|
La Seconda sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 7201 del 10 marzo 2023 affronta, principalmente, due questioni processuali importanti in materia di arbitrato: l'ammissibilità dell'intervento del terzo nel giudizio di impugnazione del lodo e il limite del principio di autonomia della clausola compromissoria. Nel caso di specie tutto aveva preso le mosse da un giudizio arbitrale promosso da una società nei confronti di una Regione ed avviato in relazione ad un servizio affidato avente ad oggetto accertamenti sanitari preventivi e periodici sui dipendenti regionali il cui affidamento era stato, però, successivamente revocato dal TAR siccome non preceduto dall'espletamento di una gara pubblica e, quindi, non eseguito. In quel giudizio arbitrale la società attrice aveva chiesto il risarcimento del danno per responsabilità pre-contrattuale. Il Collegio arbitrale condannò la Regione ad un risarcimento del danno superiore ad un milione di euro con un lodo che la Regione impugnò davanti alla Corte di appello nel cui procedimento – nella contumacia della società vittoriosa – intervenne un socio di quest'ultima. All'esito del giudizio di impugnazione, la Corte di appello, ritenuto inammissibile l'intervento del socio, dichiarò nullo il lodo per invalidità della clausola compromissoria che, comunque, non comprendeva nel suo oggetto (limitato all'interpretazione della convenzione) questa specifica domanda (id est il risarcimento del danno per responsabilità pre-contrattuale). |
|
Una prima questione processuale è stata quella relativa all'ammissibilità, o no, nel giudizio di impugnazione del lodo dell'intervento del terzo (che aveva giustificato quell'intervento con il suo interesse ad evitare possibili pregiudizi derivanti dalla nullità del lodo e dalla perdita del diritto al risarcimento del danno da parte della società). Secondo la Suprema Corte una norma espressa sull'intervento del terzo è prevista soltanto con riferimento al processo arbitrale e non già per il processo di impugnazione del lodo. Ed infatti, a differenza del regime processuale previgente l'art. 816 quinquies prevede «che l'intervento volontario o la chiamata in arbitrato di un terzo sono ammessi solo con l'accordo del terzo e delle parti e con il consenso degli arbitri». Sono, peraltro, sempre ammessi l'intervento previsto dal secondo comma dell'articolo 105 c.p.c. e l'intervento del litisconsorte necessario. Si applica l'articolo 111 c.p.c. Ebbene, la dottrina sostiene che nel giudizio di impugnazione l'intervento sarebbe sempre precluso nella fase rescindente, ma non nella fase rescissoria ove sarebbe disciplinato dall'art. 105 c.p.c. essendo possibile in qualunque forma prevista dalla legge. Tuttavia, secondo la giurisprudenza di legittimità, «data l'equiparazione tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario, nel giudizio di impugnazione del lodo l'intervento è consentito negli stessi casi in cui è ammissibile l'intervento in appello ai sensi degli artt. 404 e 344 c.p.c., trovando applicazione al processo arbitrale le norme processuali generali, ove compatibili». Ne deriva che l'interventore deve risultare titolare di un interesse proprio e che, «intervenendo, faccia valere un diritto incompatibile con quello delle altre parti, situazione che è esclusa ove il socio di una società di capitali – come nel caso di specie - lamenti un pregiudizio connesso a perdite patrimoniali suscettibili di manifestarsi a carico della società e solo indirettamente sul singolo, senza far valere un diritto incompatibile con quello azionato, ovvero distinto ed autonomo, individualmente e separatamente tutelato oltre che nei confronti dei terzi, anche rispetto ai diritti che competono all'ente». |
|
