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Tizio, minore, a seguito della manifestazione dei sintomi di una patologia psichiatrica e nell'immediatezza di un tentativo di suicidio per impiccamento nel garage dell'abitazione familiare, era stato ricoverato presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC). In quell'occasione, il dottore in carica aveva disposto l'applicazione del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO). |
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Nel caso di specie, secondo i CTU, Tizio presentava un potenziale suicidario molto elevato. In conclusione, alla luce delle considerazioni innanzi esposte, secondo i Giudici, era insussistente il nesso di causalità materiale tra la condotta tenuta dai sanitari e l'infausto evento; nesso di causalità materiale il cui onere probatorio, anche nella responsabilità contrattuale, gravava sul creditore danneggiato. L'appello, su questo motivo, è stato rigettato. |
Nel caso di specie non era stato dimostrato che le dimissioni avvenute erano state la causa dell’atto suicidario. In sintesi, nell’ottica di un giudizio controfattuale, occorre domandarsi quale avrebbe dovuto essere il comportamento dei sanitari onde evitare il tragico evento. |
Corte d’Appello di Cagliari, sentenza (ud. 5 maggio 2022) 16 giugno 2022, n. 286
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Con sentenza n. 932/2019 pubblicata in data 2.5.2019, il Tribunale ordinario di Cagliari, definendo il giudizio promosso da C.C., A.P. e A.C. nei confronti di ATS Sardegna (già ASL 8 Cagliari), ha disposto nei seguenti termini: “1) rigetta la domanda di accertamento della responsabilità professionale dei sanitari dipendenti dalla convenuta per l’evento suicidario di S.C. del 12 agosto 2014; 2) accerta la responsabilità professionale dei sanitari dipendenti dalla convenuta per le lesioni riportate da S.C. in data 26 giugno 2014; 3) condanna la convenuta al risarcimento del danno non patrimoniale subito iure hereditatis per quote uguali ai sensi dell’art. 571 c.c. da C.C., P.A. e C.A., genitori e fratello del defunto C.S., nella misura di euro 5.733,00, oltre agli interessi legali sulla somma devalutata alla data dell’illecito (26 giugno 2014), poi via via annualmente rivalutata secondo indici Istat da tale data alla pronuncia; 4) condanna la convenuta al risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale subito dai genitori C.C. e P.A. e dal fratello C.A., in euro 3.500,00 per ciascuna delle parti, oltre agli interessi legali sulla somma devalutata alla data dell’illecito (26 giugno 2014), poi via via annualmente rivalutata secondo indici Istat da tale data alla pronuncia; 5) dispone che su tali somme siano dovuti gli interessi nella misura legale dalla data della decisione al saldo; 6) condanna la società L. Insurance S.A a manlevare l’ATS Sardegna da ogni somma dovesse corrispondere alla parte attrice in conseguenza del presente giudizio, compresa la rifusione delle spese sostenute per la propria costituzione in giudizio; 7) compensa le spese del presente giudizio e le spese di assistenza stragiudiziale tra le parti nella misura della metà; 8) condanna la convenuta alla rifusione alla parte attrice delle spese del presente giudizio per la metà residua, che si liquidano in euro 6.715,00 per compensi, oltre spese esenti, spese generali ed accessori di legge; 9) condanna la convenuta alla rifusione alla parte attrice delle spese stragiudiziali per la metà residua, che si liquidano in euro 1.080,00 per compensi, oltre spese generali ed accessori di legge; 10) dispone che le spese della consulenza tecnica d’ufficio siano suddivise per metà tra le parti”.
Secondo quanto risulta dalla sentenza e dagli atti del primo grado del giudizio, gli attori avevano esposto al Tribunale:
• di essere, rispettivamente, genitori e fratello di S.C., nato a omissis in data omissis e deceduto il omissis in esito a un atto suicidario compiuto il giorno precedente;
• che, in precedenza, a seguito della manifestazione dei sintomi di una patologia psichiatrica diagnosticata nell’estate del 2013 e nell’immediatezza di un tentativo di suicidio per impiccamento nel garage dell’abitazione familiare, avvenuto in data 6.8.2013, il giovane era stato ricoverato presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) del presidio ospedaliero del SS. Trinità di Cagliari;
• che, in quell’occasione, il dott. P.T. aveva disposto l’applicazione del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) nei confronti del paziente, affetto, secondo quanto diagnosticato dal dott. S.P., da uno “scompenso psichico con tentativo di suicidio per impiccagione con elevato rischio di reiterazione del gesto”;
• che S.C. era stato dimesso in data 17.8.2013 con diagnosi di “disturbo psicotico NAS (primo episodio)”, prescrizione di terapia farmacologica da eseguire a domicilio e di controlli periodici da effettuarsi presso il Centro di Salute Mentale della Clinica Psichiatrica della ASL n. 8 di Cagliari (CSM);
• che il giovane, sottoposto a terapia farmacologica, aveva goduto di un buono stato di salute fino al maggio del 2014, quando, a seguito del ripresentarsi dei sintomi persecutori, aveva smesso di recarsi ai periodici colloqui coi medici;
• che, dopo numerosi solleciti, in data 25.6.2014, le dottoresse O. e P., del CSM, si erano recate presso la abitazione degli esponenti per una visita domiciliare, a seguito della quale era stato disposto un nuovo TSO eseguito il giorno seguente non senza difficoltà (fuga momentanea del paziente);
• che, durante il ricovero in TSO (26.6.2014) presso l’SPDC del Presidio Ospedaliero del SS. Trinità di Cagliari, S.C. era stato lasciato privo dei necessari controllo e assistenza, cosicché aveva potuto arrampicarsi su una recinzione e, nell’intento di mettere in atto i suoi deliri persecutori suicidari, si era gettato nel vuoto riportando gravissime lesioni che avevano necessitato il suo trasferimento presso la S.C. di neurochirurgia del P.O. Marino di Cagliari;
• che, terminate le cure neurochirurgiche e ortopediche, in data 29.6.2014 il loro familiare era stato nuovamente ricoverato presso il Servizio Psichiatrico del P.O. SS. Trinità e, da quel momento, sottoposto a una sorveglianza continua;
• che, nonostante il quadro clinico caratterizzato dalla presenza di un delirio persecutorio strutturato, S.C. era stato dimesso in data 25.7.2014 in quanto, secondo i medici, sussisteva un “comportamento adeguato privo di contenuti deliranti”;
• che, all’atto delle dimissioni, nessuna indicazione era stata loro fornita in merito alle cure (con esclusione della terapia farmacologica) e ai controlli cui si sarebbe dovuto sottoporre il loro familiare, né le modalità mediante le quali avrebbero potuto relazionarsi col CSM;
• che, a seguito di numerosi contatti telefonici da parte di A.P. volti a ripristinare l’assistenza ospedaliera del figlio per via dell’aggravamento delle sue condizioni, il dott. S. del SS. Trinità aveva risposto che ciò sarebbe stato eventualmente possibile solo dopo la somministrazione domiciliare di una fiala di Risperdal, programmata per il 19.8.2014;
• che i signori C., non rassicurati dalle parole del dott. S., avevano sottoposto il loro familiare a un consulto psichiatrico col libero professionista, dott. P.M., il quale aveva in seguito dichiarato che in data 31.7.2014 il paziente C. era in condizioni a tal punto gravi da rendere necessario un nuovo ricovero ospedaliero;
• che il 6.8.2014 le dottoresse O. e P. avevano confermato, nell’ambito di una visita domiciliare, quanto già riferito dal dott. S. in relazione ad un possibile ricovero solo dopo la programmata somministrazione del 19.8.2014;
• che, in data 12.8.2014, S.C., approfittando dell’assenza dei genitori ed eludendo la sorveglianza del fratello, si era impiccato nel garage dell’abitazione familiare;
• che gli eventi del tentato suicidio del 26.6.2014 e dell’atto suicidario compiuto il 12.8.2014 erano imputabili alla condotta dei sanitari dai quali S.C. avrebbe dovuto essere assistito, con la cura, l’attenzione e la diligenza necessarie secondo la migliore scienza ed esperienza medica;
• che, con riferimento all’evento del 26.6.2014, il loro familiare era stato lasciato privo della necessaria assistenza, nonostante avesse già tentato il suicidio l’anno precedente e nonostante in occasione del ricovero si fosse dato momentaneamente alla fuga;
• che, in quell’occasione, lo stesso dott. S. aveva evidenziato come la recinzione del giardino fosse inadeguata e come si fosse in costanza di una relativa carenza di personale;
• che il tentativo di suicidio del 26.6.2014 non si sarebbe verificato se la struttura ospedaliera avesse messo in pratica le indicazioni contenute nella raccomandazione del Ministero della Salute in materia di prevenzione del suicidio del paziente in ospedale;
• che l’azienda sanitaria non aveva quindi adempiuto alla sua obbligazione di fornire un’adeguata assistenza al paziente, anche da un punto di vista organizzativo, in maniera tale da evitare che arrecasse danno a sé o ad altri;
• che dall’evento del 26.6.2014 S.C. aveva subito un danno biologico temporaneo nella misura di 30 punti percentuali, da quantificare tenendo conto del periodo di inabilità totale e parziale nonché del danno morale;
• che, con riferimento all’atto suicidario del 12.8.2014, le dimissioni disposte dal personale sanitario in data 25.7.2014 erano state indice di un comportamento gravemente negligente per aver valutato con superficialità il quadro psichico del paziente e la relativa attenuazione del rischio suicidario;
• che le dimissioni ospedaliere di S.C., le quali non avrebbero comunque dovuto aver luogo, erano state poste in essere senza la creazione di un’adeguata rete di protezione (lettera di dimissioni in bianco, mancato coinvolgimento dei familiari e del medico di medicina generale, mancata individuazione di un referente ospedaliero, mancato intervento del CSM per un supporto attivo e continuativo con la sola esclusione della visita domiciliare del 6.8.2014 e della successiva programmata per il 19.8.2014);
• che, per quanto esposto, la morte del loro familiare era da porre come conseguenza dei comportamenti tenuti dal personale del SPDC e del CSM e, quindi, della ASL n. 8 di Cagliari;
• di aver diritto a essere ristorati del danno per la lesione del rapporto parentale, comprensivo sia della sofferenza interiore patita al momento della perdita che del pregiudizio derivante dalla lesione dell’integrità della famiglia;
• della necessità di tenere in considerazione, nella quantificazione del danno morale, la giovane età del defunto, la convivenza nonché le circostanze assai drammatiche in cui il decesso era avvenuto;
• di aver diritto, iure hereditatis, anche alla compensazione del bene supremo della vita del defunto;
• che C.C. aveva diritto al risarcimento dei danni patrimoniali costituiti dalle spese sostenute per i funerali del figlio, pari a euro 4.700,00, oltre interessi e rivalutazione monetaria;
• di aver diritto alla rifusione delle spese legali relative all’attività stragiudiziale svolta dall’avvocato e dal consulente di parte.
