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23 marzo 2023
Responsabilità civile e assicurazioni
Bloccare le auto degli invitati al matrimonio costituisce violenza privata
L'azione di bloccare le auto degli invitati ad un matrimonio legittima la condanna al risarcimento del danno arrecato al ristorante.
di Avv. e Giornalista pubblicista Maurizio Tarantino
Il caso

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La società beta conduce in locazione un immobile nel quale svolge l'attività di ristorazione in occasione di cerimonie. Al suddetto immobile è possibile accedere solo attraverso una strada molto stretta. Ebbene, nel mese di luglio, in occasione di una festa di nozze, Tizia lasciava deliberatamente un proprio autoveicolo in sosta su quella strada, posizionato in modo tale da impedire ai clienti della società attrice di raggiungere in auto il luogo della cerimonia; ciò costrinse i partecipanti a percorrere un tratto di strada a piedi, con disagi e danno all'immagine della società. Per i motivi esposti, l'attrice aveva chiesto il risarcimento dei danni.  Nel giudizio di primo grado, il Tribunale ritenne la condotta di Tizia quale fattispecie ex art. 610 c.p. e, per le ragioni esposte, condannava la convenuta al risarcimento dei danni. Nel successivo giudizio del gravame, la Corte territoriale rigettava il gravame di Tizia, evidenziando che dalle prove testimoniali e dalle fotografie era emerso il dolo di questa, la quale volutamente aveva parcheggiato la propria automobile in modo da impedire ai partecipanti alla festa di nozze di arrivare con mezzi a motore fino all'ingresso del luogo di destinazione. Avverso il provvedimento in esame, Tizia propose ricorso in Cassazione.

Il diritto

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Secondo Tizia, erroneamente la Corte d'appello aveva ritenuto che, in conseguenza della propria condotta, il transito sulla strada di accesso all'immobile condotto in locazione dalla società beta era rimasto impedito per due ore. A suo dire, non esisteva nessuna prova in tal senso; il giudice di merito, dunque, aveva malamente valutato l'attendibilità dei testimoni. A tal proposito, però, la S.C. considerava il motivo inammissibile perché censurava la valutazione delle prove e la ricostruzione dei fatti. Invero, una censura di questo tipo era il contrasto contro il consolidato orientamento secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito.

Oltre a ciò, secondo la ricorrente, nella vicenda, era prospettabile il concorso di colpa della società beta ex art. 1227 c.c. Tuttavia, secondo il giudice, la contestazione non poteva essere accolta in quanto il danno oggetto del contendere era stato richiesto da una società commerciale, e il concorso di colpa di cui all'articolo 1227 c.c. è soltanto quello che proviene dalla parte danneggiata, e non da terzi. Né rilevava che i terzi - cui la ricorrente intendeva addebitare un concorso di colpa - , fossero rappresentanti della società danneggiata, dal momento che l'imputazione delle loro condotte alla società poteva dipendere solo dalla spendita del nome, che nella specie non risultava avvenuta. Inoltre, l'art. 1227 c.c. non è applicabile nell'ipotesi di provocazione da parte della persona offesa del reato.

In conclusione, la S.C. rigetta il ricorso e, per l'effetto, conferma il provvedimento di condanna nei confronti di Tizia.

La lente dell'autore

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La pronuncia in esame offre lo spunto per alcune riflessioni. In particolare, quanto all'art. 610, comma 1, c.p., giova ricordare che chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni. Tale disposizione trova il proprio fondamento nell'esigenza di reprimere fatti di coercizione non contemplati in altre norme, così da tutelare la libertà morale, nonché la libertà fisica e di locomozione dei soggetti. Secondo i giudici, la violenza rilevante nell'ottica dell'art. 610 c.p. si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza "impropria", che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali, diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (Trib. Nocera Inferiore pen. 18 febbraio 2022, n. 239). Il reato, dunque, si configura quando si pone in essere, in qualunque modo, la compressione dell'altrui libertà. Perciò, integra il reato la sussistente circostanza che la persona offesa non abbia la possibilità di ovviare in qualche modo alla coartazione, limitandone o elidendone gli effetti (Trib. Bari pen. 3 dicembre 2021, n. 3768).

Quanto all'art. 1227 c.c., il Legislatore ha previsto che se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate; inoltre, come indicato dal secondo comma della disposizione in commento, «il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza».

Ebbene, in relazione alle questioni sollevate dalla ricorrente, in giurisprudenza è stato osservato che in tema di responsabilità per fatto illecito doloso, l'art. 1227 c.c., concernente la diminuzione della misura del risarcimento in caso di concorso del fatto colposo del danneggiato, non è applicabile nell'ipotesi di provocazione da parte della persona offesa del reato, in quanto la determinazione dell'autore del delitto, di tenere la condotta illecita che colpisce la persona offesa, costituisce causa autonoma del danno, non potendo ritenersi che la consecuzione del delitto al fatto della provocazione esprima una connessione rispondente ad un principio di regolarità causale (Cass. civ., sez. III, 23 marzo 2016, n. 5679: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la riduzione del risarcimento del danno conseguente a lesioni personali subite all'interno di una discoteca e consumate da "buttafuori"). Quindi, correttamente, sono apparse inammissibili le doglianze della ricorrente secondo cui «non ha riscontro nell'ordinamento quello secondo cui sarebbe consentito danneggiare il prossimo, per reagire a condotte 'maleducate'». Pertanto, non c'è giustificazione per la condotta di chi blocca le auto degli invitati ad un matrimonio, obbligandoli ad arrivare a piedi al ristorante. 

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