Un secondo gruppo di questioni processuali di rilevante interesse è quello che riguarda la clausola compromissoria sia dal punto di vista della sua validità sia dal punto di vista dell'individuazione del giudice munito di giurisdizione per l'impugnazione. Iniziando da quest'ultimo aspetto, il ricorrente per cassazione aveva sostenuto che l'impugnazione avrebbe dovuto essere proposta davanti al giudice amministrativo poiché la lite riguardava un rapporto nascente da una concessione-contratto e quindi rientrava nell'art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006 (c.d. codice dei contratti pubblici). Senonché, per la Suprema Corte la giurisdizione è stata correttamente riconosciuta in capo al giudice ordinario tenendo conto della circostanza che la clausola compromissoria era stata stipulata nel 2005 e, quindi, nel regime dell'art. 6, comma 2 della Legge n. 205 del 2000 (poi generalizzato dall'art. 12 D.Lgs. n. 104 del 2010). Quella norma, infatti, prevedeva la possibilità di devolvere in arbitrato rituale di diritto le questioni aventi ad oggetto diritti soggettivi devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo: l'impugnazione del lodo è regolata, in questo caso – come in tutti gli altri – dall'unica disposizione ad hoc e, cioè, dall'art. 828 c.p.c. che individua nella Corte di appello nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato il giudice cui spetta pronunciare sull'eventuale nullità del lodo. Con riferimento, infine, al profilo della validità della clausola compromissoria, il ricorrente aveva sostenuto che la Corte di appello non avrebbe potuto negare – per il principio di autonomia della clausola compromissoria – validità alla clausola soltanto perché il contratto cui accedeva era nullo per mancato svolgimento di una gara. Senonché, il principio di autonomia della clausola compromissoria «non trova applicazione nelle ipotesi in cui dette cause [id est quelle che provocano la nullità, nda] siano esterne al negozio e comuni ad esso e alla clausola». Nel caso di specie, «l'invalidità dell'atto derivante dal fatto che l'amministrazione non poteva legittimamente stipulare il contratto e, perciò, inserire nello stesso una clausola compromissoria aveva determinato anche l'invalidità di quest'ultima per una causa esterna e comune al negozio principale e a quello accessorio». |
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza (ud. 2 febbraio 2023) 10 marzo 2023, n. 7201
Svolgimento del processo
1. (omissis) s.r.l. ha convenuto dinanzi agli arbitri rituali la Regione Calabria, esponendo che, con decreto del Dirigente Generale del Dipartimento Organizzazione e Personale dell'Ente n. 2642 del 2 aprile 2005, aveva ottenuto l’affidamento di tutte le attività contemplate dagli artt. 16 e 17 del D.lgs. 626/94 per la durata di cinque anni a decorrere dal 2 marzo 2005, attività consistenti negli accertamenti sanitari preventivi e periodici sui dipendenti regionali, nella formulazione dei giudizi di idoneità alle mansioni specifiche previste dal contratto di lavoro e nella redazione e conservazione per ogni lavoratore di un apposita cartella sanitaria, oltre a tutte le prestazioni di formazione da svolgere di concerto con il datore del lavoro pubblico.
Con successivo decreto regionale del 12.7.05 n. 929, impugnato dinanzi al Tar Calabria, l’approvazione del contratto da parte dell’amministrazione era stata annullata a causa del mancato espletamento di una gara pubblica e la convenzione non era stata – pertanto – eseguita.
Ha chiesto il risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale, da liquidarsi in corso di causa, con vittoria delle spese del giudizio arbitrale.
Nella resistenza della Regione, il Collegio arbitrale - con lodo depositato in data 28.4.11 – dichiarata l’invalidità della convenzione contratto - ha condannato la Regione al risarcimento di € 1.114.573,42, compensando le spese.
Il lodo è stato impugnato dalla Regione Calabria; è intervenuto in causa F.B., socio del(omissis) s.r.l. - rimasta contumace - chiedendo di respingere l’impugnazione.
Con sentenza n. 2014/2016, la Corte di Catanzaro ha dichiarato nulla la clausola compromissoria, invalidando anche il lodo arbitrale.
La pronuncia ha ritenuto inammissibile l’intervento in giudizio di F.B., che non era stato parte del giudizio arbitrale; ha respinto l’eccezione di nullità dell’impugnazione per mancanza della firma del difensore sulla copia notificata, evidenziando che la sottoscrizione figurava sull’originale e che dalla copia risultava che la notifica era stata chiesta proprio dal difensore della Regione.
Ha infine dichiarato invalide la clausola compromissoria e la decisione degli arbitri a causa dell’annullamento dell’approvazione del contratto di affidamento del servizio, non preceduto dall’espletamento di una gara, precisando infine che la controversia non era comunque ricompresa tra le questioni di mera interpretazione del contratto contemplate dalla clausola stessa.
