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La società beta conduce in locazione un immobile nel quale svolge l'attività di ristorazione in occasione di cerimonie. Al suddetto immobile è possibile accedere solo attraverso una strada molto stretta. Ebbene, nel mese di luglio, in occasione di una festa di nozze, Tizia lasciava deliberatamente un proprio autoveicolo in sosta su quella strada, posizionato in modo tale da impedire ai clienti della società attrice di raggiungere in auto il luogo della cerimonia; ciò costrinse i partecipanti a percorrere un tratto di strada a piedi, con disagi e danno all'immagine della società. Per i motivi esposti, l'attrice aveva chiesto il risarcimento dei danni. Nel giudizio di primo grado, il Tribunale ritenne la condotta di Tizia quale fattispecie ex art. 610 c.p. e, per le ragioni esposte, condannava la convenuta al risarcimento dei danni. Nel successivo giudizio del gravame, la Corte territoriale rigettava il gravame di Tizia, evidenziando che dalle prove testimoniali e dalle fotografie era emerso il dolo di questa, la quale volutamente aveva parcheggiato la propria automobile in modo da impedire ai partecipanti alla festa di nozze di arrivare con mezzi a motore fino all'ingresso del luogo di destinazione. Avverso il provvedimento in esame, Tizia propose ricorso in Cassazione. |
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Secondo Tizia, erroneamente la Corte d'appello aveva ritenuto che, in conseguenza della propria condotta, il transito sulla strada di accesso all'immobile condotto in locazione dalla società beta era rimasto impedito per due ore. A suo dire, non esisteva nessuna prova in tal senso; il giudice di merito, dunque, aveva malamente valutato l'attendibilità dei testimoni. A tal proposito, però, la S.C. considerava il motivo inammissibile perché censurava la valutazione delle prove e la ricostruzione dei fatti. Invero, una censura di questo tipo era il contrasto contro il consolidato orientamento secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito. Oltre a ciò, secondo la ricorrente, nella vicenda, era prospettabile il concorso di colpa della società beta ex art. 1227 c.c. Tuttavia, secondo il giudice, la contestazione non poteva essere accolta in quanto il danno oggetto del contendere era stato richiesto da una società commerciale, e il concorso di colpa di cui all'articolo 1227 c.c. è soltanto quello che proviene dalla parte danneggiata, e non da terzi. Né rilevava che i terzi - cui la ricorrente intendeva addebitare un concorso di colpa - , fossero rappresentanti della società danneggiata, dal momento che l'imputazione delle loro condotte alla società poteva dipendere solo dalla spendita del nome, che nella specie non risultava avvenuta. Inoltre, l'art. 1227 c.c. non è applicabile nell'ipotesi di provocazione da parte della persona offesa del reato. In conclusione, la S.C. rigetta il ricorso e, per l'effetto, conferma il provvedimento di condanna nei confronti di Tizia. |
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La pronuncia in esame offre lo spunto per alcune riflessioni. In particolare, quanto all'art. 610, comma 1, c.p., giova ricordare che chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni. Tale disposizione trova il proprio fondamento nell'esigenza di reprimere fatti di coercizione non contemplati in altre norme, così da tutelare la libertà morale, nonché la libertà fisica e di locomozione dei soggetti. Secondo i giudici, la violenza rilevante nell'ottica dell'art. 610 c.p. si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza "impropria", che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali, diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (Trib. Nocera Inferiore pen. 18 febbraio 2022, n. 239). Il reato, dunque, si configura quando si pone in essere, in qualunque modo, la compressione dell'altrui libertà. Perciò, integra il reato la sussistente circostanza che la persona offesa non abbia la possibilità di ovviare in qualche modo alla coartazione, limitandone o elidendone gli effetti (Trib. Bari pen. 3 dicembre 2021, n. 3768). Quanto all'art. 1227 c.c., il Legislatore ha previsto che se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate; inoltre, come indicato dal secondo comma della disposizione in commento, «il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza». Ebbene, in relazione alle questioni sollevate dalla ricorrente, in giurisprudenza è stato osservato che in tema di responsabilità per fatto illecito doloso, l'art. 1227 c.c., concernente la diminuzione della misura del risarcimento in caso di concorso del fatto colposo del danneggiato, non è applicabile nell'ipotesi di provocazione da parte della persona offesa del reato, in quanto la determinazione dell'autore del delitto, di tenere la condotta illecita che colpisce la persona offesa, costituisce causa autonoma del danno, non potendo ritenersi che la consecuzione del delitto al fatto della provocazione esprima una connessione rispondente ad un principio di regolarità causale (Cass. civ., sez. III, 23 marzo 2016, n. 5679: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la riduzione del risarcimento del danno conseguente a lesioni personali subite all'interno di una discoteca e consumate da "buttafuori"). Quindi, correttamente, sono apparse inammissibili le doglianze della ricorrente secondo cui «non ha riscontro nell'ordinamento quello secondo cui sarebbe consentito danneggiare il prossimo, per reagire a condotte 'maleducate'». Pertanto, non c'è giustificazione per la condotta di chi blocca le auto degli invitati ad un matrimonio, obbligandoli ad arrivare a piedi al ristorante. |
Corte di Cassazione, sez. VI, ordinanza (ud. 20 dicembre 2022) 3 marzo 2023, n. 6494
Svolgimento del processo
1. La società S. Srl nel 2014 convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Genova A.A., chiedendone la condanna al risarcimento del danno.
