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Tizio adiva giustizia rivendicando la titolarità esclusiva della somma a suo dire illegittimamenteprelevata dall'ex coniuge, in pendenza di separazione, dal conto corrente cointestato. |
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La Suprema Corte ritiene infondato il primo motivo di ricorso, risultando agli atti che il figlio aveva dedotto di avere ricevuto in donazione le azioni dalla madre, non avendole versato alcun corrispettivo a fronte del trasferimento. |
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La ricostruzione offerta dalla Corte di Cassazione in tema di conto cointestato, evidenzia la sussistenza di una presunzione legale juris tantum che, dando luogo soltanto all'inversione dell'onere probatorio, può essere superata attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti. |
Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza (ud. 21 marzo 2023) 3 aprile 2023, n. 9197
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 1326/2021, pubblicata il 27/5/2021, ha riformato in parte la decisione di primo grado che, con sentenza ex art.281 sexies c.p.c. del 2017, a seguito di istruttoria orale e di consulenza tecnica grafologica, in accoglimento di domanda promossa, con citazione del 2013, da F.L., nei confronti del coniuge separato P.P. – domanda di accertamento «della proprietà esclusiva in capo all’attore» della somma di € 224.824,60, illegittimamente prelevata dalla convenuta, in pendenza di separazione, nell’ottobre 2007, dal Deposito Titoli n. (omissis), acceso presso la Banca Popolare di Verona-San Geminiano e San Prospero, filiale di Mantova, cointestato ai coniugi, con condanna della convenuta alla restituzione della somma ed al risarcimento dei danni – aveva condannato quest’ultima alla restituzione al L. dell’importo suddetto (previo accertamento che la somma di denaro cointestata proveniva da una donazione di 250 azioni del BSGSP, effettuata dalla madre del L. al figlio, nel 1984, e quindi non era entrata a far parte della comunione dei beni tra i coniugi, con conseguente illegittimità della condotta della P.), respingendo l’ulteriore domanda attorea risarcitoria nonché la domanda riconvenzionale della convenuta (volta a sentire condannare l’attore al pagamento di somma, da quantificare con consulenza contabile, corrispondente ai prelievi effettuati dal marito, non riconducibili a spese per soddisfare esigenze famigliari, sul conto corrente e conto deposito titoli, presso la Banca Popolare di Verona-San Geminiano e San Prospero, e su altri conti comuni ai coniugi in regime di comunione legale).
L’attore L., in citazione, aveva assunto di essere proprietario esclusivo «della somma» prelevata (attraverso disposizione di «trasferimento» su altro conto), nell’ottobre 2007, dalla P. dal conto corrente e collegato deposito titoli n. (omissis), cointestato ai coniugi e acceso presso Filiale di Mantova della Banca Popolare di Verona-San Geminiano e San Prospero, in quanto egli aveva ricevuto, nel 1984, in donazione dalla propria madre, «un numero pari a circa 250 azioni», emesse da Banco San Geminiano e San Prospero, e le aveva depositate sul portafoglio titoli n. «(omissis)» (collegato al conto corrente n. 284), acceso all’uopo, cointestato tra i coniugi L.-P., pur essendo la cointestazione «del tutto fittizia e discendente da mere ragioni di opportunità»; l’attore aveva escluso, a sostegno della pretesa restitutoria e risarcitoria azionata, sia che, dal deposito dei titoli azionari, ricevuti in donazione, nel rapporto bancario cointestato ai coniugi, si potesse ipotizzare un trasferimento di proprietà alla moglie, anche per il divieto di donazione tra coniugi e la nullità, in ogni caso, del negozio per difetto di forma, ex artt.781 e 782 c.c.., sia che la comunione legale tra i coniugi potesse essersi estesa a detti beni mobiliari, attesa la loro provenienza e qualificazione in termini di beni personali del marito; l’attore, in via subordinata, aveva poi chiesto la condanna della convenuta alla restituzione del 50% di tale somma di denaro.
La P., con domanda riconvenzionale, aveva a sua volta chiesto accertarsi che tutte le somme e i titoli contenuti nel conto deposito titoli sopra indicato erano caduti in comunione di beni tra i coniugi, come pure altre somme e titoli contenuti in altri conti correnti e conti titoli, indicati in citazione, con condanna del L. alla corresponsione della «metà di quanto il Giudice abbia ad accertare essere stato contenuto» nei suddetti conti correnti e nei suddetti depositi e condanna dello stesso a corrispondere l’importo, da determinarsi in corso di causa, ad essa P., previa compensazione tra i rispettivi debiti e crediti.