Per la cassazione della sentenza (omissis) s.r.l. e F.B. hanno proposto separati ricorsi, entrambi affidati a sette motivi.
La Regione Calabria resiste con controricorso.
Il ricorso è stato deciso in camera di consiglio nelle forme di cui all’art. 23, comma 8-bis, D.L. 137/2020, convertito con modificazioni con L. 176/2020, non essendo stata chiesta la discussione orale.
Motivi della decisione
1. L’impugnazione del(omissis) s.r.l. ha natura di ricorso principale, essendo stata notificata per prima; quella di F.B. va qualificata come ricorso incidentale.
2. Il primo motivo del ricorso principale denuncia il difetto di giurisdizione della Corte di appello ai sensi dei DD.LGS. 204/2010 e 163/2006, sostenendo che, avendo la lite ad oggetto un rapporto nascente da una concessione-contratto, l’impugnazione del lodo andava proposta dinanzi al giudice amministrativo, come confermerebbe l’art. 241, comma 15 bis, d.lgs. 163/2006, dettato in materia di appalto di servizi.
Il motivo è infondato.
La clausola compromissoria è stata stipulata nel 2005, nel regime dell’art. 6, comma 2, della legge n. 205 del 2000, norma che ha previsto che "le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto", così determinando la compromettibilità della lite in virtù del fatto di investire – nell’ambito di quella giurisdizione – solo diritti soggettivi, discutendosi anche nella specie del risarcimento del danno precontrattuale per lesione dell’affidamento riposto dalla ricorrente nella validità della convenzione-contratto.
L'impugnazione di lodi arbitrali rituali pronunciati nell'ambito di controversie riconducibili alla sfera dell'art. 6, secondo comma, della legge 21 luglio 2000, n. 205, così come quella di ogni altro lodo arbitrale rituale, deve essere sempre proposta dinanzi alla Corte d'appello nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato, ai sensi dell'art. 828 c.p.c., costituente l'unica disposizione diretta alla determinazione del giudice cui spetta pronunciare su detta impugnazione, restando esclusa la giurisdizione del Consiglio di Stato, inteso quale giudice non solo dell'appello contro la pronuncia del giudice amministrativo di primo grado, ma anche dell'impugnazione del lodo arbitrale ad esso alternativo (Cass. s.u. 25508/2006;Cass. s.u. 16887/2013; Cass. Cass. 646/2018).
Si è affermato più di recente che nell'ipotesi di deferimento ad un collegio arbitrale, mediante convenzione stipulata nella vigenza dell'art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000, delle controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, si pone una questione di rapporto tra le differenti giurisdizioni, ordinaria e speciale, e non una questione di merito circa la validità della compromissione in arbitrato della controversia; pertanto, deve essere applicato, ai sensi dell'art. 5 c.p.c., il sopravvenuto art. 12 del d.lgs. n. 104 del 2010, che ha generalizzato la possibilità di risolvere mediante arbitrato rituale le predette controversie, con conseguente sussistenza della giurisdizione ordinaria per l’impugnazione (cfr. in motivazione, Cass. 27847/2019; Cass. 16887/2013).
3. Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 163, 164, 83 e 125 c.p.c. sostenendo che la copia della citazione dinanzi alla Corte distrettuale mancava della sottoscrizione del difensore e che l’atto introduttivo era perciò affetto da un vizio di nullità assoluta ed insanabile che attingeva anche la procura e che il giudice avrebbe dovuto rilevare d’ufficio.
Le censura non è fondata.
Ha precisato la sentenza come fosse in discussione la mancanza della firma sulla sola copia notificata e come la notifica fosse stata effettuata su richiesta dell’avv. M. per l’ente regionale, valendo la relativa annotazione dell’agente notificatore come oggettivo elemento di riscontro della riferibilità dell’atto al difensore della Regione.
Essendo stato smarrito il fascicolo di parte, il giudice, dopo aver provveduto alla sua ricostruzione, ha preso atto che la firma era presente sulle copie notificate, reputando che, in mancanza di altri elementi contrari, anche l’originale fosse stato sottoscritto.