Gli attori avevano concluso, quindi, affinché il Tribunale condannasse la ASL n. 8 di Cagliari, previo accertamento della responsabilità di quest’ultima relativamente agli eventi del 26.6.2014 e del 12.8.2014, a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali da loro subiti iure hereditatis e iure proprio, nonché al pagamento delle spese legali per l’attività svolta in sede stragiudiziale.
Costituitasi in giudizio, la ASL n. 8 di Cagliari aveva, a sua volta, sostenuto:
• di non avere alcuna responsabilità nei drammatici avvenimenti occorsi a S.C.;
• che l’accadimento del 26.6.2014, differentemente da quanto sostenuto dagli attori, non era stato un tentativo di suicidio, bensì un tentativo di fuga dal reparto nosocomiale, posto che il TSO disposto in quell’occasione non aveva avuto come motivazione un’ideazione suicidaria e che l’avvenimento di cui trattasi aveva presentato una fenomenologia del tutto diversa rispetto agli altri due gesti autosoppressivi compiuti dal C.;
• che quanto accaduto in quell’occasione era stato del tutto imprevedibile e che il personale sanitario, non soggetto ad alcuna carenza, era intervenuto prontamente per ovviare alla situazione;
• che, sempre con riferimento all’avvenimento del 26.6.2014, ancor prima della sussistenza dell’elemento soggettivo, gli attori non avevano fornito alcuna prova del nesso causale intercorrente tra la condotta dei sanitari e gli asseriti danni riportati da S.C., contestati, peraltro, anche con riferimento al quantum;
• che, relativamente all’episodio del 12.8.2014, nessuna responsabilità poteva esserle attribuita, dato che le dimissioni dal reparto ospedaliero erano avvenute sulla base dei miglioramenti del paziente documentati nella cartella clinica e che, successivamente, era stato assicurato tutto il supporto possibile nel percorso di guarigione, attraverso gli opportuni contatti intercorsi con il CSM;
• che il comportamento dei sanitari del CSM era sempre stato ineccepibile sia nel periodo precedente al ricovero sia in quello successivo e che i periodi di relativo benessere per il paziente avevano avuto luogo quando sia costui che i suoi familiari avevano partecipato al percorso di cura individuato dal personale sanitario;
• che il C. e i suoi familiari avevano dimostrato in più di un’occasione scarsa fiducia nei confronti dei sanitari del CSM, come attestato dalla disdetta dell’appuntamento del 31.7.2014 e dalla visita compiuta lo stesso giorno presso lo specialista privato, i cui rilievi, erano da ritenersi, peraltro, contestabili, posto che, se il quadro clinico fosse stato davvero così allarmante come da questi sostenuto, certamente non si sarebbe limitato a suggerire un ricovero ospedaliero, bensì avrebbe attivato le procedure per un TSO;
• che il comportamento tenuto dai sanitari era stato corretto e rispondente alle regole dell’arte medica e che non era stata fornita alcuna prova né del nesso eziologico intercorrente tra la condotta dei medici e i drammatici eventi occorsi, né dei danni e della relativa quantificazione allegata dagli attori;
• che, qualora fosse stato riconosciuto un qualche profilo di responsabilità in capo a sé, avrebbe dovuto essere manlevata dalla L. Insurance S.A. presso la quale era stata assicurata con polizza n. omissis.
La ASL n. 8 di Cagliari aveva concluso, quindi, affinché il Tribunale, previa autorizzazione alla chiamata in causa della citata compagnia di assicurazione, la mandasse assolta da ogni pretesa e, in via subordinata, condannasse la terza chiamata a tenerla indenne da qualsiasi conseguenza economica pregiudizievole. Con comparsa depositata in data 18.1.2017 si era costituita l’A.T.S. – Azienda per la Tutela della Salute, dichiarando di essere subentrata nel giudizio alla ASL n. 8 di Cagliari per effetto di del disposto dell’art. 1, comma 4, legge regionale n. 17 del 27.7.2016.
In data 15.4.2016 si era costituita in giudizio la L. Insurance S.A., aderendo alla ricostruzione fattuale proposta dalla ASL n. 8 di Cagliari, poi ATS, ed ulteriormente esponendo:
• che, con riferimento all’episodio del 26.6.2014, non vi era stato alcun inadempimento relativo al dovere di sorveglianza da parte dell’azienda sanitaria, posto che la legge 180/1978 aveva abbandonato il precedente impianto di natura custodialistico-contenitiva per adottare un approccio più rispettoso dei diritti e della dignità del paziente e che, conseguentemente, data la situazione concreta (TSO non per ideazione suicidaria e disponibilità del paziente al momento dell’accesso in reparto), non sarebbe stata legittima alcuna misura contenitiva;
• che si era trattato di un evento imprevedibile, cui era seguito un pronto intervento del personale sanitario, ed erano stati adottati gli accorgimenti in linea con la valutazione del paziente effettuata ex ante dal dott. S. al momento dell’ingresso in reparto;
• che le dimissioni del 25.7.2014 erano state corrette alla luce del miglioramento del quadro clinico di S.C. e dell’ormai carenza dei presupposti per il mantenimento di un TSO o della volontà del paziente di prolungare il ricovero;
• che, contrariamente a quanto sostenuto dalla controparte, le dimissioni erano state discusse e concordate con i familiari del paziente e che erano intercorsi gli opportuni contatti tra il CSM e la struttura ospedaliera;
• che, al momento dell’ultima visita domiciliare successiva alle dimissioni, non era emerso alcun peggioramento della situazione clinica del C. né alcunché in merito era stato riferito dai familiari all’azienda sanitaria;
• di contestare, in ogni caso, l’entità e la quantificazione dei danni lamentati dagli attori.
La compagnia di assicurazioni aveva concluso affinché il Tribunale dichiarasse infondate e quindi rigettasse le avverse pretese proposte nei suoi confronti.
La causa era stata istruita con produzioni documentali, con l’esame dei testimoni citati e con una consulenza tecnica d’ufficio.
La sentenza n. 932/2019 premette un inquadramento giuridico delle questioni inerenti al caso di specie, muovendo dalla ritenuta natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria e dal conseguenziale rilievo per cui all'attore danneggiato basti provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia, nonché allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Resterebbe, conseguentemente, a carico della struttura sanitaria l’onere di dimostrare che tale inadempimento non vi sia stato, ovvero che, pur essendovi stato, lo stesso non sia stato eziologicamente rilevante. Il Tribunale, con riferimento ai pazienti psichiatrici, ha evidenziato come sia sufficiente la prova dell’incapacità di intendere e di volere ai fini della configurabilità della responsabilità risarcitoria per i danni provocati dal ricoverato a sé medesimo durante la degenza, stante la sussistenza di un dovere di sorveglianza a carico del personale sanitario addetto al reparto, una volta che sia stato accettato il ricovero. Ha quindi ricordato che il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito che si colloca tra un comportamento astrattamente considerato e l'evento, prescindendo da ogni valutazione di prevedibilità da parte dell'autore del fatto, in quanto insito, quest’ultimo profilo, nella categoria giuridica della colpa. Ha, poi, ulteriormente osservato che, nell'ambito della responsabilità civile medica, il nesso causale, il cui onere probatorio grava sul paziente, suppone che rispetto all'evento dannoso la condotta commissiva od omissiva del sanitario (riferibile quindi alla struttura) si ponga come antecedente necessario rispetto alla verificazione dell'evento. Grava, invece, sulla struttura sanitaria l’onere probatorio dell’accertamento di fatti sopravvenuti, di per sé soli idonei a determinare l'evento, interruttivi quindi del nesso di causalità. Sempre secondo il Tribunale, nel caso di colpa omissiva (culpa in vigilando), l'avverarsi stesso dell'evento costituisce prova dell'esistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva ed il danno, cosicché, per escludere tale nesso, è necessario dimostrare che l'evento dannoso abbia avuto una causa diversa dall'omissione. Proseguendo nella ricostruzione del quadro giuridico di riferimento, il Giudice di prime cure ha evidenziato come il passaggio successivo sia la valutazione dell'elemento soggettivo dell'illecito, e cioè della sussistenza o meno della colpa dell'agente, che, pur in presenza di un nesso causale accertato, potrebbe essere esclusa secondi i criteri di prevedibilità ed evitabilità del danno. Al contrario, se anche il comportamento del sanitario fosse gravemente negligente, ma l’evento dannoso fosse conseguente ad altra causa indipendente da tale comportamento, l'indagine sulla colpevolezza del sanitario sarebbe preclusa dalla interruzione del nesso causale tra il suo comportamento (omissivo o erroneamente commissivo) e l'evento. Spetta, dunque, alla struttura sanitaria provare che il risultato anomalo dipende da fatto a sé non imputabile, in quanto ascrivibile ad evento imprevedibile e non superabile con l'adeguata diligenza, in considerazione della concreta prestazione.