I giudici di appello, in particolare, hanno riconosciuto dovuta dalla P. al L. la minor somma di € 222.074, 60, oltre interessi dalla domanda, essendosi ritenuta fondata la domanda riconvenzionale della stessa spiegata limitatamente al 50% della somma di € 5.500,00, prelevata dal L. in data 26/9/2007, dal conto corrente «484/284», cointestato ai coniugi e intrattenuto presso la Banca Popolare di Verona.
Per il resto, il gravame della P. veniva respinto, rilevandosi: a) l’inammissibilità delle istanze istruttorie formulate in appello dalle parti, considerato che le stesse, all’udienza del 25/10/217, dinanzi al Tribunale, avevano precisato le conclusioni (nel verbale di udienza) «come da atti introduttivi», senza, quindi, reiterare le istanze istruttorie articolate successivamente, da intendersi pertanto rinunciate e quindi non riproponibili in appello; nonché l’inammissibilità della richiesta, sempre dell’appellante, di ammissione di consulenza tecnica contabile, in quanto tale strumento non poteva supplire alla deficienza delle allegazioni probatorie della parte e avere funzione meramente esplorativa (non avendo la P., attrice in riconvenzionale, assolto all’onere di produrre tutta la documentazione utile a consentire di accertare esattamente l’ammontare della sua pretesa creditoria, avendo invece prodotto solo «dal conto deposito titoli (omissis) cointestato… l’estratto di alcune mensilità del 2006 e del 2007», «dal conto deposito titoli n. (omissis) Banca Popolare di Verona-San Geminiano e San Prospero cointestato … l’estratto al 31/12/2003», «dal conto corr. corrisp. solo l’estratto al 31/12/2006», «dal conto corrente intestato a L. F. n. (omissis)…il solo estratto conto al 30.09.2007»); b) il raggiungimento della prova della donazione di 250 azioni del Banco San Geminiano e San Prospero (del valore originario di «£ 75.000»), effettuata dalla madre del L. al figlio, in costanza di matrimonio, sulla base delle testimonianze di L. A., C.S.A., V.G., A.G., nonché sulla base della documentazione acquisita (doc.to 9 di parte attrice in primo grado, doc.ti da 13 a 16), azioni successivamente dal L. depositate sul conto deposito titoli cointestato ai coniugi «n. (omissis)» (mutato dal n. (omissis), «alimentato negli anni ed accresciuto di valore con diversificazione degli investimenti», avendo il L. operato «con disinvoltura nell’ambito degli investimenti mobiliari», (doc.ti da 18 a 25), come anche dimostrato dalla dichiarazione scritta della stessa P. (doc.to 10, di parte L. di primo grado, scrittura, risultata autografa all’esito della consulenza grafologica, del seguente tenore «F. aveva avuto dalla madre donazione di 250 azioni Banco San Geminiano e San Prospero (così come la sorella Elena) …mi ha cointestato le 250 azioni», cosicché doveva essere confermata la condanna della P. alla restituzione al L. della somma oggetto di donazione, in forza del principio secondo cui i beni acquistati da un coniuge per donazione sono personali e non ricadono nella comunione legale dei beni tra i coniugi, quando nell’atto di liberalità non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione, spettando all’altro coniuge, che rivendichi, al momento dello scioglimento della comunione, la metà dei beni «ricevuti in donazione dall’ex», dare la prova relativa; c) l’insufficienza della documentazione offerta dalla P. a supporto della domanda riconvenzionale, non utile a dimostrare l’entità delle somme e dei titoli confluiti nei vari conti correnti e dunque a ricostruire il controverso patrimonio, essendovi, anzi, prova di importanti operazioni a debito nell’interesse della famiglia e dell’esistenza di rilevanti somme destinate all’acquisto di immobili per ciascuna delle figlie, il che rendeva verosimile che i contestati prelievi da parte del L. (peraltro, effettuati sei mesi prima della presentazione del ricorso per separazione dei coniugi) fossero stati compiuti per sostenere spese legate alle esigenze della famiglia.