Deve ribadirsi che la mancanza della sottoscrizione del difensore nella copia notificata della citazione non incide sulla validità di quest’ultima, ove detta sottoscrizione risulti nell'originale e se la copia notificata fornisca alla controparte sufficienti elementi per acquisire la certezza della sua rituale provenienza da quel procuratore, come ad es. quando la notifica dell’atto introduttivo sia stata richiesta dal difensore firmatario (Cass. 20817/2006; Cass. 4548/2011; Cass. 10450/2020).
4. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 105, 404 e 816 quinquies, censurando la pronuncia per aver ritenuto che F.B. potesse intervenire nel procedimento arbitrale, ma non anche nel giudizio di impugnazione del lodo, intervento che si giustificava per l’interesse dell’interventore, socio del(omissis) s.r.l., ad evitare possibili pregiudizi derivanti dalla nullità del lodo e dalla perdita del diritto al risarcimento da parte della società.
Il motivo è per un verso inammissibile e - per il resto - infondato. Sotto il primo profilo, la società non ha alcun interesse a dolersi della dichiarata inammissibilità dell’intervento, essendo legittimato solo il soggetto di cui è stata ritenuta inammissibile la partecipazione al processo, avendo peraltro la società ritenuto di non costituirsi dinanzi alla Corte d’appello.
La pronuncia merita di essere condivisa anche nel merito, con le precisazioni che seguono.
A differenza del regime processuale anteriore alla riforma dell’art. 831 c.p.c., adottata con l'art. 23 della L. 5/1994, che aveva riconosciuto al terzo la facoltà di proporre opposizione avverso il lodo nei casi indicati dall'art. 404 c.p.c., e dei giudizi successivi alla novella del 1994, regolati dalla disciplina anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 40/2006, in cui l’intervento era ritenuto inammissibile in ragione dell’inapplicabilità al lodo arbitrale dell’art. 344 c.p.c., nel nuovo regime è esplicitamente regolato l’intervento del terzo nel giudizio arbitrale: l’art. 816 quinquies c.p.c. prevede che l'intervento volontario o la chiamata in arbitrato di un terzo sono ammessi solo con l'accordo del terzo e delle parti e con il consenso degli arbitri.
Sono sempre ammessi l'intervento previsto dal secondo comma dell'articolo 105 c.p.c. e l'intervento del litisconsorte necessario. Si applica l'articolo 111 c.p.c..
La norma riguarda, come detto, il giudizio arbitrale, ma nulla dispone per il processo di impugnazione del lodo.
Si sostiene in dottrina che tale intervento sarebbe sempre precluso nella fase rescindente, quindi relativamente al giudizio di nullità del lodo, a maggior ragione se, come nel caso in esame, il terzo non era parte della convenzione di arbitrato, ma non nella fase rescissoria, ove sarebbe disciplinato dall’art. 105 c.p.c., essendo possibile in qualunque forma prevista dalla legge.
Questa Corte ha stabilito, invece, che, data l’equiparazione tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario, nel giudizio di impugnazione del lodo l’intervento è consentito negli stessi casi in cui è ammissibile l’intervento in appello ai sensi degli artt. 404 e 344 c.p.c., trovando applicazione al processo arbitrale le norme processuali generali, ove compatibili (così, esplicitamente, Cass. 28827/2017).
Va allora ricordato che, secondo le citate disposizioni, occorre che l’interventore risulti titolare di un interesse proprio e che, intervenendo, faccia valere un diritto incompatibile con quello delle altre parti, situazione che è esclusa ove il socio di una società di capitali lamenti un pregiudizio connesso a perdite patrimoniali suscettibili di manifestarsi a carico della società e solo indirettamente sul singolo, senza far valere un diritto incompatibile con quello azionato, ovvero distinto ed autonomo, individualmente e separatamente tutelato oltre che nei confronti dei terzi, anche rispetto ai diritti che competono all’ente (Cass. 1231/1999; Cass. 12114/2006).
L’iniziativa del socio sostanzia altrimenti un intervento adesivo dipendente che non autorizza alcuna autonoma impugnazione, né in via principale né in via incidentale, salvo che limitatamente a questioni attinenti alla qualificazione dell'intervento o alla condanna alle spese (Cass. 22972/2022).
5. Il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 164 c.p.c., deducendosi l’insanabile nullità della citazione per difetto di sottoscrizione del difensore.