Applicando tali principi al caso concreto, alla luce degli accertamenti svolti in sede di accertamenti peritali, il Tribunale ha quindi osservato, attraverso un giudizio compiuto ex ante, come l’evento avvenuto in data 26.6.2014 fosse stato la conseguenza della mancata sorveglianza, la quale avrebbe dovuto essere continua per via sia delle circostanze accadute durante il ricovero per TSO, sia della inconsapevolezza della malattia da parte del paziente e del gesto autolesivo dell’anno precedente. Tutto ciò a prescindere dalle concrete finalità del gesto compiuto dal C. (suicidario ovvero costituente un tentativo di fuga).
Con riferimento, invece, all’atto autosoppressivo del 12.8.2014, il Tribunale ha preso le mosse dalla ritenuta necessità di operare un bilanciamento tra l’esigenza di precauzione e sicurezza del paziente e quella di riconoscere allo stesso margini di libertà ed autonomia, anche al fine di stabilire un’alleanza terapeutica sulla base di quanto auspicato dalla l. 180/1978. Ha quindi rilevato che, alla luce delle risultanze della c.t.u. e del protocollo sanitario ivi richiamato, i medici del SPDC avessero correttamente provveduto alle dimissioni con prescrizioni farmacologiche e controlli domiciliari, dato che un’ulteriore degenza non avrebbe ridotto il rischio di gesti autosoppressivi. Il Giudice del primo grado ha poi riconosciuto che vi erano stati diversi contatti tra la struttura ospedaliera e il CSM, esemplificativi di un coordinamento tra le due strutture, che la copertura farmacologica prescritta era adeguata al caso, secondo i protocolli suggeriti dalla letteratura, e che il paziente era stato visitato in seguito alle dimissioni dal personale del CSM ed erano state fissate ulteriori, successive visite. Per quanto esposto, essendo state rispettate le linee guida e le buone pratiche in materia psichiatrica, il Tribunale ha ritenuto l’atto suicidario del 12.8.2014 come non prevedibile e non altrimenti prevenibile.
Con riguardo ai fatti del 26 giugno 2014, il Giudice di prime cure ha quantificato il danno non patrimoniale subito da S.C. -invalidità temporanea, non essendo possibile liquidare quella permanente, dato il decesso del paziente prima della stabilizzazione delle sue condizioni- in euro 5.733,00 oltre interessi legali sulla somma devalutata alla data dell’evento (26.6.2014) poi via via annualmente rivalutata secondo gli indici Istat da tale data alla pronuncia. Ha inoltre riconosciuto un danno non patrimoniale da lesione parentale per i genitori e per il fratello del paziente, quantificato in euro 3.500,00 in favore di ciascuno, oltre interessi legali sulla somma devalutata alla data dell’illecito, poi via via rivalutata annualmente secondo gli indici Istat da tale data alla pronuncia. Ha quindi condannato la L. Insurance S.A. a manlevare l’ATS Sardegna da ogni somma corrisposta in ragione del giudizio. L’ATS è stata infine condannata a rifondere la metà delle spese processuali e stragiudiziali agli attori, compensando la restante parte. Le spese della CTU sono state invece divise per metà tra le parti.
Avverso la sentenza hanno proposto appello C.C., A.P. e A.C., i quali, svolta un’approfondita ricostruzione delle vicende fattuali e processuali, ne hanno invocato la riforma formulando diverse censure, che, per esigenze di sintesi e di trattazione sistematica, vengono riassunte nei punti che seguono.
1. Il Tribunale avrebbe errato nel ritenere non prevedibile o altrimenti prevenibile l’atto suicidario del 12.8.2014, poiché, diversamente da quanto sostenuto dai CC.TT.UU (e dallo stesso Giudice), il personale sanitario non avrebbe seguito le indicazioni contenute nei protocolli medici applicabili al caso in esame. In particolare: A) il paziente sarebbe stato dimesso senza che gli venisse chiesto il consenso, in assenza di indagini psicometriche e senza che vi fosse un miglioramento sintomatico delle sue condizioni (come desumibile dall’esame testimoniale e dallo stesso diario della cartella clinica, nel quale sarebbe significativamente assente qualsiasi riferimento alle modalità del necessario approccio relazionale col paziente, in questo caso mancato); B) le dimissioni, le quali per le ragioni esposte non avrebbero dovuto essere disposte, sarebbero avvenute in modalità non protetta, difformemente da quanto richiesto dal protocollo, ossia senza il coinvolgimento dei familiari e del servizio territoriale di competenza (il CSM, come desumibile dalla cartella sanitaria, avrebbe appreso delle dimissioni a distanza di quattro giorni, e solo per via di una telefonata della madre del paziente), minimizzando il disturbo psichico del C. (da “schizofrenia cronica paranoidea” a “psicosi non specificata [codice omissis]”) e senza alcuna specifica indicazione relativa a successivi controlli prenotati e/o consigliati (indicando, invece, solo genericamente “presso CSM Clinica Psichiatrica”); C) il monitoraggio del paziente a seguito delle sue dimissioni non sarebbe stato coerente con le indicazioni del protocollo, in quanto consistito soltanto in una programmata visita per il 31.7.2014 (concordata solo in data 29.7.2014) poi posticipata al 7.8.2014, nella quale visita, senza l’applicazione dei metodi di indagine prescritti nel protocollo, i sanitari del CSM non avrebbero riscontrato alcuna ideazione suicidaria.
2. Differentemente da quanto sostenuto dal Tribunale, il fatto che il dott. P.M., specialista privato presso il quale si era recato S.C. in data 31.7.2014, non avesse ritenuto di attivare le procedure per un TSO, non avrebbe dovuto rilevare ai fini della minimizzazione del quadro clinico del paziente, in quanto dalla diagnosi del medico sarebbe emersa la critica condizione del C., e il fatto stesso di essersi rivolti ad uno specialista privato sarebbe indice dello stato di abbandono in cui si sarebbe trovata la famiglia in quella difficilissima situazione.
3. Evidenziate le violazioni del protocollo, qualora fosse stato disposto il ricovero come richiesto dai familiari del giovane e suggerito dal dott. M., il suicidio non sarebbe avvenuto, a meno che l’ideazione suicidaria fosse stata a tal punto forte da posticipare l’inevitabile (ma tale ricostruzione andrebbe contro quanto sempre sostenuto dagli stessi medici). Sarebbe inoltre priva di rilievo l’ipotesi teorica che un prolungamento del ricovero avrebbe eventualmente potuto alimentare gli intenti autolesivi del paziente (indice, semmai, della necessità dell’indagine psicometrica e dell’applicazione integrale del protocollo).
4. Differentemente da quanto sostenuto dal Tribunale, non poteva negarsi la sussistenza del nesso causale tra l’inadempimento dei sanitari e il verificarsi dell’infausto evento del 12.8.2014, qualificato come imprevedibile, posto che le regole del protocollo sanitario, non seguite dal personale medico, avrebbero come scopo proprio quello di evitare la concretizzazione del rischio suicidario. Inoltre, la mancata applicazione del protocollo sarebbe indice della presenza di colpa in capo ai medici e, quindi, alla struttura sanitaria.
5. Il Giudice del primo grado avrebbe, conseguentemente, errato nel non riconoscere il danno non patrimoniale subito dagli attori iure proprio in conseguenza dell’atto autosoppressivo del 12.8.2014, quantificabile secondo i parametri individuati dalle tabelle milanesi, nonché nel non riconoscere il danno patrimoniale, anch’esso iure proprio, subito da C.C., pari a euro 4.700,00 per spese funebri.
6. Con riferimento alle lesioni subite da S.C. in data 26.6.2014, il Tribunale avrebbe errato nel non riconoscere il danno biologico permanente, la cui sussistenza dovrebbe invece essere considerata, posto che il collegio peritale e i CC.TT.PP. dell’ATS avrebbero comunque provveduto a quantificare tale danno (operazione necessariamente successiva all’accertamento dello stesso).
7. Il Giudice del primo grado avrebbe omesso di pronunciarsi sul danno morale subito dal C. in occasione dell’evento del 26.6.2014 e derivante dalla sofferenza prodotta dalle condizioni del paziente desumibili dalla cartella clinica nel periodo successivo alle lesioni.
8. Conseguentemente, il Tribunale avrebbe errato nel compensare le spese del giudizio e nel non considerare (neppure ai fini della compensazione) le spese della consulenza medica relativa alla fase stragiudiziale.