Avverso la suddetta pronuncia, notificata il 29/9/21, P.P. propone ricorso per cassazione, notificato 23/11/21, affidato a tredici motivi, nei confronti di F.L. (c resiste con controricorso, notificato il 20/12/21). Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. La ricorrente lamenta, con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione , ex art.360 n. 3 c.p.c., degli artt. 782 c.c., 48 e 50 l. n. 89/1913, 1414, comma 2, c.c., 2721, 2722 e 2725 c.c. e 116 c.p.c. , per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto che, dal doc.to 9 prodotto dal L., vale a dire il fissato bollato utilizzato per il trasferimento delle azioni da madre a figlio, potesse evincersi la sussistenza di una donazione, trattandosi, al più, di una vendita simulata e di una donazione diretta dissimulata, da concludersi in forma scritta, cosicché, da un lato, non vi era stata, da parte dell’attore L., prova (non potendo rilevare le deposizioni testimoniali assunte in primo grado) dell’accordo simulatorio, stante il disposto degli artt.1414, comma 2 e 2725 c.c., nonché dell’art.2722 c.c., essendo il patto simulatorio contrario al contenuto dell’atto scritto, ovvero il fissato bollato, attestante una «vendita»; e, dall’altro, la donazione «diretta», dissimulata, era comunque nulla per vizio di forma; con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza, ex art.360 n. 4 c.p.c., per travisamento della prova e conseguente violazione degli artt.115 e 116 c.p.c., in riferimento al doc.to 9 di parte L. (lettera della Banca al L. inerente a comunicazione del «fissato bollato» relativo a compravendita di n. 512 azioni dalla M. al figlio), che non dimostrerebbe affatto il trasferimento a titolo gratuito del pacchetto azionario da M.L. al figlio F.L..
La ricorrente, nei suddetti due motivi, lamenta quindi che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che le azioni BSGSP, originariamente di proprietà della madre del L., fossero state dalla stessa «donate al figlio» e che quindi fossero da escludere dalla comunione legale tra i coniugi (in quanto beni personali del marito), contestando la valenza probatoria del doc.to 9 (raccomandata del Banco S.Geminiano e S.Prospero del 7/3/1984, indirizzata a L. F., nella quale si legge – pag. 23 ricorso - «Oggetto: Compra-vendita azioni n. Banco. La presente per trasmetterle la parte di Sua spettanza del fissato bollato relativo all’acquisto di 512 azioni n. Banco» e relativo fissato bollato allegato, attestante la «vendita», il 7/3/1984, dalla M., madre del L., al figlio, per contanti, di nominali 512 azioni, per un valore di £ 2.560.000, al prezzo di £ 15.000 cadauna e non senza corrispettivo), in punto di prova di una donazione anziché di una vendita simulata e di una donazione dissimulata, nonché l’ errore di percezione circa il contenuto del documento, che non dimostrerebbe affatto «il trasferimento a titolo gratuito del pacchetto azionario» dalla madre al figlio, ma semmai la vendita dello stesso.
La Corte d’appello ha, in effetti, affermato che dovesse essere condivisa la decisione di primo grado sulla raggiunta prova della donazione di 250 azioni del BSGSP effettuata dalla madre al figlio in costanza di matrimonio, sulla base sia delle testimonianze raccolte in primo grado che avevano concordato nell’affermare «che il passaggio delle azioni dalla madre al figlio è avvenuto in assenza di corrispettivo», sia della documentazione prodotta in giudizio, dalla quale emergeva che le azioni erano rimaste inizialmente sul deposito titoli intestato alla M.L., presso la Filiale della Banca di Guastalla, e solo successivamente erano state «girate ai figli nei rispettivi depositi titoli» e, in particolare, sul conto corrente dei coniugi L. e P. presso il Banco San Geminiano e San Prospero nella Filiale di Mantova.
1.1. Le censure, da trattare unitariamente, perché connesse, sono, in parte inammissibili, in parte, infondate.
La sentenza impugnata, anzitutto, neppure indica che fosse stata dedotta in giudizio una simulazione e il controricorrente riporta, nel controricorso, un estratto della sentenza del Tribunale di Reggio Emilia del 2017, secondo cui alcuna eccezione di simulazione era stata sollevata dalla P. in giudizio e la prova testimoniale aveva riguardato la donazione di una somma di denaro «in nessun modo riconducibile ad una simulazione».
Peraltro dalla sentenza impugnata risulta che il L. aveva dedotto di avere ricevuto in donazione le azioni dalla madre, non avendole versato alcun corrispettivo a fronte del trasferimento.
La doglianza sotto tale profilo, ponendo la questione della vendita simulata e del negozio dissimulato di donazione diretta nonché dell’inammissibilità delle prove testimoniali assunte in primo grado, ai sensi degli artt.2722 e 2725 c.c., oltre che 1414 c.c., difetta di specificità, non chiarendo dove la questione, circa la simulazione della vendita delle azioni fatta dalla madre al figlio, diretta a dissimulare, in realtà, una donazione nulla per difetto della forma dell’atto pubblico, ex art.782 c.c., in relazione al doc.to 9, fosse stata posta in primo grado. A pag. 10 del ricorso viene solo riportato quanto dedotto a sostegno della tesi difensiva e della domanda riconvenzionale svolta, essendosi «negato l’idoneità del doc.t 10 – la dichiarazione risultata autografa della P. – a provare la simulazione del contratto di compravendita delle azioni del Banco San Geminiano e San Prospero di cui al fissato bollato (prodotto sub doc.t 9 fascicolo L.), dovendo la donazione “essere fatta per atto pubblico, sotto pena di nullità”, ex art. 782 c.c.».