Sostiene la ricorrente che se è vero che la firma del difensore deve essere presente sull’originale, le verifiche in proposito vanno svolte sulla copia notificata, unico atto da cui il destinatario può controllare la regolarità dell’atto.
Nel caso in esame il fascicolo della Regione era andato distrutto e l’amministrazione ne aveva chiesto la ricostruzione, depositando talune copie prontamente disconosciute da F.B., atti di cui non poteva tenersi conto. La ricostruzione doveva aver luogo nel contraddittorio delle parti, dando rilievo alle contestazioni dell’unica parte costituita.
Il motivo è infondato.
Si è detto in precedenza che la sottoscrizione è requisito di validità dell’atto introduttivo che deve figurare sull’originale; la sua mancanza sulla copia non determina alcuna violazione ove detta copia presenti elementi che consentano di riferirlo al difensore tenuto a sottoscriverlo.
Il controllo di regolarità va quindi effettuato – anzitutto - sull’originale, di cui la parte può prendere visione recandosi in cancelleria.
Riesaminando d’ufficio la validità della citazione e preso atto dello smarrimento degli originali, il giudice ha proceduto alla loro ricostruzione (cfr. sentenza, pag. 12).
Nel far ciò la pronuncia, oltre a reputare inammissibili le contestazioni di F.B., ha ricostruito gli atti sulla base delle copie in possesso dell’amministrazione regionale le quali, come è precisato nel controricorso (e come si rileva dal fascicolo in atti), recavano l’attestazione – resa dall’agente notificatore- della conformità della copia notificata all’originale: è sulla base di tali copie che la Corte di merito ha accertato la regolare sottoscrizione dell’atto di impugnazione.
In definitiva, l'attestazione di conformità della copia notificata (recante la firma del difensore) risultante nella relata era idonea a comprovare la regolare sottoscrizione dell’originale e la richiesta di notifica a nome del difensore della Regione – presente sempre sulla copia- rendevano conto della provenienza dell'atto, sanando ogni irregolarità (Cass. 9836/1998; Cass. 6131/1995; Cass. 9023/1999; Cass. 11838/2000; Cass. 20817/2006; Cass. 10115/2009; Cass. 10450/2020).
Per gli altri aspetti, va poi ribadito che il procedimento di ricostruzione degli atti smarriti o distrutti – anche ove svolto nelle forme dell’art. 113 disp. att. c.p.p., mancando nell’ordinamento processuale civile un’analoga disposizione che ne disciplina l’iter e le formalità - ha carattere amministrativo privo di contenuto decisorio, che non realizza una statuizione sostitutiva di quella già contenuta nel provvedimento mancante, bensì interviene a riprodurlo nella sua materialità.
Il giudice, per dare concreta attuazione alla ricostituzione, è libero di dettarne i modi tendenti alla ricerca di ogni elemento utile per ricostruire fedelmente l'originario contenuto dell'atto mancante, sia nella sua veste formale, sia nel suo contenuto decisorio. Le valutazioni circa la corrispondenza tra copia utilizzata ai fini della ricostituzione e originale non sono censurabili in cassazione, salvo che per vizi di motivazione (Cass. 18147/2015; Cass. 9240/2009; Cass. 9507/1997; Cass.2895/1996; Cass. 1303/1967).
Il provvedimento non è impugnabile, essendo modificabile e revocabile dallo stesso giudice che l'ha emesso; l'eventuale impugnazione va, quindi, diretta nei confronti del provvedimento rinnovato con il quale il provvedimento di ricostituzione fa corpo unico.
Correttamente la sentenza ha poi ritenuto che, data l’inammissibilità dell’intervento, F.B. non avesse titolo a partecipare al giudizio e non fosse autorizzato a contestare l’utilizzabilità delle copie o ad opporsi alla ricostruzione del fascicolo da parte della Regione (cui il giudice doveva comunque procedere d’ufficio): tale inammissibilità non consentiva di tener conto delle difese dell’interventore (cfr. Cass. 11196/1998, secondo cui l’inammissibilità dell’intervento in causa determina la nullità del procedimento e della sentenza se la decisione sia basata su domande, eccezioni, allegazioni o prove che quella parte ha introdotto nel processo e che il giudice non avrebbe potuto prendere in esame d'ufficio, ovvero quando la postulazione della necessità o possibilità di partecipazione di quella parte al processo sia stata alla base della decisione di una questione pregiudiziale nel senso d'impedire l'esame del merito; in tal senso Cass. 22209/2021).