L’ATS nel costituirsi, ha contestato la fondatezza del gravame sostenendo:
• che la sentenza impugnata sarebbe esente da vizi, avendo il Tribunale motivato congruamente sulla base delle risultanze della c.t.u., essendo l’atto suicidario del 12.8.2014 un evento non prevedibile dai sanitari e non altrimenti prevenibile;
• che l’episodio avvenuto in data 26.6.2014 non sarebbe stato in alcun modo riconducibile a un gesto autosoppressivo, quanto, piuttosto, a un tentativo di fuga, dati il comportamento del paziente durante il ricovero per TSO (disposto per scompenso psicotico, non già per ideazioni autosoppressive), l’analisi del quadro clinico del paziente al momento del suo ingresso in reparto, le dichiarazioni testimoniali e la diversa fenomenologia dell’evento rispetto agli altri due atti suicidari compiuti dal C. (entrambi per impiccamento, il secondo dei quali con esito letale);
• che, sulla base del miglioramento clinico del C., la scelta dei sanitari di procedere alle dimissioni ospedaliere dello stesso sarebbe stata corretta, posto che solo la fase dell’acuzie sarebbe dovuta essere trattata in reparto, essendo quest’ultimo un luogo di cura, non già di custodia;
• che l’asserita discrepanza tra la diagnosi di ingresso e quella delle dimissioni sarebbe stata irrilevante, in quanto entrambe necessitanti dello stesso trattamento farmacologico (la terapia sarebbe stata nei fatti sempre la medesima);
• che i metodi di indagine sul rischio suicidario, comunque attuati dai sanitari, non permetterebbero una previsione del singolo caso con valore predittivo clinico e che, in ogni caso, non sarebbe emerso dal diario clinico del paziente che lo stesso fosse a rischio suicidio (non dovendosi, infatti, qualificare l’episodio del 26.6.2014 come gesto autosoppressivo);
• che ci sarebbero stati continui contatti tra la struttura ospedaliera e il CSM prima delle dimissioni (30.6.2014, 9.7.2014, 21.7.2014), nonché coi familiari del paziente, come risultante dalle cartelle cliniche, conformemente a quanto previsto dalla letteratura medica per casi del genere;
• che al momento delle dimissioni sarebbero state programmate delle visite col personale sanitario del CSM, la prima già in data 31.7.2014 (posticipata per un’indisposizione del C.), conformemente con quanto stabilito dai protocolli;
• che i medici della struttura ospedaliera e del CSM non erano stati informati dai familiari di quanto suggerito dal dott. M. a seguito della visita privata del 31.7.2014 (con referto postumo), né di un aggravamento delle condizioni del paziente (peraltro non sussistente, alla luce di quanto emerso dalla relazione della Clinica Psichiatrica e nell’ambito della visita del 7.8.2014);
• che non sarebbero stati sussistenti nuovi elementi successivi alle dimissioni tali da disporre un ulteriore ricovero in TSO, i cui presupposti giuridici sarebbero inoltre difettati in quel momento;
• che non sarebbe stata dimostrata la sussistenza del nesso causale tra la condotta del personale sanitario e quanto successivamente avvenuto;
• che, conseguentemente, non sarebbe dovuto alcun risarcimento per il suicidio e che, in ogni caso, il danno da lesione parentale non sarebbe stato dimostrato, né sarebbe dovuto il risarcimento del danno morale per le lesioni del 26.6.2014, il quale danno, se non già ricompreso nei valori monetari delle tabelle milanesi, avrebbe dovuto essere dimostrato;
• che la sentenza impugnata sarebbe esente da vizi anche con riferimento al mancato riconoscimento del danno biologico permanente per le lesioni del 26.6.2014 (dato il decesso del C. intervenuto nella fase del recupero funzionale), nonché con riferimento alla statuizione sulle spese di lite;
• che, in ogni caso, essa convenuta sarebbe dovuta essere manlevata dalla L. IMOB INVESTMENT s.r.l. (già L. Insurance S.A.) qualora l’avverso gravame fosse stato accolto.
All’udienza del 23.10.2020 è stata dichiarata la contumacia della compagnia di assicurazioni.
Punto I (mancata applicazione dei protocolli con particolare riferimento alla disposizione delle dimissioni, alla modalità non protetta delle stesse e al mancato monitoraggio del paziente).
È pacifico che il paziente S.C. fosse stato dimesso dall’SPDC del P.O. del SS. Trinità di Cagliari in data 25.7.2014. Secondo gli attori, le dimissioni sarebbero avvenute in maniera affrettata, senza l’applicazione degli specifici protocolli sanitari e, quindi, a seguito di un’errata valutazione del rischio suicidario del paziente.
In proposito, occorre far riferimento a quanto accertato dai periti in sede di consulenza tecnica d’ufficio. Detto elaborato, in quanto esente da vizi logici e di motivazione, nonché, nel suo complesso, esaustivo, così come già ritenuto dal Tribunale, può essere posto a fondamento della decisione da parte del Collegio. Si precisa, in ordine al recepimento delle risultanze peritali, che la Suprema Corte ha avuto modo di rilevare che “qualora sia stata disposta [una consulenza tecnica d’ufficio] e ne condivida i risultati, il giudice non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, atteso che la decisione di aderire alle risultanze della consulenza implica valutazione ed esame delle contrarie deduzioni delle parti, mentre l'accettazione del parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità” (Cass. 3881/2006). Nel caso di specie i CC.TT.UU. hanno stabilito che il C. “presentasse un potenziale suicidario molto elevato” (pag. 29 relazione) sulla base delle ideazioni espresse dal paziente, del precedente, tentato suicidio del 6.8.2013, nonché del gesto compiuto in reparto il 26.6.2014 (a prescindere dalla qualificazione di tale gesto come tentativo suicidario ovvero come tentativo di fuga). Avendo stabilito ciò e condividendo questa Corte tale assunto, occorre comprendere se la decisione dei sanitari di dimettere il paziente in data 25.7.2014 fosse stata corretta. È opportuno quindi accertare se, durante il lungo ricovero del C. presso il reparto nosocomiale del SS. Trinità di Cagliari, fosse intervenuta una condizione del quadro clinico del paziente tale da giustificarne le dimissioni. In proposito deve anzitutto darsi atto di quanto risultante dalla cartella clinica del C. (doc. 2, fascicolo I grado, attori). In particolare, con riguardo ai giorni successivi alla degenza del paziente presso l’Ospedale Marino di Cagliari, ove lo stesso era stato ricoverato per via delle lesioni riportate in occasione degli eventi del 26.6.2014, emerge dalla cartella clinica un andamento fluttuante delle condizioni del C., poi via via stabilizzatesi verso la seconda metà del mese di luglio, senza tuttavia una totale scomparsa delle ideazioni deliranti (1.7.2014: “appare sereno, collaborante, anche se chiede con insistenza di essere dimesso. Riferisce, interrogato sui recenti avvenimenti, di avere una taglia sulla testa anche se non sa riferire chi può avergliela messa. Nega dispercezioni”; 2.7.2014: “persiste ideazione delirante persecutoria. Assenza completa di insight… Al colloquio nel pomeriggio manifesta intolleranza per il ricovero in quanto qui non si sente al sicuro. Delirio persecutorio strutturato… ritiene che anche la madre sia in pericolo”; 3.7.2014: “più sorridente e collaborante. Invariati i contenuti deliranti”; 4.7.2014: “tranquillo, collaborante, non esprime emozioni di disagio. Persiste ideazione delirante”; 5.7.2014: “condizioni psichiche stazionarie”; 8.7.2014: “condizioni psichiche invariate. Persiste ideazione delirante persecutoria non espressa spontaneamente”; 9.7.2014: “tranquillo e collaborante, persiste ideazione delirante, scarsa risonanza affettiva”; 10.7.2014: “condizioni psicopatologiche stazionarie. Sempre presente ideazione delirante”; 11.7.2014: “sereno, collaborante, espressione vivace. Non esprime spontaneamente contenuti deliranti. Disponibile al dialogo”; 12.7.2014: “condizioni psichiche stabili. Non esprime contenuti deliranti”; 13.7.2014: “tranquillo, socializza con gli altri utenti, rispetta le indicazioni a stare fermo… Tranquillo, vivace nella mimica e nel linguaggio. Se stimolato emerge ideazione persecutoria”; 14.7.2014: “quadro clinico stazionario”; 15.7.2014: “tranquillo, disponibile al dialogo. Esprime il desiderio di lasciare il reparto quanto prima. Accetta tuttavia serenamente di proseguire il ricovero perché riconosce di aver bisogno di cure”; 16.7.2014: “sereno e adeguato nel comportamento. Emergono ancora contenuti deliranti di tipo paranoideo”; 17.7.2014: “persiste ideazione delirante persecutoria. Umore buono. Comportamento adeguato”; 18.7.2014: “condizioni psicopatologiche stazionarie”; 19.7.2014; “più lucido e adeguato, umore buono, critico verso il gesto compiuto. Persiste delirio persecutorio, assenza di insight, stolido”; 20.7.2014: “condizioni invariate”; 21.7.2014: “sta discretamente. Più consapevole della propria condizione. Disponibile alla prosecuzione della terapia”; 22.7.2014: “stolido, ha difficoltà a comprendere le indicazioni terapeutiche”; 23.7.2014: “stabile”; 24.7.2014: “comportamento adeguato. Non esterna contenuti deliranti”; 25.7.2014: “dimesso in data odierna”). Ciò posto, gli Ausiliari hanno considerato “ragionevole la scelta di procedere alla dimissione con copertura farmacologica e controlli domiciliari” (c.t.u., pag. 31) in quanto non vi erano, a loro giudizio, elementi tali che suggerissero che un ulteriore periodo trascorso nel reparto avrebbe comportato una risoluzione profonda del quadro clinico; inoltre, tale attesa avrebbe potuto protrarsi per molti mesi senza alcuna certezza in merito a un’eventuale guarigione.