Ma le censure risultano anche infondate, in considerazione della valenza probatoria attribuibile al cd. fissato bollato, in passato richiesto, per i contratti di borsa, solo a fini fiscali e per ottenere la liquidazione coattiva del rapporto in caso di inadempimento. Invero, nel vigore della disciplina anteriore alla legge 2 gennaio 1991 n. 1 (che, riorganizzando l'attività di intermediazione mobiliare, ha introdotto l'obbligo della forma scritta per il conferimento dell'incarico ad operare sul mercato mobiliare), non era richiesta, per la valida stipulazione di un mandato a concludere un contratto di borsa, la forma scritta ne' «ad substantiam» ne' «ad probationem», nemmeno quando le operazioni da compiere erano di importo rilevante (Cass. 10236/1995).
Questa Corte ha, invero, affermato che la prova dell'ordine di borsa e del suo contenuto non può essere desunta dal fissato bollato, che esaurisce i suoi effetti ai fini tributari (Cass. n. 575/1982; Cass. n. 2337/1986; Cass. n. 10365/1990; Cass. 1547/1995), con la conseguenza che tale documento, atteso il suo significato meramente «indiziario», non dispensava l'ordinante dall'onere della prova che l'ordine, e con il contenuto preteso, fosse stato impartito.
Si è quindi affermato (Cass. 17030/2008) che «in tema di prova dei contratti di borsa, il c.d. fissato bollato, che sul piano fiscale assolve ad una funzione probatoria di pagamento dell'imposta, quale dichiarazione che le parti fanno al Fisco in relazione ad atti a forma libera, sul piano civile è suscettibile di apprezzamento come indizio, in quanto, contenendo una dichiarazione resa comunque anche "inter partes", costituisce un documento utile ai fini della ricostruzione del contenuto dell'operazione che le parti hanno inteso compiere».
Il cd. fissato bollato relativo al trasferimento di azioni, dunque, mentre sul piano fiscale assolve ad una funzione probatoria di pagamento dell'imposta, quale dichiarazione che le parti fanno al fisco in relazione ad atti a forma libera, «sul piano civile è suscettibile di apprezzamento come elemento meramente indiziario, sicché non integra, di per sé, prova dell'avvenuto versamento del prezzo di vendita dei titoli» (Cass. 19912/2014, ove, in motivazione, si è osservato che «la sottoscrizione del fissato bollato relativo al trasferimento delle suddette azioni da parte di..non costituisce di per sè prova dell'avvenuto versamento del prezzo di vendita di tali titoli, considerato che in tema di contratti di borsa il fissato bollato assolve sul piano fiscale ad una funzione probatoria di pagamento dell'imposta quale dichiarazione che le parti fanno al fisco in relazione ad atti a forma libera, e che pertanto sul piano civile esso è suscettibile di apprezzamento come elemento meramente indiziario …, cosicché legittimamente la Corte territoriale non ha ad esso attribuito valore probatorio decisivo in assenza della prova del versamento del prezzo, assenza presuntivamente ricavata dal mancato rinvenimento sul conto corrente cointestato al "de cuius" di qualsiasi somma al riguardo»). Quindi non può affermarsi che dal doc.to 9 ovvero dal fissato bollato relativo al trasferimento delle azioni dalla M. al figlio, F.L., emergesse la prova scritta di una compravendita o di un trasferimento a titolo oneroso, con conseguente divieto di provare per testi patti aggiunti o contrari al contenuto di un negozio, posto dall'art. 2722 c.c., che si riferisce ad un atto formato con l'accordo delle parti, valenza che non si può attribuire al fissato bollato, suscettibile solo di apprezzamento «come elemento indiziario».
Inoltre, le norme che escludono o limitano la prova testimoniale e quella indiziaria si riferiscono soltanto ai contratti posti in essere tra le parti in lite e che su di essi fondino le loro ragioni: ipotesi questa che esula completamente dall'oggetto del presente giudizio, avendo le prove testimoniali in contestazione avuto ad oggetto la donazione delle azioni tra la M. ed il figlio L..
Ancora, la prova testimoniale può sempre essere ammessa dall'autorità giudiziaria persino per i contratti oltre i limiti di valore per essi fissati «in considerazione della qualità delle parti... e di ogni altra circostanza»: ed è fin troppo evidente che, trattandosi di rapporti tra madre e figlio, tali condizioni di ammissibilità ben possono ritenersi sempre sussistenti in linea generale.
2. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c.p.c., degli art. 809 c.p.c., in relazione agli artt.1854 c.c. e 116 c.p.c., con riferimento al fatto che, nel conto titoli e nel collegato conto corrente, cointestati ai coniugi, erano comunque state versate le azioni oggetto di donazione dalla madre M.L. al figlio F.L. nel 1984 e che su detti conti erano stati effettuati, dal 1984 al 2007, versamenti di ingenti somme anche da parte della P., il che avrebbe dovuto indurre la Corte di merito a ritenere sussistente una «donazione indiretta» del L. a favore della P. delle azioni BSGSP e conseguentemente ad accogliere la domanda di essa P. di limitare la condanna restitutoria alla metà della somma dalla stessa prelevata dal conto cointestato nel 2007.
Nella doglianza, si denuncia quindi, essenzialmente, che, quand’anche fosse stata provata la donazione dei titoli azionari, dalla madre al figlio, poiché tali azioni erano state versate, nel 1987 o nel 1989 (comunque dopo alcuni anni dal trasferimento da madre a figlio), dal L., nel conto deposito titoli n. (omissis) cointestato tra i coniugi ed utilizzato, dal 1984 al 2007, per le spese della famiglia (spese di ristrutturazione e per acquisto di appartamenti per le figlie), con animus donandi e conseguente sussistenza di una donazione indiretta, doveva essere accolta la propria domanda riconvenzionale in punto di contitolarità al 50% tra i coniugi delle somme giacenti e prelevate sul conto deposito titoli (omissis).
2.1. La censura è infondata.
Anzitutto, il motivo pone la questione degli effetti della cointestazione tra più persone di un conto corrente bancario e di un conto deposito titoli, con facoltà di compiere operazioni anche separatamente.
L’art.1854 c.c. prescrive che «gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto».
Questo giudice di legittimità ha affermato (Cass. 18777/2015) che «la cointestazione di un conto corrente tra coniugi attribuisce agli stessi, ex art. 1854 c.c., la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto, sia nei confronti dei terzi che nei rapporti interni, e fa presumere la contitolarità dell'oggetto del contratto; tale presunzione dà luogo ad una inversione dell'onere probatorio che può essere superata attraverso presunzioni semplici - purché gravi, precise e concordanti - dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa». Si è quindi precisato (Cass. 29324/2021) che, poiché la cointestazione di un conto corrente tra più persone attribuisce a ciascuna di esse, nei rapporti interni, ai sensi dell'art. 1298, comma 2, c.c., la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto medesimo, che si dividono in quote eguali, solo se non risulti diversamente (potendo a tal fine anche farsi ricorso a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti), «ove il saldo attivo discenda dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, deve escludersi che l'altro possa, nei rapporti interni, avanzare diritti su di esso».
Con riguardo poi alla cointestazione di un conto deposito titoli, questa Corte (Cass. 4496/2010) ha chiarito che «in caso di deposito bancario di titoli in amministrazione cointestato ai coniugi, i rapporti interni tra i depositanti sono regolati dall'art. 1298, secondo comma, cod. civ., sicché le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente. Per vincere la predetta presunzione, non è sufficiente la prova di aver avuto la proprietà e la disponibilità esclusiva del denaro utilizzato per l'acquisto dei titoli, valendo la cointestazione a rendere solidale il credito anche se il denaro sia immesso sul conto da uno dei cointestatari o da un terzo a favore di uno solo o di entrambi i coniugi, ed essendo, invece, dirimente la prova della pertinenza esclusiva, in base al titolo di acquisto, del denaro versato in capo a uno dei contestatari».
In definitiva, dagli artt.1854 e 1298, secondo comma, c.c., deriva che la presunzione circa l’eguaglianza delle quote di conto bancario cointestato rappresenta una presunzione legale juris tantum che, dando luogo soltanto all'inversione dell'onere probatorio, può essere superata attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti.
Ma, nella fattispecie, è stata dedotta in giudizio dall’attore L. non la proprietà e la disponibilità esclusiva del denaro utilizzato per l'acquisto del titoli, quanto la proprietà esclusiva dei titoli azionari stessi, che in quanto beni personali, frutto di donazione della propria madre, non erano neppure entrati nella comunione legale tra i coniugi.
Ora, la ricorrente assume che il solo fatto che il coniuge avesse depositato i suddetti titoli azionari nel conto cointestato con la moglie avrebbe comportato una donazione indiretta a favore di essa P..
In effetti, per la validità delle donazioni indirette, vale a dire di quelle liberalità realizzate ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall'art. 782 cod. civ., non è richiesta la forma dell'atto pubblico, essendo sufficiente l'osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità: nella specie, si tratterebbe della cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di azioni depositate presso un istituto di credito, appartenenti all'atto della cointestazione ad uno solo dei cointestatari (cfr. Cass. 3499/1999; Cass. 5333/2004; Cass. 14197/2013).