6. Il quinto motivo denuncia la violazione dell’art. 829 c.p.c., per aver la Corte di merito ritenuto ammissibile l’impugnazione del lodo nonostante l’espressa previsione di non appellabilità della decisione e benché la Regione avesse contestato la validità della clausola nel corso del giudizio arbitrale.
Il motivo è infondato.
La clausola compromissoria era stata stipulata prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 40/2006. L'art. 829, comma 3, c.p.c., come riformulato dall'art. 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all'art. 27 del d.lgs. n. 40 cit., a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l'entrata in vigore della novella.
Per verificare l’ammissibilità dell’impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge - cui l'art. 829, comma 3, c.p.c., rinvia - va identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato. In caso di convenzione cd. di diritto comune conclusa anteriormente all'entrata in vigore della nuova disciplina, nel silenzio delle parti era ammissibile l'impugnazione del lodo, così disponendo l'art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente, salvo che le parti avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile (Cass. S.U. 9284/2016; Cass. s.u. 9285/2016; Cass. s.u. 9341/2016; Corte cost. 13/2018).
Ciò posto, nulla ostava - tuttavia - a che fossero rilevati o eccepiti errores in iudicando, a prescindere da qualsiasi rinuncia delle parti e nonostante l’inappellabilità del lodo, potendo sempre farsi valere l’invalidità della convenzione di arbitrato ai sensi dell’art. 829, comma primo, n. 1), c.p.c. fatta salva l’ipotesi dell’art. 817, terzo comma c.p.c. (secondo cui la parte che non eccepisce nel corso del giudizio arbitrale che le conclusioni delle altre parti esorbitano dai limiti della convenzione d'arbitrato, non può, per questo motivo, impugnare il lodo).
La previsione di inappellabilità preclude – invero - le eccezioni di merito, ma non quelle processuali afferenti all’invalidità della clausola, come invero dispone la norma e come già riconosciuto da questa Corte anche nel regime in vigore prima dell’adozione del d.lgs. 40/2006 (Cass. 4943/2001; Cass. 12543/2013).
Inoltre, la nullità era stata oggetto di specifica eccezione da parte della Regione; di tale difesa si dà atto nell’esposizione dei fatti di causa della sentenza impugnata a pag. 5, punto 8.1. e pertanto la questione poteva essere riproposta nel giudizio di impugnazione ai sensi dell’art. 817 c.p.c. (cfr., nel senso che solo la parte che non eccepisca nella prima difesa successiva all'accettazione degli arbitri la loro incompetenza per inesistenza, invalidità o inefficacia della convenzione d'arbitrato, non può per questo motivo impugnare il lodo, salvo il caso di controversia non arbitrabile: Cass. s.u. 19852/2022; Cass. 15613/2021).
7. Il sesto motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, per aver la sentenza omesso di considerare che la clausola arbitrale costituisce negozio autonomo rispetto al contratto in cui è inserita e che le cause di nullità di quest’ultimo non si trasmettono anche alla convenzione di arbitrato, per cui la competenza degli arbitri a pronunciare sul contratto non poteva essere negata in ragione della nullità del contratto principale. L’annullamento dell’approvazione aveva effetti ex tunc, non potendo invalidare la clausola compromissoria.
Il motivo è infondato.
E’ principio costantemente affermato da questa Corte che la clausola compromissoria costituisce un negozio ad effetti processuali a se' stante rispetto al contratto in cui è inserita (Cass. s.u. 3989/1977; Cass. 2529/2005; Cass. 2011/1990; Cass. 8376/2000; Cass. 7839/2011; Cass. 22608/2011; Cass. 29261/2011; Cass. 25024/2013; Cass. 18134/2013; Cass. 1439/2020).
A differenza del contratto principale, che vede le parti su contrapposte posizioni di interesse, nella clausola compromissoria si registra – già inizialmente – un’oggettiva convergenza di interessi, essendo proposito comune dei contraenti di devolvere agli arbitri le controversie riguardanti uno specifico rapporto sostanziale.