Sempre con riferimento all’opportunità delle dimissioni, gli appellanti hanno lamentato che le stesse fossero state disposte senza essere concordate col paziente. La censura, in realtà, non trova riscontro negli atti e nei documenti di causa, posto che emerge chiaramente, anche da quanto riportato nel diario clinico precedentemente citato, che il paziente avesse più volte manifestato l’intenzione di lasciare il reparto (si veda, in particolare, quanto indicato nei giorni 1-2 e 15 luglio).
I familiari del C., relativamente, ancora una volta, alla opportunità delle dimissioni, hanno infine evidenziato che non sarebbero stati utilizzati in tale sede i parametri psicometrici di riferimento al fine di operare una corretta valutazione del rischio suicidario al momento delle dimissioni.
Ora, se è vero che dal diario clinico non emerge chiaramente il riferimento a tali parametri, di fatto il paziente è stato, comunque, costantemente interrogato sulle sue condizioni, le quali, come già riportato, si erano stabilizzate, con relativo, per quanto altalenante, tendenziale miglioramento nella seconda metà del mese di luglio.
La violazione dei protocolli, secondo gli appellanti, non avrebbe riguardato soltanto l’opportunità delle dimissioni, ma anche la modalità attraverso le quali queste erano state disposte. In particolare, si discute se le stesse fossero state dimissioni ordinarie ovvero protette. Per “dimissioni protette” si intende una particolare, strutturata tipologia di dimissione in base alla quale si crea, al momento del congedo dall’ospedale, una rete di protezione in favore del paziente, attraverso il coinvolgimento degli operatori del servizio territoriale di competenza e dei familiari. Nella specie, sebbene siano riscontrabili comportamenti dei sanitari non specificatamente aderenti al protocollo riportato dai C.T.U. nell’elaborato peritale, emerge, tuttavia, dagli atti di causa, come i familiari e il Centro di Salute Mentale (CSM) fossero stati comunque coinvolti. In particolare, occorre considerare quanto riportato nel diario clinico dell’SPDC del 24.7.2014 (giorno antecedente alle dimissioni): “Sono informati i familiari e la Clinica Psichiatrica per le visite domiciliari”. Inoltre, dalla cartella clinica del CSM (doc.3, fascicolo I grado ATS), si possono constatare diversi contatti telefonici intercorsi tra le due strutture durante il periodo del ricovero ospedaliero (26.6.2014, 30.6.2014, 9.7.2014, 16.7.2014, 21.7.2014), nonché un accesso della dottoressa P.R. del CSM presso il reparto nosocomiale (2.7.2014), circostanza che fa fondatamente ritenere sussistente un preesistente e persistente contatto con la struttura territoriale.
È vero che, con riferimento al profilo delle dimissioni protette, il protocollo citato dai C.T.U. (pag. 23 relazione) prevede espressamente: “Nella cartella clinica andrà scritto con chiarezza il giorno e l’ora in cui il Servizio territoriale incontrerà il paziente dopo la dimissione, o presso il suo domicilio o presso il CSM. Verrà consegnata al paziente e ai familiari una relazione di degenza/promemoria in cui è chiaramente indicato e prescritto il giorno e l’ora della visita ambulatoriale o domiciliare e i recapiti telefonici del Centro di Salute Mentale e del reparto di Diagnosi e Cura da chiamare in caso di necessità, facendo comunque presente che <<in caso di bisogno non esiti a contattare il servizio di emergenza chiamando il 118>>”. Nel caso di specie, la lettera di dimissione (doc. 4, appellanti) predisposta dal personale medico è stata certamente carente, in quanto sfornita di alcune necessarie o quantomeno utili informazioni che, secondo il protocollo citato e richiamato dagli Ausiliari, avrebbero dovuto essere ivi contenute. In particolare, risultano assenti l’indicazione del giorno e dell’ora della visita ambulatoriale o domiciliare (sostituita dalla generica formula “presso CSM Clinica Psichiatrica”), nonché quella relativa ai referenti ospedalieri e del CSM da contattare in caso di necessità. La diagnosi di dimissione, inoltre, come evidenziato dagli appellanti, non risulta rispondente alla patologia sofferta dal paziente. Sono quindi riscontrabili dei profili di negligenza in capo al personale sanitario con specifico riguardo a tale fase. Profili che, tuttavia, non sono stati causalmente determinanti ai fini del verificarsi dell’atto autosoppressivo del 12.8.2014. Infatti, anticipando concetti che saranno oggetto di ulteriore approfondimento, deve essere considerato che il paziente era già in cura presso il CSM da circa un anno, ed è quindi del tutto verosimile che lo stesso o i suoi familiari sapessero come relazionarsi con quella struttura sanitaria e viceversa. In proposito si deve evidenziare che, ad ogni modo, una visita domiciliare era stata poi programmata per il 31.7.2022. Inoltre, sebbene nella cartella clinica non fosse stato indicato il recapito telefonico del medico ospedaliero, quest’ultimo (dott. S.) era stato poi contattato più volte da parte della madre del paziente come dichiarato dagli stessi appellanti (citazione in appello, pag. 5), sebbene al fine di sollecitare un nuovo ricovero. Il fatto, poi, che fosse stata indicata una diagnosi differente (psicosi non specificata 2989) rispetto a quella certificata dal dott. T. dell’SPDC in data 10.7.2014 (al fine della concessione dell’indennità di accompagnamento: “schizofrenia cronica grave con ripetuti tentativi suicidari”) non ha inciso sulla scelta della terapia farmacologica indicata nel foglio di dimissioni, risultata adeguata al caso concreto, posto che gli Ausiliari hanno specificato che erano “… stati quindi rispettati i protocolli suggeriti dalla letteratura. È probabile che il paziente non abbia assunto la terapia orale regolarmente e che l’abbia anzi sospesa, ma il farmaco retard avrebbe dovuto, per l’appunto, assicurare una sufficiente copertura farmacologica pur tenendo presente come nessun farmaco sia in grado di annullare i rischi di una messa in atto di propositi suicidari da parte del paziente, specie se di questa gravità” (relazione, pag. 31). Sotto tale profilo va sottolineato che i familiari del C. non hanno mai lamentato che quest’ultimo non stesse assumendo la terapia farmacologica prescritta, tantomeno una simile circostanza era stata segnalata ai sanitari (consulenza tecnica Dott. T., pag. 9, doc. 7, fascicolo I grado appellanti).
Da ultimo, deve essere analizzata la doglianza degli appellanti in merito al mancato monitoraggio del paziente nel periodo successivo alle sue dimissioni, avvenute in data 25.7.2014. In proposito è doveroso tenere in considerazione il diario clinico del CSM: in data 29.7.2014 è riportato il primo contatto dopo le dimissioni tra i familiari e la Clinica Psichiatrica (“colloquio telefonico con la madre del paziente. È stato dimesso dal SPDC in data 25 luglio. Si programma una visita domiciliare per giovedì 31 luglio”), non emergendo dal tenore letterale di questo scritto, differentemente da quanto sostenuto dagli appellanti, che il CSM avesse appreso effettivamente delle dimissioni dalla telefonata con la madre del paziente, tenendo invece presente che, come già riportato, si era dato atto nel diario clinico del SPDC in data 24.7.2014 della comunicazione alla Clinica Psichiatrica delle programmate dimissioni per il giorno successivo; in data 31.7.2014 è riportato: “si presenta il padre del paziente per comunicare di voler disdire l’appuntamento odierno per una indisposizione del figlio (non entra nei dettagli)”; il successivo 7.8.2014 avviene la visita domiciliare “ci accoglie in compagnia della madre. Disponibile e sorridente… Sono ancora presenti deliri di persecuzione strutturati, vissuti con relativa partecipazione emotiva. Non si evidenziano attivazione delle percezioni né ideazione suicidaria. Dal racconto effettuato dal paziente si riesce a sapere che la terapia, più o meno nel mese precedente al ricovero, era stata assunta in maniera irregolare e contemporaneamente era iniziato uso di cannabis”. Era stata poi programmata una visita per il 19.8.2014 per la somministrazione di una fiala di Risperdal, mai avvenuta a causa del tragico evento del 12.8.2014. Si possono registrare quindi, nel periodo successivo alle dimissioni, dei contatti telefonici tra i familiari del paziente e la struttura sanitaria con programmazione di visite domiciliari. Da tali fatti si può desumere un sufficiente monitoraggio del C. nella fase successiva alle dimissioni, considerando il fatto che in occasione della visita del 7.8.2014 non erano emersi nuovi elementi, come riscontrabile da quanto scritto nel diario clinico, per disporre un nuovo ricovero.
Punto II (referto a firma del dott. P.M.)