Tuttavia, «la possibilità che costituisca donazione indiretta l'atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito - qualora la predetta somma, all'atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l'esistenza dell'"animus donandi", consistente nell'accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità» (Cass. 26983/2008).
Il principio è stato successivamente confermato da questa Corte (Cass. 468/2010; Cass. 4682/2018) .
Con l’ulteriore e decisivo corollario che l'intenzione di donare o il fine di liberalità, con l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario, deve emergere, nella donazione indiretta, non già, in via diretta, dall'atto o dagli atti utilizzati, ma solo, in via indiretta, dall'esame, necessariamente rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del singolo caso, nei limiti in cui risultino tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio da chi ne abbia interesse. Nella specie, premesso che l’attore L. aveva negato l’assunto, affermando che il deposito, di beni comunque personali in quanto frutto di donazione, nel conto cointestato ai coniugi era stato «del tutto fittizio e discendente da mere ragioni di opportunità», la Corte d’appello ha di fatto escluso il raggiungimento di tale prova, cui era onerata la P..
Per il resto, la censura della ricorrente si esaurisce inammissibilmente in una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, trascurando in proposito la competenza esclusiva demandata al giudice di merito anche con riferimento alla sussistenza sia dei presupposti per il ricorso alle presunzioni sia dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione (vedi "ex multis" Cass. 4.5.2005 n. 9225)
3. Con il quarto motivo, si deduce la nullità della sentenza, ex art.360 n. 4 c.p.c., per «travisamento della prova» e violazione degli arrt.115 e 116 c.p.c., in relazione alla valutazione delle prove testimoniali ed in particolare della deposizione della testa A.L., sorella del resistente, nonché del contenuto dei documenti 9, da 13 a 16 e da 18 a 26 di primo grado del L., attestanti che le azioni donate dalla madre del L. non erano «250 azioni del valore di £ 75.000» ma «512 azioni del valore di £ 2.516.000». La censura è inammissibile.
Invero, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'art. 360, primo comma, numero 5), cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 14627/2006; Cass. 24434/2016;Cass. 23934/2017).
Ora, la ricorrente ritorna sulla valutazione probatoria del contenuto del doc.to 9 del fascicolo di parte L. di primo grado e delle testimonianze assunte, nonché della dichiarazione scritta della P. (doc.to 10 di parte L., in primo grado).
Quanto poi al dedotto «travisamento della prova», a prescindere dalla necessità del «carattere sicuramente decisivo di tale errore, nel senso che, in assenza di esso, la decisione sarebbe stata diversa, in termini non di mera probabilità ma di assoluta certezza» (Cass.13918/2022; Cass. 37382/2022), deve rilevarsi che la deduzione di tale vizio, nel presunte giudizio, incontra, in ogni caso, la preclusione rappresentata dalla cd. doppia conforme, ai sensi dell’art.348 ter, comma 4°, c.p.c., vigente ratione temporis (operando l’abrogazione di cui al d.lgs. 149/2022 solo per le impugnazioni proposte successivamente al 28/2/2023).
Nella specie, l’appello avverso sentenza di primo grado resa nel 2017 è stato promosso all’evidenza con ricorso o con citazione notificata posteriormente all’11/9/2012 e non può dubitarsi della conformità delle due pronunce — circostanza l'insussistenza della quale è comunque onere del ricorrente dimostrare (cass. n.26774/2016,Cass. n. 20994/2019) — rese dal Tribunale di Reggio Emilia e dalla Corte d’Appello di Bologna, in quanto le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa; inoltre il vizio dedotto non risulta dal testo della sentenza impugnata «a prescindere dal confronto con le risultanze processuali» (Cass. 24395/2020)
4. Con il quinto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c.p.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2730 e 2735 c.c., in punto di valutazione della dichiarazione scritta della P. (doc.to10 di parte L. di primo grado), non avente valenza confessoria, in quanto l’espressione non avrebbe il significato confessorio, ad essa attribuito dalla Corte d’appello, di riconoscimento della donazione effettuata dalla madre al figlio L. F..
La censura è inammissibile per le stesse ragioni espresse al precedente paragrafo.
5. La ricorrente, con il sesto motivo, denuncia la nullità della sentenza, ex art.360 n. 4 c.p.c., per mancanza di motivazione o per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, laddove la Corte d’appello ha confermato la condanna della P. alla restituzione della «somma oggetto di donazione», corrispondente all’intera giacenza sul conto titoli, all’ottobre 2007, epoca del prelievo operato dalla P. (o meglio del trasferimento «quote fondi comuni»), pur avendo anche affermato che il conto stesso era stato «alimentato nel corso degli anni», con conseguente inclusione anche di somme facenti parte della comunione tra i coniugi.
