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29 giugno 2022
Responsabilità civile e assicurazioni
Il suicidio di soggetto con disturbi psichici è un evento imprevedibile e non prevenibile dai curanti
La verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell'accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno.
di Avv. e Giornalista pubblicista Maurizio Tarantino
Il caso

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Tizio, minore, a seguito della manifestazione dei sintomi di una patologia psichiatrica e nell'immediatezza di un tentativo di suicidio per impiccamento nel garage dell'abitazione familiare, era stato ricoverato presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC). In quell'occasione, il dottore in carica aveva disposto l'applicazione del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO).
Il giovane, sottoposto a terapia farmacologica, aveva goduto di un buono stato di salute fino al maggio del 2014, quando, a seguito del ripresentarsi dei sintomi persecutori, aveva smesso di recarsi ai periodici colloqui coi medici.
Dopo una nuova TSO, Tizio era stato lasciato privo dei necessari controllo e assistenza, cosicché si era arrampicato su una recinzione e, nell'intento di mettere in atto i suoi deliri persecutori suicidari, si era gettato nel vuoto riportando gravissime lesioni.
Nonostante il quadro clinico caratterizzato dalla presenza di un delirio persecutorio strutturato, Tizio era stato dimesso in quanto, secondo i medici, sussisteva un comportamento adeguato privo di contenuti deliranti. Anche dopo le ulteriori visite, tuttavia, approfittando dell'assenza dei genitori ed eludendo la sorveglianza del fratello, Tizio si era impiccato nel garage dell'abitazione familiare. Secondo i genitori, tale condotta era imputabile ai sanitari dai quali Tizio avrebbe dovuto essere assistito, con la cura, l'attenzione e la diligenza necessarie secondo la migliore scienza ed esperienza medica.
Nel giudizio di primo grado, secondo il Tribunale, erano state rispettate le linee guida e le buone pratiche in materia psichiatrica, quindi l'atto suicidario non era prevedibile e non altrimenti prevenibile.
Avverso il provvedimento in esame, i genitori di Tizio hanno proposto appello, eccependo, in particolare, che il Tribunale aveva errato nel ritenere non prevedibile o altrimenti prevenibile l'atto suicidario.

Il diritto

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Nel caso di specie, secondo i CTU, Tizio presentava un potenziale suicidario molto elevato.
Secondo i Giudici, dunque, era necessario comprendere se la decisione dei sanitari di dimettere il paziente era stata corretta.
Ebbene, con riguardo ai giorni successivi alla degenza del paziente presso l'Ospedale, ove lo stesso era stato ricoverato per via delle lesioni riportate in occasione dei primi eventi con tentativi di suicidio, era emerso dalla cartella clinica un andamento fluttuante delle condizioni di Tizio, poi via via stabilizzate, senza tuttavia una totale scomparsa delle ideazioni deliranti.
Ciò posto, gli ausiliari avevano considerato ragionevole la scelta di procedere alla dimissione con copertura farmacologica e controlli domiciliari in quanto non vi erano, a loro giudizio, elementi tali che suggerissero che un ulteriore periodo trascorso nel reparto avrebbe comportato una risoluzione profonda del quadro clinico. La diagnosi di dimissione, inoltre, come evidenziato dagli appellanti, non risultava rispondente alla patologia sofferta dal paziente.  Erano quindi riscontrabili dei profili di negligenza in capo al personale sanitario con specifico riguardo a tale fase. Profili che, tuttavia, non erano stati causalmente determinanti ai fini del verificarsi dell'atto auto-soppressivo. Infatti, il paziente era già in cura presso il CSM da circa un anno, ed era quindi del tutto verosimile che lo stesso o i suoi familiari sapessero come relazionarsi con quella struttura sanitaria e viceversa.
È probabile, secondo i CTU, che il paziente aveva sospeso la terapia farmacologica; difatti, (ammettono i consulenti) il farmaco avrebbe dovuto assicurare una sufficiente copertura farmacologica pur tenendo presente come nessun farmaco era in grado di annullare i rischi di una messa in atto di propositi suicidari da parte del paziente, specie se di questa gravità.
Sotto tale profilo, i familiari di Tizio non avevano mai lamentato che quest'ultimo non stesse assumendo la terapia farmacologica prescritta, tantomeno una simile circostanza era stata segnalata ai sanitari.
In altre risultanze, inoltre, era emerso che Tizio e i suoi familiari non avevano comunicato gli esiti di una precedente visita al personale sanitario: in tale circostanza, era emerso che al momento della visita «le condizioni psichiche del paziente erano molto gravi: umore disforico e ansia notevole, ma a dominare l'intero quadro clinico era soprattutto il contenuto del pensiero, assolutamente pervaso da una solida e strutturata ideazione delirante a carattere persecutorio, refrattario e inaccessibile alla critica, con spiccata ideazione auto-soppressiva». 

In conclusione, alla luce delle considerazioni innanzi esposte, secondo i Giudici, era insussistente il nesso di causalità materiale tra la condotta tenuta dai sanitari e l'infausto evento; nesso di causalità materiale il cui onere probatorio, anche nella responsabilità contrattuale, gravava sul creditore danneggiato. L'appello, su questo motivo, è stato rigettato.

La lente dell'autore

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Nel caso di specie non era stato dimostrato che le dimissioni avvenute erano state la causa dell’atto suicidario.
In particolare, in occasione della visita domiciliare, non erano stati riscontrati elementi tali da suggerire un nuovo ricovero; quindi, ragionevolmente, le condizioni di Tizio avrebbero comportato, nell’ottica del ragionamento controfattuale, le dimissioni del paziente stesso dall’ospedale. Per contro, volendo sostenere che il ricovero si sarebbe dovuto protrarre oltre tale data, doveva ipotizzarsi una degenza sine die la quale avrebbe potuto alimentare, in ipotesi, i propositi autolesivi di Tizio. 
In definitiva, alla luce del ragionamento della Corte territoriale, il suicidio di Tizio era da ritenersi un evento imprevedibile e non altrimenti prevenibile dai curanti e non erano pertanto ravvisabili profili di responsabilità professionale al caso di specie.
È pur vero che con riferimento alla modalità delle dimissioni protette, come osservato, erano state riscontrate delle carenze nella compilazione del foglio di dimissione.
Si trattava, in questo caso, di una condotta omissiva valutabile alla luce del principio espresso dalla Suprema Corte secondo cui  in tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell'accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell'omissione il comportamento dovuto.
Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del "più probabile che non", conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana) (Cass. civ., sez. III, 27 settembre 2018, n. 23197).

In sintesi, nell’ottica di un giudizio controfattuale, occorre domandarsi quale avrebbe dovuto essere il comportamento dei sanitari onde evitare il tragico evento.
Come già riportato, le riscontrate carenze ascrivibili ai medici al momento delle dimissioni dall’ospedale vengono superate e ovviate dagli accadimenti immediatamente successivi: mancavano i presupposti per un ricovero coatto (stante il quadro clinico stazionario del paziente), né, evidentemente, Tizio aveva manifestato la volontà di essere ricoverato.