A fondamento della domanda dedusse:
-) di condurre in locazione un immobile nel quale svolgeva l'attività di ristorazione in occasione di cerimonie;
-) al suddetto immobile era possibile accedere solo attraverso una strada molto stretta;
-) il (Omissis), in occasione di una festa di nozze, A.A. lasciò deliberatamente un proprio autoveicolo in sosta su quella strada, posizionato in modo tale da impedire ai clienti della società attrice di raggiungere in auto il luogo della cerimonia; ciò costrinse i partecipanti a percorrere un tratto di strada a piedi, con disagi e danno all'immagine della S..
La convenuta si costituì e chiese il rigetto della domanda.
2. Con sentenza 30 gennaio 2017 n. 271 il Tribunale di Genova accolse la domanda.
Il Tribunale ritenne che la condotta di A.A. integrava gli estremi del reato di cui all'art. 610 codice penale, e la obbligava perciò al risarcimento del danno.
La sentenza venne appellata dalla parte soccombente.
3. Con sentenza 28 gennaio 2021 n. 90 la Corte d'appello di Genova rigettò il gravame.
La Corte d'appello ritenne che dalle prove testimoniali e dalle fotografie allegate agli atti emergeva il dolo emulativo di A.A., che volutamente e callidamente parcheggiò la propria automobile in modo da impedire ai partecipanti alla festa di nozze di arrivare con mezzi a motore fino all'ingresso del luogo di destinazione.
4. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione da A.A. con ricorso fondato su quattro motivi ed illustrato da memoria. La S. Srl ha resistito con controricorso illustrato da memoria.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo la ricorrente lamenta la "mancanza di motivazione sotto il profilo dell'illogicità e dell'omessa pronuncia", nonchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..
Deduce che erroneamente la Corte d'appello ha ritenuto che, in conseguenza della condotta di A.A., il transito sulla strada di accesso all'immobile condotto in locazione dalla S. rimase impedito per due ore.
Sostiene che non esisteva nessuna prova in tal senso; che il giudice di merito aveva malamente valutato l'attendibilità dei testimoni; che pertanto doveva ritenersi non assolto dalla società attrice l'onere della prova.
1.1. Il motivo è manifestamente inammissibile perchè censura la valutazione delle prove e la ricostruzione dei fatti.
Ma una censura di questo tipo cozza contro il consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant'anni: e cioè che "la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione").
1.2. Alcun pregio possono avere le contrarie deduzioni svolte dalla ricorrente nella memoria ex art. 380 bis c.p.c., in quanto:
-) lo stabilire se su una strada sia o non sia impedito il transito, così come lo stabilire se un testimone sia o non sia attendibile sono accertamenti di fatto, e non valutazioni in punto di diritto;
-) la motivazione di una sentenza può essere sindacata da questa Corte solo in due casi: o quando manchi del tutto "sinanche come segno grafico", o quando sia totalmente incomprensibile. Per contro, "l'omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l'omesso esame circa un fatto decisivo previsto" dall'art. 360 c.p.c., n. 5 (così Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830) Nel caso di specie la motivazione della sentenza impugnata non è graficamente mancante, e tanto meno può dirsi "incomprensibile".
2. Col secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1226, 2043 e 2697 c.c., oltre che degli artt. 115 e 116 c.p.c. Il motivo investe la sentenza d'appello nella parte in cui ha ritenuto corretta la liquidazione del danno compiuta dal Tribunale.
L'illustrazione del motivo è composta in larga parte dalla trascrizione integrale dell'atto d'appello, nel quale l'appellante passa in rassegna le fatture depositate dalla controparte per sostenere che esse non dimostravano affatto l'esistenza di un danno patrimoniale.