Non ricorre, anzitutto, il vizio di motivazione meramente apparente o di omessa motivazione su fatto decisivo, avendo la Corte d’appello esaustivamente vagliato il materiale probatorio e motivato in modo logico e coerente.
Questa Corte, a Sezioni Unite, ha chiarito (SS.UU 22232 del 03/11/2016) che «la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (nella specie si è ritenuta tale una motivazione caratterizzata da considerazioni affatto incongrue rispetto alle questioni prospettate, utilizzabili, al più, come materiale di base per altre successive argomentazioni, invece mancate, idonee a sorreggere la decisione).
Nella specie, la Corte d’appello ha espresso, in modo esaustivo, le ragioni giuridiche poste a fondamento della propria decisione, non potendo conseguentemente prospettarsi, sotto tale profilo, alcun vizio comportante la nullità della pronuncia medesima.
La Corte d’appello ha infatti affermato, confermando la decisione di primo grado, che, sulla base delle risultanze istruttorie, fosse stato dimostrato dall’attore L. che la somma prelevata nel 2007 dalla P., nelle more della separazione, era di proprietà esclusiva del marito in quanto proveniva integralmente dall’originaria donazione indiretta - che rientra nell'esclusione dalla comunione legale tra i coniugi di cui all'art. 179, primo comma, lett. b), c.c. (Cass. 14197/2013; Cass. 20336/2021) - delle azioni di BSGSP effettuata dalla madre del L. al figlio nel 1984, poi incrementata nel corso degli anni, per effetto dell’abilità nelle intermediazioni mobiliari del L. (operatore di borsa, come dedotto dal controricorrente), cosicché tale somma non rientrava nel regime di comunione legale dei coniugi.
Invero, dalla lettura dell'art. 195 c.c., secondo cui i beni personali del coniuge, che non cadono nella comunione de residuo, sono esclusi dalle operazioni liquidative, non dovendo essere compresi nella massa comune, cosicché il coniuge, che ha l’amministrazione e la gestione, ex art.185 c.c., dei propri beni personali, li può prelevare in sede di divisione (ed anche durante la comunione), fermo che la prova della proprietà personale, per i beni mobili, grava sul coniuge che la invoca, si evince (ultima parte della disposizione) che, quanto ai beni mobili (tra i quali sono compresi i titoli azionari dei quali qui si controverte), si deve presumere la comunione (legale) tra coniugi «in mancanza di prova contraria»: e, poiché non si richiede una prova qualificata, si deve ritenere che la prova capace di rovesciare la presunzione possa essere una prova libera, quindi anche una prova testimoniale o indiziaria (Cass. 7437/1994; Cass. 7372/2003).
Neppure viene poi agitata nel motivo la questione della violazione dell’art.179 comma 1 lett.f c.c., secondo cui rientrano tra i beni personali, esclusi dalla comunione legale tra i coniugi, « i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto», in relazione alla necessità o meno, affinché il bene acquistato per surrogazione reale, divenga personale, di una dichiarazione espressa del coniuge acquirente sulla provenienza dal patrimonio personale del bene e sulla sua esclusione dalla comunione (cfr. Cass. 10855/2010, che ha limitato la necessità della dichiarazione nel caso in cui la provenienza del corrispettivo dell’acquisto dal patrimonio personale non risulti da circostanze oggettive, cosicché in caso di acquisto di un bene mediante l’impiego di altro bene di cui sia certa l’appartenenza esclusiva al coniuge acquirente prima del matrimonio, l’acquisto dovrà ritenersi escluso dalla comunione legale senza che sia necessario rendere la menzionata dichiarazione, non essendosi ritenuto sufficiente ad eliminare la natura personale, in capo a un coniuge, del bene e a renderlo comune, il solo fatto che il prezzo ricavato dall'alienazione del bene personale fosse transitato, prima di essere investito nell'acquisto delle quote dei fondi comuni di investimento, su dei conti correnti in comunione legale tra i coniugi). Come, parimenti, non viene dedotta nel ricorso la questione circa la configurabilità come acquisto, nel senso indicato dall’art.177, comma 1, lett.a), c.c., del denaro ricavato dall’alienazione di un bene personale, che sia stato accantonato sotto forma di deposito bancario (cfr. Cass. n. 1197/2006, che lo ha escluso, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né è configurabile come un’operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell’assetto patrimoniale del depositante e la disposizione di cui all’art.177 lett.a) c.c.si riferisce solo ai diritti reali non anche ai diritti di credito).
