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10 marzo 2023
Civile e processo
Quando il terzo può intervenire nel giudizio di impugnazione di un lodo?
Il socio di una società di capitali che tema per la sua responsabilità e per il patrimonio dell'ente, può intervenire nel giudizio di impugnazione promosso avverso il lodo che aveva dato ragione alla società?
di Avv. Fabio Valerini
Il caso

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La Seconda sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 7201 del 10 marzo 2023 affronta, principalmente, due questioni processuali importanti in materia di arbitrato: l'ammissibilità dell'intervento del terzo nel giudizio di impugnazione del lodo e il limite del principio di autonomia della clausola compromissoria.

Nel caso di specie tutto aveva preso le mosse da un giudizio arbitrale promosso da una società nei confronti di una Regione ed avviato in relazione ad un servizio affidato avente ad oggetto accertamenti sanitari preventivi e periodici sui dipendenti regionali il cui affidamento era stato, però, successivamente revocato dal TAR siccome non preceduto dall'espletamento di una gara pubblica e, quindi, non eseguito.

In quel giudizio arbitrale la società attrice aveva chiesto il risarcimento del danno per responsabilità pre-contrattuale.

Il Collegio arbitrale condannò la Regione ad un risarcimento del danno superiore ad un milione di euro con un lodo che la Regione impugnò davanti alla Corte di appello nel cui procedimento – nella contumacia della società vittoriosa – intervenne un socio di quest'ultima.

All'esito del giudizio di impugnazione, la Corte di appello, ritenuto inammissibile l'intervento del socio, dichiarò nullo il lodo per invalidità della clausola compromissoria che, comunque, non comprendeva nel suo oggetto (limitato all'interpretazione della convenzione) questa specifica domanda (id est il risarcimento del danno per responsabilità pre-contrattuale).

Il diritto

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Una prima questione processuale è stata quella relativa all'ammissibilità, o no, nel giudizio di impugnazione del lodo dell'intervento del terzo (che aveva giustificato quell'intervento con il suo interesse ad evitare possibili pregiudizi derivanti dalla nullità del lodo e dalla perdita del diritto al risarcimento del danno da parte della società).

Secondo la Suprema Corte una norma espressa sull'intervento del terzo è prevista soltanto con riferimento al processo arbitrale e non già per il processo di impugnazione del lodo.

Ed infatti, a differenza del regime processuale previgente l'art. 816 quinquies prevede «che l'intervento volontario o la chiamata in arbitrato di un terzo sono ammessi solo con l'accordo del terzo e delle parti e con il consenso degli arbitri».

Sono, peraltro, sempre ammessi l'intervento previsto dal secondo comma dell'articolo 105 c.p.c. e l'intervento del litisconsorte necessario. Si applica l'articolo 111 c.p.c.

Ebbene, la dottrina sostiene che nel giudizio di impugnazione l'intervento sarebbe sempre precluso nella fase rescindente, ma non nella fase rescissoria ove sarebbe disciplinato dall'art. 105 c.p.c. essendo possibile in qualunque forma prevista dalla legge.

Tuttavia, secondo la giurisprudenza di legittimità, «data l'equiparazione tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario, nel giudizio di impugnazione del lodo l'intervento è consentito negli stessi casi in cui è ammissibile l'intervento in appello ai sensi degli artt. 404 e 344 c.p.c., trovando applicazione al processo arbitrale le norme processuali generali, ove compatibili».

Ne deriva che l'interventore deve risultare titolare di un interesse proprio e che, «intervenendo, faccia valere un diritto incompatibile con quello delle altre parti, situazione che è esclusa ove il socio di una società di capitali – come nel caso di specie - lamenti un pregiudizio connesso a perdite patrimoniali suscettibili di manifestarsi a carico della società e solo indirettamente sul singolo, senza far valere un diritto incompatibile con quello azionato, ovvero distinto ed autonomo, individualmente e separatamente tutelato oltre che nei confronti dei terzi, anche rispetto ai diritti che competono all'ente».

La lente dell'autore

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Un secondo gruppo di questioni processuali di rilevante interesse è quello che riguarda la clausola compromissoria sia dal punto di vista della sua validità sia dal punto di vista dell'individuazione del giudice munito di giurisdizione per l'impugnazione.

Iniziando da quest'ultimo aspetto, il ricorrente per cassazione aveva sostenuto che l'impugnazione avrebbe dovuto essere proposta davanti al giudice amministrativo poiché la lite riguardava un rapporto nascente da una concessione-contratto e quindi rientrava nell'art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006 (c.d. codice dei contratti pubblici).

Senonché, per la Suprema Corte la giurisdizione è stata correttamente riconosciuta in capo al giudice ordinario tenendo conto della circostanza che la clausola compromissoria era stata stipulata nel 2005 e, quindi, nel regime dell'art. 6, comma 2 della Legge n. 205 del 2000 (poi generalizzato dall'art. 12 D.Lgs. n. 104 del 2010).

Quella norma, infatti, prevedeva la possibilità di devolvere in arbitrato rituale di diritto le questioni aventi ad oggetto diritti soggettivi devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo: l'impugnazione del lodo è regolata, in questo caso – come in tutti gli altri – dall'unica disposizione ad hoc  e, cioè, dall'art. 828 c.p.c. che individua nella Corte di appello nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato il giudice cui spetta pronunciare sull'eventuale nullità del lodo. 

Con riferimento, infine, al profilo della validità della clausola compromissoria, il ricorrente aveva sostenuto che la Corte di appello non avrebbe potuto negare – per il principio di autonomia della clausola compromissoria – validità alla clausola soltanto perché il contratto cui accedeva era nullo per mancato svolgimento di una gara.

Senonché, il principio di autonomia della clausola compromissoria «non trova applicazione nelle ipotesi in cui dette cause [id est quelle che provocano la nullità, nda] siano esterne al negozio e comuni ad esso e alla clausola».

Nel caso di specie, «l'invalidità dell'atto derivante dal fatto che l'amministrazione non poteva legittimamente stipulare il contratto e, perciò, inserire nello stesso una clausola compromissoria aveva determinato anche l'invalidità di quest'ultima per una causa esterna e comune al negozio principale e a quello accessorio».