È presente agli atti un referto del dott. P.M., specialista in regime di libera professione, datato 29.9.2014 (doc. 5, appellanti), quindi rilasciato dopo il decesso del giovane, riferito ad una visita effettuata dal paziente presso il professionista in data 31.7.2014 (stesso giorno della programmata visita presso il CSM alla quale il C. non si era presentato a causa di un’asserita indisposizione). Riporta il referto che al momento della visita “le condizioni psichiche del paziente erano molto gravi: umore disforico e ansia notevole, ma a dominare l’intero quadro clinico era soprattutto il contenuto del pensiero, assolutamente pervaso da una solida e strutturata ideazione delirante a carattere persecutorio, refrattario e inaccessibile alla critica, con spiccata ideazione autosoppressiva (“… prima che mi uccidano loro, mi uccido io…”), accompagnato da un’assoluta mancanza di consapevolezza di malattia. Date le condizioni di C.S., e considerati precedenti “veri” tentativi di suicidio, ho consigliato ai familiari il ricovero presso l’SPDC, da cui era stato da poco dimesso”.
Non risulta dagli atti di causa che il C. o i suoi familiari avessero comunicato gli esiti di tale visita al personale sanitario del SPDC o del CSM, né che il dott. M. avesse effettuato alcun tipo di comunicazione o segnalazione, o che avesse attivato le procedure per un trattamento sanitario obbligatorio. Si comprende, allora, come le strutture sanitarie non avessero potuto in alcun modo valutare la circostanza relativa alla (ritenuta) condizione del paziente in quella data (programmata per una sua visita), stante l’allegato impedimento del paziente, nè segnalata in seguito. Riporta la relazione peritale: “Risulta impossibile stabilire se le condizioni riscontrate dal dottor M. fossero diverse e più gravi rispetto a quelle rilevate in occasione della dimissione dal reparto.”. In ogni caso, alla visita domiciliare del successivo 7.8.2014, da parte delle Dottoresse O. e P. del C.S.M. (le stesse che il precedente mese di giugno avevano attivato il t.s.o. e che bene conoscevano il paziente), secondo i Consulenti, non era stato, evidentemente riscontrato un aggravamento delle condizioni cliniche posto che le specialiste avevano confermato le indicazioni del dottor S. ovvero di attendere la terza somministrazione del farmaco retard prevista dopo 13 giorni, non giustificandosi, dunque, alla luce degli elementi valutati nel corso di tale visita, un nuovo ricovero o l’adozione di nuovi accorgimenti terapeutici o di tipo precauzionale.
Punti III, IV e V (nesso causale e danni derivati dall’evento del 12.8.2014)
Prima di affrontare la questione del nesso di causalità, pare opportuno un accenno alla natura della (prospettata) responsabilità della struttura sanitaria con riferimento all’atto suicidario del 12.8.2014 e del conseguente decesso del C. il giorno successivo. Gli attori hanno qualificato tale responsabilità dell’ATS come contrattuale e il Tribunale, nella parte introduttiva dedicata alla ricostruzione del quadro giuridico di riferimento, ha mostrato di condividere tale impostazione. Tuttavia, deve tenersi presente che gli attori, odierni appellanti, hanno domandato il risarcimento dei danni subiti iure proprio sia per ciò che attiene al danno non patrimoniale (perdita del rapporto parentale), sia per quanto riguarda il danno patrimoniale subito dal padre C.C. (euro 4.700,00 per spese funebri). A tal proposito la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che “la responsabilità della struttura sanitaria per i danni da perdita del rapporto parentale, invocati "iure proprio" dai congiunti di un paziente deceduto, è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall'altro i parenti non rientrano nella categoria dei "terzi protetti dal contratto", potendo postularsi l'efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l'interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch'esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale” (Cass, ord. 21404/2021). Deve escludersi poi che, con particolare riferimento al suicidio del paziente ricoverato (o preso in cura presso il CSM, applicando il principio generale al caso oggetto della presente controversia), i familiari del soggetto deceduto possano essere considerati come “terzi protetti dal contratto”, posto che “in tema di richiesta di risarcimento danni avanzata dagli stretti congiunti di un paziente con problemi psichici ricoverato presso una struttura sanitaria, qualora essi facciano valere il danno patito "iure proprio" da perdita del rapporto parentale, in particolare nel caso in cui l'iniziativa autolesionistica del malato si risolva in un atto suicidario portato a compimento a causa dell'omessa vigilanza, deve escludersi che l'azione esercitata sia riconducibile alla previsione dell'art. 1218 c.c., poiché il rapporto contrattuale è intercorso solo tra la menzionata struttura ed il ricoverato; ne consegue che l'ambito risarcitorio nel quale la domanda deve essere inquadrata è necessariamente di natura extracontrattuale, atteso che questi ultimi non possono essere nella specie qualificati "terzi protetti dal contratto", potendo postularsi l'efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l'interesse del quale tali terzi siano portatori risulti anch'esso strettamente connesso a quello regolato già sul piano della programmazione negoziale” (Cass. 14258/2020). Si dà comunque atto che, nonostante il regime giuridico discendente dalla responsabilità aquiliana sia più favorevole per l’appellata, da parte di quest’ultima non è stata sollevata alcuna censura. Peraltro, anche analizzando la censura secondo le categorie di riferimento del giudizio di primo grado (discendenti dal sistema degli artt. 1218 e ss. c.c.), si perviene ugualmente, a giudizio della Corte, analogamente a quanto ritenuto dal Tribunale, a concludere per l’insussistenza del nesso di causalità materiale tra la condotta tenuta dai sanitari e l’infausto evento del 12.8.2014; nesso di causalità materiale il cui onere probatorio, anche nella responsabilità contrattuale, grava sul creditore danneggiato.
Come è noto, “in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell'interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l'obbligazione (perseguimento delle "leges artis" nella cura dell'interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione” (Cass. 28991/2019). In sintesi, nell’ambito della responsabilità medica tanto di natura contrattuale che aquiliana (caratterizzata dal dualismo del nesso causale: causalità materiale / causalità giuridica, il danneggiato ha l’onere di provare il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento dannoso. Difatti nell’obbligazione professionale (e specificamente in quella sanitaria), il nesso di causalità tra la condotta e l’evento non è insito nell'inadempimento, giacché, come poc’anzi evidenziato, “il danno evento consta della lesione non dell'interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l'obbligazione (perseguimento delle "leges artis" nella cura dell'interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato)”. Proprio tale scissione tra i due interessi coinvolti implica la peculiare ripartizione dell’onere probatorio del nesso di causalità materiale nella responsabilità medica, in quanto la lesione del diritto alla salute non è insita nell’inadempimento, giacché a monte l’interesse corrispondente alla prestazione era non già la guarigione (essendo quest’ultima un interesse solo presupposto, benché, comunque, caratterizzante causalmente il contratto), bensì solamente il perseguimento delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore. La conseguenza giuridica di quanto appena esposto è che “in tema di responsabilità sanitaria, il paziente è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale tra condotta del medico in violazione delle regole di diligenza ed evento dannoso, consistente nella lesione della salute (ovvero nell'aggravamento della situazione patologica o nell'insorgenza di una nuova malattia), non essendo sufficiente la semplice allegazione dell'inadempimento del professionista; è, invece, onere della controparte, ove il detto paziente abbia dimostrato tale nesso di causalità materiale, provare o di avere agito con la diligenza richiesta o che il suo inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile” (Cass., ord. 26907/2020).
Nel caso di specie non è stato dimostrato che le dimissioni avvenute in data 25.7.2014 siano state la causa dell’atto suicidario del 12.8.2014. In particolare, è risultato che, in occasione della visita domiciliare effettuata il 7.8.2014, non erano stati riscontrati elementi tali da suggerire un nuovo ricovero; quindi, ragionevolmente, le condizioni del C. alla data del 7.8.2014 avrebbero comportato, nell’ottica del ragionamento controfattuale, le dimissioni del paziente stesso dall’ospedale se non il 25 luglio quantomeno entro quella data. Per contro, volendo sostenere che il ricovero si sarebbe dovuto protrarre oltre tale data, dovrebbe ipotizzarsi una degenza sine die la quale avrebbe potuto alimentare, in ipotesi, i propositi autolesivi del C. (cfr. relazione, pag. 33). In proposito, si deve ricordare che il paziente si trovava ricoverato presso i presidi ospedalieri fin dal 26.6.2014, nonostante avesse manifestato più volte la volontà di abbandonare il reparto nosocomiale. Per quanto esposto deve aderirsi alle conclusioni cui sono pervenuti gli Ausiliari, secondo i quali: “… le precauzioni attuate dall'equipe curante appaiono aderenti alle più autorevoli Linee guida di prevenzione del suicidio citate nel presente elaborato. In virtù del fatto che non ci si poteva attendere una risoluzione profonda del quadro clinico tale da poter ridurre significativamente i rischi di un agito autolesivo, anche con una degenza protratta, risulta ragionevole la scelta di procedere alla dimissione protetta del giorno 25 luglio 2014 programmando sia la terapia farmacologica retard sia le visite domiciliari - (con le precisazioni di cui sopra) - ad intervalli stabiliti. La copertura farmacologica, inoltre, è stata programmata rispettando i protocolli terapeutici in uso. In definitiva il suicidio del C. è da ritenersi un evento imprevedibile e non altrimenti prevenibile dai curanti e non sono pertanto ravvisabili profili di responsabilità professionale al caso di specie.”.
E’ pur vero che con riferimento alla modalità delle dimissioni protette, come osservato, sono state riscontrate delle carenze nella compilazione del foglio di dimissione. Si tratta, in questo caso, di una condotta omissiva valutabile alla luce del principio espresso dalla Suprema Corte secondo cui: “In tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell'accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell'omissione il comportamento dovuto.
Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del "più probabile che non", conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana)” (Cass, ord. 23197/2018). Applicando i principi espressi dalla Suprema Corte al caso di specie, possono essere individuati alcuni comportamenti che avrebbero dovuto essere tenuti e che, invece, sono stati omessi dai sanitari. Si tratta di adempimenti prescritti dal protocollo citato dagli Ausiliari già riportato nell’analisi del punto I; adempimenti raccomandati al fine di diminuire il rischio concreto di suicidio, la cui mancanza tuttavia, applicando il criterio della cosiddetta “probabilità logica” al caso in esame, non è stata, nel caso concreto, causa scatenante del (o favorente il) tragico evento suicidario. Infatti, anche sostituendo all’omissione il comportamento dovuto, la successiva sequenza temporale si sarebbe svolta ragionevolmente nella stessa modalità. In sintesi si è evidenziato che: la mancata indicazione del referente ospedaliero non ha comportato l’impossibilità di contattare più volte il dott. S. dell’SPDC; la generica diagnosi di dimissione non ha impedito di prescrivere la terapia farmacologica adeguata al caso concreto; la mancata indicazione dell’orario e del luogo delle successive visite, stante la genericità della formula adoperata nel foglio di dimissioni (“presso CSM Clinica Psichiatrica”), non ha impedito ai familiari del C. di relazionarsi col CSM e di fissare una prima visita domiciliare per il 31.7.2014, dato che il paziente era già in cura presso quella struttura da circa un anno e che persino la procedura per il TSO eseguito in data 26.6.2014 era stata attivata dai medici dello stesso CSM. Come può agevolmente essere riscontrato, quindi, si sono verificati ugualmente nella realtà dei fatti gli accadimenti che i comportamenti non tenuti avevano lo scopo di agevolare.
Con riferimento al lamentato, mancato monitoraggio successivo alle dimissioni, deve riscontrarsi che, come desumibile dal diario clinico della Clinica Psichiatrica, il primo contatto era intervenuto in data 29.7.2014 ed era stata fissata una visita domiciliare per il 31.7.2014, poi non tenutasi a causa dell’ allegata indisposizione del C.. In quella stessa data, tuttavia, il paziente era stato visitato dallo specialista privato; nonostante il quadro preoccupante emerso in quell’occasione, né i familiari né il dott. M. avevano comunicato la circostanza alle strutture sanitarie coinvolte, sicché queste ultime non avevano potuto prendere gli opportuni provvedimenti. Era stata poi effettuata una visita domiciliare in data 7.8.2014 nel corso della quale non erano emersi elementi tali da suggerire un nuovo ricovero (“ci accoglie in compagnia della madre. Disponibile e sorridente… Sono ancora presenti deliri di persecuzione strutturati, vissuti con relativa partecipazione emotiva. Non si evidenziano attivazione delle percezioni né ideazione suicidiaria. Dal racconto effettuato dal paziente si riesce a sapere che la terapia, più o meno nel mese precedente al ricovero, era stata assunta in maniera irregolare e contemporaneamente era iniziato uso di cannabis”). Dalla sequenza temporale esposta, in definitiva, risulta mancare l’omissione quale parte del binomio condotta/evento dannoso, ancor prima del nesso causale che lega i due termini del binomio stesso. Successivamente era stata programmata una nuova visita domiciliare per il 19.8.2014, mai avvenuta a causa del gesto autosoppressivo compiuto il 12.8.2014. Ipotizzando (per quanto non risulti una prospettazione in detti termini) che l’arco temporale tra il 7.8.2014 e il 19.8.2014 fosse troppo lungo, date le circostanze del caso concreto, occorre considerare che, se la successiva visita fosse stata programmata secondo una ragionevole cadenza settimanale (il 13 agosto), non sarebbe comunque stata idonea ad impedire il gesto suicidario, avvenuto il giorno precedente (12 agosto).
In sintesi, nell’ottica di un giudizio controfattuale, occorre domandarsi quale avrebbe dovuto essere il comportamento dei sanitari onde evitare il tragico evento. Come già riportato, le riscontrate carenze ascrivibili ai medici al momento delle dimissioni dall’ospedale vengono superate e ovviate dagli accadimenti immediatamente successivi. In occasione della visita del 7.8.2014 mancavano i presupposti per un ricovero coatto (stante il quadro clinico stazionario del paziente), né, evidentemente, il C. aveva manifestato la volontà di essere ricoverato. Si deve ricordare che l’art. 2, comma secondo, della l. 180/1978 in materia di “accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” dispone che nei confronti delle persone affette da malattie mentali “la proposta di trattamento sanitario obbligatorio può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere”. Come riferito dagli Ausiliari, il paziente, data la sua storia clinica, era a rischio suicidio (pag. 29, elaborato peritale) ma, per quanto emerso nella visita del 7.8.2014, non si trovava in quel momento nella fase dell’acuzie; fase, quest’ultima, alla quale dovrebbe essere limitato il ricovero coatto, in un’ottica di cura, non già di mera custodia, ai fini di salvaguardare, per quanto possibile, l’autodeterminazione del paziente, così da costruire un’alleanza terapeutica con lo stesso, pur stando quindi all’interno di un perimetro di rischio consentito. Il quadro delle condizioni del paziente del 7.8.2014 consente di ritenere superate, inoltre, le dichiarazioni testimoniali di A.P. e M.C., zie del paziente, riferite entrambe a fatti avvenuti in precedenza. In particolare, le dichiarazioni della C. relative alle confidenze del nipote in merito alla sua volontà suicidaria fanno riferimento al periodo della degenza in ospedale. Relativamente a quanto dichiarato dalla P., ossia con riferimento alle dichiarazioni del nipote in merito alla sua volontà di togliersi la vita, anche in questo caso si tratta di fatti precedenti alla visita del 7.8.2014 e, specificamente per ciò che attiene a quanto dichiarato dal giovane dopo le dimissioni del 25.7.2014 (“sanno dove mi trovo, prima che mi trovino loro mi uccido io”), non emerge, in base a quanto riferito dalla testimone, che la stessa avesse udito tali frasi direttamente dal nipote.
È doveroso concludere sul punto facendo proprie le considerazioni degli Ausiliari secondo i quali “in virtù del fatto che non ci si poteva attendere una risoluzione profonda del quadro clinico tale da poter ridurre significativamente i rischi di un agito autolesivo, anche con una degenza protratta, risulta ragionevole la scelta di procedere alla dimissione protetta del 25.7.2014” (ctu, pag. 35). In data 7.8.2014 (indicata come 6.8 per refuso nell’elaborato peritale) “non è stato evidentemente riscontrato un aggravamento delle condizioni cliniche se è vero che le specialiste hanno confermato le indicazioni del dott. S., ovvero di attendere la terza somministrazione del farmaco retard prevista dopo 13 giorni” (ctu, pag. 32). Si deve inoltre evidenziare che sia con riferimento alle dimissioni del 25.7.2014, sia relativamente al mancato ricovero in occasione della visita del 7.8.2014 “il ricovero avrebbe potuto alimentare i vissuti di frustrazione e di rabbia del giovane e, con essi, i suoi propositi autolesivi” (ctu, pag. 33). In conclusione, “il suicidio del C. è da ritenersi un evento imprevedibile e non altrimenti prevenibile dai curanti, e non sono pertanto ravvisabili profili di responsabilità professionale al caso di specie” (ctu, pag. 35).
Per quanto esposto, le censure poc’anzi analizzate non possono trovare il favore della Corte, né può essere riconosciuto il risarcimento del danno subito dagli appellanti a seguito del suicidio del giovane figlio e fratello, stante l’assenza di responsabilità in capo all’ATS per l’evento avvenuto in data 12.8.2014 e per la sua tragica conclusione il giorno successivo.
Punto VI (danno biologico per invalidità permanente)
Diversamente da quanto sostenuto dagli appellanti, non può essere riconosciuta, nella liquidazione del danno biologico, con riferimento all’evento del 26.6.2014, l’invalidità permanente. Secondo quanto affermato in più occasioni dalla Suprema Corte, “in tema di danno biologico, la cui liquidazione deve tenere conto della lesione dell'integrità psicofisica del soggetto sotto il duplice aspetto dell'invalidità temporanea e di quella permanente, quest'ultima è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi. Ne consegue che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo, giacché altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno” (Cass. 3806/2004, nonché 26897/2014). Il principio è stato da ultimo ribadito dalla Suprema Corte nei seguenti termini: “Ai fini della liquidazione del danno biologico, che consegue alla lesione dell'integrità psico-fisica della persona, devono formare oggetto di autonoma valutazione il pregiudizio da invalidità permanente (con decorrenza dal momento della cessazione della malattia e della relativa stabilizzazione dei postumi) e quello da invalidità temporanea (da riconoscersi come danno da inabilità temporanea totale o parziale ove il danneggiato si sia sottoposto a periodi di cure necessarie per conservare o ridurre il grado di invalidità residuato al fatto lesivo o impedirne l'aumento, inteso come privazione della capacità psico-fisica in corrispondenza di ciascun periodo e in proporzione al grado effettivo di inabilità sofferto), mentre, ai fini della liquidazione complessiva del danno non patrimoniale, deve tenersi conto altresì delle sofferenze morali soggettive, eventualmente patite dal soggetto in ciascuno degli indicati periodi.” (Cass. sez. 3, Ord. n. 7126 del 12/03/2021).
