebitare all'autore di volontaria omissione, con argomentazione propria della colpa (e cioè con rimprovero di imperizia, o di negligenza, o di imprudenza), l'evento che egli ha l'obbligo giuridico di impedire.
6. Siffatti principi non hanno invece alcuna attinenza con il caso di specie, come in quello già esaminato in precedenza ed oggetto dell'impugnazione della C.. Invero, in assenza di deleghe ad alcuno dei componenti del consiglio di amministrazione del Consorzio, deve (con giudizio rebus sic stantibus, proprio di questa fase cautelare) ritenersi gravante su tutti i consiglieri, come sopra rilevato, la responsabilità solidale per gli illeciti deliberati o posti essere dal consiglio di amministrazione, da riferirsi solidalmente a ciascuno di essi. I principi affermati nell'ordinanza impugnata sono perfettamente applicabili per i membri del consiglio di amministrazione di una società di capitali in assenza di deleghe su specifiche materie o attribuzioni concernenti la gestione della società. Immuni da censure devono ritenersi conseguentemente i rilievi spesi dal Tribunale in ordine alla posizione di garanzia di cui all'art. 2392 cod. civ. ricoperta dall'indagato che, proprio perché investito, al pari di ogni altro componente del consiglio di amministrazione, dei compiti di amministrazione diretta, aveva uno specifico obbligo di vigilanza, quand'anche di fatto le determinazioni sul conferimento dei sub-appalti e sui conseguenti obblighi tributari non fossero state da costui direttamente assunte, sull'andamento della gestione societaria o a titolo di dolo generico per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o, comunque, a titolo di dolo eventuale, per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino.
7. In ogni caso, come anticipato, la doglianza è da ritenersi infondata in quanto intempestiva. Pacifico è, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte il principio per cui, in tema di sequestro preventivo, non è necessario valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il "fumus commissi delicti", vale a di re la astratta sussumibilità in una determinata ipotesi di reato del fatto contestato (tra le tante: Sez. 2, n. 5656 del 28/01/2014 - dep. 05/02/2014, Rv. 258279 - 01). La verifica del cosiddetto "fumus" non può infatti estendersi fino ad un vero e proprio giudizio di colpevolezza, essendo sufficiente la semplice indicazione di una ipotesi di reato, in relazione alla quale sussista la necessità di escludere la libera disponibilità della cosa pertinente a quel reato, potendo essa aggravarne o protrarne le conseguenze (sul punto: Sez. 2, n. 2248 del 11/12/2013 - dep. 20/01/2014, M., Rv. 260047 - 01). Analogamente è a dirsi con riferimento alla verifica della sussistenza dell'elemento psicologico del reato. Ed invero, sul punto la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di affermare che il sequestro preventivo è legittimamente disposto in presenza di un reato che risulti sussistere in concreto, indipendentemente dall'accertamento della presenza dei gravi indizi di colpevolezza o dell'elemento psicologico, atteso che la verifica di tali elementi è estranea all'adozione della misura cautelare reale (tra le tante: Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013 - dep. 14/11/2013, Rv. 257383 - 01). Da qui, dunque, la necessità che l'indagine sulla sussistenza dell'elemento psicologico - incompatibile con la presente fase cautelare, specie in sede di legittimità - venga operata, con il dovuto approfondimento, nell'opportuna sede di merito.
8. Priva di pregio è, poi, la censura con cui la difesa si duole della mancanza di un'autonoma valutazione da parte del tribunale del riesame del compendio indiziario con riferimento alla configurabilità del fumus del reato ipotizzato. Ed invero, è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, già espresso in materia cautelare personale e, a maggior ragione estensibile ai provvedimenti resi dal giudice del riesame nei procedimenti cautelari reali, che l'ordinanza cautelare adottata dal tribunale del riesame non richiede, a pena di nullità, l'autonoma valutazione dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, in quanto tale requisito è previsto dall'art. 292, comma 2, cod. proc. pen. con riguardo alla sola decisione adottata dal giudice che emette la misura "inaudita altera parte", essendo funzionale a garantire l'equidistanza tra l'organo requirente che ha formulato la richiesta e l'organo giudicante (da ultimo: Sez. 1, n. 8518 del 10/09/2020 - dep. 03/03/2021, Rv. 280603 - 01; Sez. 6, n. 1016 del 22/10/2019 - dep. 13/01/2020, Rv. 278122).