Tale connotazione rende giustificazione sul piano concettuale della ravvisata autonomia della clausola rispetto al contratto cui si riferisce.
Secondo la dottrina prevalente, la clausola compromissoria presenta – invece - il duplice carattere dell’autonomia e dell’accessorietà: è negozio strutturalmente distinto da quello da cui scaturisce il rapporto sostanziale tra le parti, ma è al contempo accessorio ad esso e parimenti strumentale in vista dell’attuazione del regolamento di interessi concepito dai contraenti.
In un’ accezione parzialmente diversa si discorre di autonomia anche come regola che presiede alla valutazione di validità giuridica della clausola, secondo quanto dispone l’art. 808, comma terzo, c.p.c.. Ove non venga in considerazione alcun problema di validità del contratto principale, la clausola, essendo accessoria, circolerebbe unitamente al contratto (o alle posizioni attive e passive che ne scaturiscono).
Per la giurisprudenza di questa Corte, l’art. 808, comma terzo, c.p.c., deve essere valorizzato non quale mera regola di giudizio sulla validità del compromesso, ma quale (ulteriore) indice dell’autonomia - anche sotto il profilo strutturale e sostanziale – della clausola rispetto al negozio principale (Cass. 4842/2000; Cass. 9162/1995; Cass. 48/1981).
Va però evidenziato che, anche nella specie, il principio secondo il quale la clausola compromissoria non costituisce un accessorio del contratto nel quale è inserita, ma ha propria individualità ed autonomia nettamente distinta, per cui ad essa non si estendono le cause di invalidità del negozio sostanziale, non trova applicazione nelle ipotesi in cui dette cause siano esterne al negozio e comuni ad esso e alla clausola.
L’invalidità dell'atto derivante dal fatto che l'amministrazione non poteva legittimamente stipulare il contratto e, perciò, inserire nello stesso una clausola compromissoria, aveva determinato anche l’invalidità di quest’ultima (Cass. 37266/2021; Cass. 3854/2018; Cass. 2529/2005, specificamente in materia di contratti pubblici irregolarmente aggiudicati), per una causa esterna e comune al negozio principale e a quello accessorio.
8. Il settimo motivo deduce – sotto altro profilo – l’omesso esame di un fatto decisivo e la violazione dell’art. 817 , comma terzo, c.p.c., per aver la Corte di merito ritenuto che le questioni dibattute non rientrassero nella previsione della clausola, riguardante solo le controversie in materia di interpretazione del negozio. Si sostiene che tale questione non poteva essere esaminata d’ufficio poiché nessuna eccezione in proposito era stata sollevata nel giudizio arbitrale.
Il motivo è inammissibile per difetto di rilevanza.
Anche a ritenere che gli arbitri potessero pronunciare sulle questioni concernenti il risarcimento e non solo sull’interpretazione della convenzione, la dichiarata nullità della clausola – che trova conferma in questa sede – travolgerebbe comunque il lodo.
L’eventuale errore interpretativo dell’ampiezza della pattuizione è irrilevante, non potendo comunque condurre alla cassazione della sentenza.
9. Passando all’esame del ricorso incidentale, deve scrutinarsi con priorità il secondo motivo, con cui si denuncia la violazione degli artt. 816 quinquies, 105 c.p.c. e 404 c.p.c., censurando la decisione per aver ritenuto inammissibile l’intervento in appello di F.B..
Il motivo è infondato per le ragioni già esposte nella disamina del secondo motivo del ricorso principale, a cui è sufficiente rinviare.
Tutte le altre censure dedotte da F.B., che in effetti ripropongono le medesime contestazioni (già ritenute infondate) sollevate dal(omissis) s.r.l. non sono ammissibili, non potendo l’interventore, che non aveva titolo a partecipare al giudizio di merito, proporre ulteriori motivi di impugnazione, oltre a quello già esaminato (Cass. 22972/2022).
Sono – pertanto - respinti entrambi i ricorsi, con aggravio delle spese processuali liquidate in dispositivo.
Si dà atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
respinge sia il ricorso principale che quello incidentale e condanna entrambi i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, liquidate in € 200,00 per esborsi ed in € 14.000,00 per compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali, in misura del 15%.
Dà atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.