Se, quindi, la cessazione dello stato di malattia rappresenta lo spartiacque tra le due specie di invalidità, porta a locupletazione sia il riconoscimento nell’invalidità permanente di quanto patito durante la malattia, sia il riconoscimento dell’entità dei postumi nell’invalidità temporanea. Gli appellanti hanno lamentato che nella giurisprudenza citata dal Tribunale, riportata anche da questa Corte, si dia atto che l’invalidità permanente non possa essere riconosciuta solo allorquando “cessata la malattia, questa risulti guarita senza reliquati; ovvero quando la malattia si risolva con esito letale” (Cass. 3806/2004). In realtà si tratta di una frase estrapolata dal contesto generale della motivazione; motivazione dalla quale invece è facile desumere l’impossibilità del riconoscimento di entrambe le invalidità per lo stesso arco temporale. Ne consegue che allorquando intervenga il decesso del danneggiato, anche per cause diverse dal danno subito, prima della stabilizzazione dei postumi, e quindi prima della cessazione dello stato di malattia, non sarà possibile riconoscere alcun risarcimento con riguardo all’invalidità permanente.
Nel caso di specie, secondo quanto riferito dagli Ausiliari, è fuor di dubbio che il C. fosse “deceduto prima di una fisiologica stabilizzazione delle lesioni subite” (elaborato peritale, pag. 47). Gli appellanti hanno assunto che gli Ausiliari avrebbero comunque effettuato una quantificazione del danno biologico da invalidità permanente nella misura del 25%; attività, la quantificazione, che necessariamente consegue all’accertamento, dovendo quindi considerarsi come sussistenti i postumi invalidanti. In realtà, i Consulenti hanno esplicitamente riferito che il giudizio sull’invalidità permanente era stato effettuato “in astratto e senza la visita del de cuius” (elaborato peritale, pag. 47), ossia, come è facile desumere, in via ipotetica. Per quanto rilevato, tuttavia, il decesso del C. prima della stabilizzazione delle lesioni subite impedisce il riconoscimento di un danno biologico ulteriore rispetto a quello derivante dall’invalidità temporanea.
Punto VII (danno morale)
Con riferimento alla doglianza in merito al mancato riconoscimento del danno morale per le lesioni subite in data 26.6.2014, la censura non può trovare accoglimento. Infatti, come ha avuto modo di precisare la Corte di Cassazione: “Nella liquidazione del danno non patrimoniale, in difetto di diverse previsioni normative e salvo che ricorrano circostanze affatto peculiari, devono trovare applicazione i parametri tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano successivamente all'esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, in quanto determinano il valore finale del punto utile al calcolo del danno biologico da invalidità permanente tenendo conto di tutte le componenti non patrimoniali, compresa quella già qualificata in termini di "danno morale" la quale, nei sistemi tabellari precedenti veniva invece liquidata separatamente, mentre nella versione tabellare successiva all'anno 2011 viene inclusa nel punto base, così da operare non sulla percentuale di invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente quantificazione. Tuttavia il giudice, in presenza di specifiche circostanze di fatto, che valgano a superare le conseguenze ordinarie già previste e compensate nella liquidazione forfettaria assicurata dalle previsioni tabellari, può procedere alla personalizzazione del danno entro le percentuali massime di aumento previste nelle stesse tabelle, dando adeguatamente conto nella motivazione della sussistenza di peculiari ragioni di apprezzamento meritevoli di tradursi in una differente (più ricca, e dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari” (Cass. 11754/2018). Più di recente i giudici di legittimità hanno affermato “Il principio della autonomia del danno morale rispetto al danno biologico, atteso che il sintagma "danno morale" 1) non è suscettibile di accertamento medico-legale; 2) si sostanzia nella rappresentazione di uno stato d'animo di sofferenza interiore, che prescinde del tutto (pur potendole influenzare) dalle vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato. 3.1.3. A tanto consegue che, nel procedere alla liquidazione del danno alla salute, il giudice di merito dovrà: 1) accertare l'esistenza, nel singolo caso di specie, di un eventuale concorso del danno dinamico-relazionale e del danno morale; 2) in caso di positivo accertamento dell'esistenza (anche) di quest'ultimo, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano, che prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno, ma pervengono (non correttamente, per quanto si dirà nel successivo punto 3) all'indicazione di un valore monetario complessivo (costituito dalla somma aritmetica di entrambe le voci di danno); 3) in caso di negativo accertamento, e di conseguente esclusione della componente morale del danno (accertamento da condurre caso per caso, secondo quanto si dirà nel corso dell'esame del quarto motivo di ricorso), considerare la sola voce del danno biologico, depurata dall'aumento tabellarmente previsto per il danno morale secondo le percentuali ivi indicate, liquidando, conseguentemente il solo danno dinamico-relazionale, 4) in caso di positivo accertamento dei presupposti per la cd. personalizzazione del danno, procedere all'aumento fino al 30% del valore del solo danno biologico, depurato, analogamente a quanto indicato al precedente punto 3, dalla componente morale del danno automaticamente (ma erroneamente) inserita in tabella, giusta il disposto normativo di cui al già ricordato art. 138, punto 3, del novellato codice delle assicurazioni.” (Cass. 25164/2020).
Con particolare riferimento all’invalidità temporanea, relativamente alla quale ben può configurarsi il danno morale (cfr. Cass. Ord. 7126/2021 cit.), le tabelle di Milano del 2018 (allegate alla comparsa conclusionale di primo grado degli odierni appellanti) prevedevano già il riconoscimento della componente morale all’interno del danno non patrimoniale (pag.3, paragrafo 2), potendosi applicare poi una personalizzazione massima sino al 50%. La liquidazione avveniva in maniera congiunta, mentre nella successiva versione delle tabelle milanesi (2021), in ossequio all’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità, si è provveduto a evidenziare le diverse componenti del danno non patrimoniale: danno biologico/dinamico-relazionale e danno da sofferenza soggettiva interiore (danno morale). Tale impostazione non determina, evidentemente, una locupletazione dei risarcimenti, ma soltanto una distinzione delle varie componenti che in precedenza erano considerate in maniera unitaria; componenti che non necessariamente devono essere entrambe riconosciute, potendo, evidentemente, difettare l’allegazione o la prova del danno morale nel caso concreto. Anche nel sistema adottato dalle tabelle meneghine del 2018 era quindi doveroso valutare la sussistenza del danno morale e, in assenza di tale componente, scomputare il relativo importo (incremento) dal quantum complessivo evidenziato dalle tabelle.
Nel caso di specie, il Tribunale ha proceduto con la personalizzazione tramite l’applicazione della percentuale massima di aumento prevista dalle tabelle milanesi del 2018 attraverso il seguente calcolo:
Punto base I.T.T. € 147,00
Giorni di invalidità temporanea totale 30
Giorni di invalidità temporanea parziale al 50% 18
Invalidità temporanea totale € 4.410,00
Invalidità temporanea parziale al 50% € 1.323,00
Totale danno biologico temporaneo € 5.733,00
Il punto base I.T.T., come è facile evincere, è già stato calcolato attraverso la personalizzazione massima delle tabelle di Milano del 2018, (valore base= euro 98,00 al giorno), in virtù delle peculiarità del caso concreto (procedimento avvenuto anche con riferimento all’invalidità temporanea parziale al 50%). La quantificazione del danno non patrimoniale nella sua massima personalizzazione (comprensiva quindi anche della componente morale, ossia del patimento interiore), pari a euro 5.733,00, viene dunque confermata da questa Corte (147 X 30 + 147/2 X 18), trattandosi di una somma satisfattiva e non avulsa dai canoni di comune esperienza e ragionevolezza.
Punto VIII (spese)
Non avendo il gravame trovato il favore della Corte, se non per il limitatissimo di cui appresso, si conferma la statuizione del Tribunale in merito alla compensazione delle spese del giudizio del primo grado e dell’assistenza stragiudiziale in ragione della metà (cfr. Cass. ord. 5906/2022). Nell’ambito dell’assistenza stragiudiziale deve peraltro essere inclusa, come fatto rilevare dall’appellante, la spesa riferita alla consulenza stragiudiziale del medico legale in ordine alla quale il Tribunale ha omesso di provvedere (euro 300,00+300,00):2=euro 300,00 (doc. 7 fasc. attori).
Quanto al presente grado, la particolare complessità della controversia per l’oggettiva difficoltà di valutazione del tipo di responsabilità professionale in ambito psichiatrico portata all’attenzione dei giudicanti, resa, nella specie, ancora più complessa, in ragione di talune carenze riscontrate nella fase di dimissione del paziente, nei termini sopra approfonditi, giustifica pienamente, al di là dell’accoglimento, in termini del tutto trascurabili e per un’entità economica irrisoria nell’economia del giudizio, dell’ultimo motivo di gravame, la compensazione delle spese processuali anche con riferimento al presente grado.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente decidendo, accoglie l’appello avverso la sentenza del Tribunale di Cagliari n. 932/2019 limitatamente alla censura sub 3 dell’atto introduttivo e, per l’effetto, parzialmente modificando il capo 9 della sentenza, condanna la convenuta ATS Sardegna al pagamento della metà delle spese di consulenza stragiudiziale, pari a euro 300,00; conferma nel resto la sentenza impugnata; dichiara interamente compensate fra le parti le spese del presente grado.