9. Anche il secondo motivo è infondato.
10. Ed invero, il tribunale del riesame ha infatti già correttamente risposto alla censura difensiva già sollevata richiamando il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui in tema di reati tributari, il limite alla espropriazione immobiliare previsto dall'art. 76, comma 1, lett. a), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nel testo introdotto dall'art. 52, comma 1, lett. g), del ci.I. 21 giugno 2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 98), opera solo nei confronti dell'Erario, per debiti tributari, e non di altre categorie di creditori, riguarda l'unico immobile di proprietà, e non la "prima casa" del debitore, e non costituisce un limite all'adozione né della confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, né del sequestro preventivo ad essa finalizzato. (Fattispecie, analoga alla presente, relativa alla confisca per equivalente dell'abitazione dell'indagato, quale profitto del delitto di cui all'art. 2 del d.lgs. 10 marzo 2000, n.74: Sez. 3, n. 8995 del 07/11/2019 - dep. 05/03/2020, Rv. 278275 - 01; conf.: Sez. 3, n. 30342 del 16/06/2021 - dep. 04/08/2021, R., Rv. 282022 - 01; Sez. 3, n. 5608 del 20/10/2020, T., non massimata). La disposizione in questione non fissa un principio generale di impignorabilità, perché si riferisce solo alle espropriazioni da parte del fisco per debiti tributari e non a quelle promosse da altre categorie di creditori per debiti di altro tipo. Né a ben vedere, la disposizione in questione può trovare applicazione in relazione alla confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, perché l'oggetto della confisca è il profitto del reato e non il debito verso il fisco. E i due concetti devono essere tenuti distinti, perché il profitto di delitti consistenti nell'evasione dell'imposta per mezzo di omessa, infedele o fraudolenta dichiarazione o di omesso versamento, che può essere oggetto di sequestro preventivo funzionale alla confisca, è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale e non comprende né le sanzioni dovute a seguito dell'accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione (Sez. 3, n. 17535 del 06/02/2019, Rv. 275445; Sez. 3, n. 28047 del 20/01/2017, Rv. 270429), né gli interessi maturati in favore dello Stato (Sez. 3, n. 40358 del 05/07/2016, Rv. 268329), mentre il debito verso il fisco è sempre comprensivo dell'originario debito tributario, degli interessi e delle sanzioni (sostanzialmente in tal senso, Sez. 3, n. 7359 del 04/02/2014, Rv. 261500).
11. Il principio dell'inapplicabilità del limite dell'espropriazione nel procedimento penale per reati tributari trova, infine, fondamento anche in ragione del fatto che, a norma dell'art. 2740 cod. civ., il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, e che le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge. Che, in specie, non sussiste. Conclusivamente, le limitazioni imposte con il D.L. 21 giugno 2013, n. 69, recante "Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia" e convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, riguardano il solo agente della riscossione e sono limitate a specifiche ipotesi e condizioni e non svolgono alcun effetto sulla misura cautelare reale imposta nel processo penale, avente, evidentemente, finalità del tutto diverse.
12. Non ricorrono, infine, le condizioni per la rimessione alle Sezioni Unite della questione (registrandosi, infatti, un unico, contrario precedente, rappresentato da Cass., n. 22581 del 2019, rimasto isolato) né per sollevare la invocata questione di costituzionalità, basata sulla necessità di un "allineamento" tra l'orientamento espresso da questa Corte a proposito dell'insequestrabilità dei trattamenti retributivi pensionistici e assistenziali se non nella misura della loro pignorabilità (tra le tante: Sez. 6, n. 8822 del 08/01/2020 - dep. 04/03/2020, Rv. 278560; contra: Sez. 2, n. 16055 del 02/10/2019 - dep. 27/05/2020, Rv. 279461 - 01), che ha determinato la rimessione alle Sezioni Unite con udienza programmata per il prossimo 24 febbraio 2022, rie. C.), a quella dell'insequestrabilità della prima ed unica casa di residenza, impignorabile per debiti verso l'Erario ex art. 52, lett. g), d.l. n. 69/2013. Ed invero, la questione di costituzionalità è anzitutto inammissibile per l'erroneità del presupposto interpretativo da cui muove la difesa, attesa l'inammissibilità di qualsiasi estensione analogica dei limiti civilistici alla pignorabilità dei trattamenti retributivi, pensionistici o assistenziali alla normativa sull'impignorabilità della "prima casa" essendone diversi non solo i presupposti, l'oggetto (denaro, nel caso dell'art. 545, c.p.c.; un immobile, nel caso dell'art. 52 citato), ma anche in considerazione dell'eterogeneità di ratio e fondamento delle rispettive previsioni. Ed invero, l'estensione di tali limiti è preclusa dall'inesistenza delle condizioni per l'operatività dell'analogia, trattandosi di situazioni tra esse del tutto diversificate, atteso che, con riferimento a somme presenti su e/e cui si riferisca detta genesi, devono essere offerti elementi specifici per riferirne l'origine retributiva dell'attività di lavoro dipendente o equiparato: appare evidente che solo detta natura è assistita dalle prerogative di impignorabilità in sede di esecuzione civile.
13. A ciò, peraltro, si aggiunge l'ulteriore e dirimente considerazione, per la quale la difesa, nel sollecitare la questione di costituzionalità dell'art. 52 citato, omette di indicare il parametro costituzionale che si assume violato. Per la costante giurisprudenza della Corte costituzionale (ex multis, sentenza n. 236 del 2011, ordinanze n. 26 del 2012, n. 321 del 2010, n. 181 del 2009), è infatti inammissibile la questione di legittimità costituzionale posta senza un'adeguata ed autonoma illustrazione, da parte del giudice rimettente, delle ragioni per le quali la normativa censurata integrerebbe una violazione del parametro costituzionale evocato. Non basta, in altre parole, l'indicazione delle norme da raffrontare, per valutare la compatibilità dell'una rispetto al contenuto precettivo dell'altra, ma è necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del caso, illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di normazione (sent. n. 120 del 2015). La mancanza di tale indicazione da parte della difesa rende, pertanto, inammissibile la richiesta di sollevare la questione di costituzionalità.
14. Il ricorso dev'essere, pertanto, rigettato, con condanna del ricorrete al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.