2.1. Il motivo è manifestamente inammissibile per le medesime ragioni per cui è inammissibile il primo motivo. Stabilire, infatti, se una certa condotta abbia causato un determinato danno, e quale sia l'ammontare di questo, sono tipici apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito e non sindacabili in sede di legittimità.
3. Col terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1226, 2043, 2059, 2697 e 2729 c.c., nonchè dell'art. 610 del codice penale.
La censura investe la sentenza d'appello nella parte in cui ha ritenuto corretta la liquidazione del danno non patrimoniale compiuta dal Tribunale. Nell'illustrazione del motivo si deduce che erroneamente la Corte d'appello ha ritenuto sussistente il reato di cui all'art. 610 codice penale; che avrebbe sbrigativamente "liquidato" le contestazioni formulate su questo punto con l'atto d'appello; che nessun danno all'immagine poteva ritenersi patito dalla società attrice.
3.1. Anche questo motivo è inammissibile al pari dei primi due, perchè censura la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle prove.
4. Col quarto motivo la ricorrente prospetta il vizio di omessa pronuncia. Sostiene di avere formulato in grado di appello un motivo di gravame col quale lamentava la violazione, da parte del Tribunale, dell'art. 1227 c.c..
Nella illustrazione del motivo si deduce che in primo grado A.A. aveva eccepito il concorso di colpa della società S., allegando che questa avrebbe potuto evitare il danno se "la sua rappresentante legale, B.B., ed il di lei padre, C.C., avessero tenuto un comportamento educato, corretto, oltre che consono ed adeguato al contesto".
Sostiene che il Tribunale aveva rigettato tale eccezione "con motivazione insufficiente"; che tale statuizione era stata impugnata; che tale motivo di gravame non era stato esaminato dalla Corte d'appello.
4.1. Il vizio di omessa pronuncia esiste, ma esso non comporta la necessità di cassare la sentenza impugnata.
Infatti, in applicazione del principio di ragionevole durata del processo, una volta verificata l'omessa pronuncia su un motivo di gravame questa Corte può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito, se la questione di diritto posta con quel motivo risulti infondata e non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto (ex multis, Sez. 5 -, Ordinanza n. 9693 del 19/04/2018, Rv. 647716 - 01; Sez. 5 -, Sentenza n. 16171 del 28/06/2017, Rv. 644892 - 01; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 21257 del 08/10/2014, Rv. 632915 - 01).
4.2. Nel caso di specie, il motivo di appello con cui A.A. prospettò il concorso di colpa della S. Srl nella causazione del danno era manifestamente infondato in diritto.
Ciò per due ragioni.
In primo luogo, in quanto a fondamento di quell'eccezione A.A. dedusse che alla causazione del danno aveva concorso la condotta di due persone fisiche.
Ma il danno oggetto del contendere è stato richiesto da una società commerciale, e il concorso di colpa di cui all'art. 1227 c.c. è soltanto quello che proviene dalla parte danneggiata, e non da terzi.
Nè rileva che i terzi cui la ricorrente intendeva addebitare un concorso di colpa fossero rappresentanti della società danneggiata, dal momento che l'imputazione delle loro condotte alla società può dipendere solo dalla spendita del nome, che nella specie non risulta avvenuta.
In secondo luogo, il motivo di appello del cui omesso esame A.A. si duole sarebbe stato manifestamente infondato in quanto con esso l'appellante (odierna ricorrente) intese sostenere un principio che non ha riscontro nell'ordinamento: quello secondo cui sarebbe consentito danneggiare il prossimo, per reagire a condotte "maleducate".
Ma questa Corte sul punto ha più volte affermato che l'art. 1227 c.c. non è applicabile nell'ipotesi di provocazione da parte della persona offesa del reato, in quanto la determinazione dell'autore del delitto, di tenere la condotta illecita che colpisce la persona offesa, costituisce causa autonoma del danno, non potendo ritenersi che la consecuzione del delitto al fatto della provocazione esprima una connessione rispondente ad un principio di regolarità causale (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 5679 del 23/03/2016, Rv. 639388 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 20137 del 18/10/2005, Rv. 585230 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 9209 del 30/08/1995, Rv. 493829 - 01).
5. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell'art. 385, comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo.
Ritiene il Collegio che il ricorso, pur potendosi ritenere che sia stato proposto con colpa, non attinga gli estremi della colpa grave o del dolo, per i fini di cui all'art. 96 c.p.c., e che di conseguenza non possa accogliersi la domanda di condanna formulata dalla S. ai sensi della norma ora richiamata.
P.Q.M.
(-) rigetta il ricorso;
(-) condanna A.A. alla rifusione in favore di S. Srl delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 3.400, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex D.M. n. 10.3.2014 n. 55, art. 2, comma 2;
(-) ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.