6. Con il settimo motivo, si lamenta l’omesso esame, ex art.360 n. 5 c.p.c., di fatti decisivi, nonché la nullità della sentenza, ex art.360 n. 4 c.p.c., per travisamento della prova e violazione dell’art.115 c.p.c., in relazione alla pluralità di fatti storici, documentati, circa i versamenti e i conferimenti effettuati, nel corso degli anni, sul conto cointestato ai coniugi n. 1119829 presso il Banco San Gemignano e San Prospero, nel quale erano state versate le 512 azioni «asseritamente donate al L.» nonché in relazione alla statuizione di condanna di essa P. a restituire al L. l’importo di € 224.824,60, costituente «l’intero ammontare del conto titoli n. 1119829» e quindi l’intera giacenza del conto titoli, non essendo invece tale somma riconducibile in via esclusiva alle azioni asseritamente donate.
La Corte d’appello ha rilevato che non fosse stata provata dalla P. la consistenza dei conti correnti e depositi titoli cointestati e che la documentazione parziale prodotta non era utile a dimostrare l’entità delle somme o dei titoli confluiti nei vari conti correnti e dunque a ricostruire il patrimonio controverso.
La censura è inammissibile anzitutto per le ragioni espresse al par.3 in relazione al quarto motivo.
Giova poi aggiungere che il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione ex art.360 n. 5 c.p.c. solo nel caso in cui determini l'omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la «ratio decidendi» venga a trovarsi priva di fondamento.
Ne consegue che la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza alcun dubbio dato luogo a una decisione diversa (Cass., 26/06/2018, n. 16812; Cass., 28/09/2016, n. 19150).
7. L’ottavo motivo denuncia la nullità della sentenza, ex art.360 n. 4 c.p.c., per motivazione omessa o apparente, in punto di statuizione circa l’assenza di idoneo supporto probatorio in relazione alla domanda riconvenzionale spiegata da essa P., «nonostante la documentazione prodotta»; con il nono motivo, si lamenta l’omesso esame, ex art.360 n. 5 c.p.c., di fatti decisivi, essendo stata frutto di vero travisamento delle prove l’esame del contenuto della documentazione prodotta da essa P..
Le doglianze tutte sono inammissibili, sia perché non ricorre il vizio di mancanza di motivazione sia perché il vizio motivazionale è precluso per effetto del’art.348 ter c.p.c., essendo conformi le motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado che hanno entrambe respinto la domanda riconvenzionale della P. per insufficienza probatoria degli elementi offerti.
8. La ricorrente, con il decimo motivo, si duole della violazione o falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c.p.c., degli artt.2697 c.c. e 115 c.p.c., in quanto la Corte d’appello a fronte dell’allegazione e documentazione dei prelievi effettuati dal L. sul conto ad esso intestato e dello «svuotamento del conto titoli cointestato tra i coniugi», avrebbe dovuto ritenere che l’onere della prova circa l’utilizzo di tali somme di denaro per esigenze familiari ricadesse sul L. .
Anzitutto, la Corte d’appello ha affermato che la P., in relazione alla domanda riconvenzionale proposta, aveva l’onere, ex art.2697 c.c., di dimostrare i fatti posti a fondamento del suo diritto, versando in atti «tutta la documentazione utile a consentire di accertare correttamente l’ammontare della pretesa restitutoria azionata», avendo invece allegato «scarna documentazione contabile» (descritta nella sentenza impugnata).
Il che è del tutto corretto essendo l'attore (in riconvenzionale) tenuto a dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, senza che la contestazione del convenuto possa tramutarsi in eccezione in senso sostanziale e, come tale, determinare l'inversione dell'onere della prova (Cass. 24328/2017).
Invero, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, la violazione del precetto di cui all'art. 2697 c.c. si configura solo nell'ipotesi in cui il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull'onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l'onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni, ma non anche laddove si contesti il concreto apprezzamento delle risultanze istruttorie, assumendosi che le stesse non avrebbero dovuto portare al convincimento raggiunto dal giudice di merito (Cass. n. 1634/2020; Cass. n.26769/2018; Cass. n.26366/2017).
Quanto dedotto dalla ricorrente non configura violazioni di diritto sostanziale presenti nella decisione impugnata, cosicché il riferimento alle norme risulta palesemente inconferente, giacché quel che viene in discussione è unicamente il modo in cui la Corte di merito, cui competeva farlo, ha valutato le risultanze documentali acquisite agli atti.
Non sussiste dunque alcun errore di diritto e la censura si risolve in un’inammissibile richiesta di rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr. da ultimo, Cass. SU 34476/2019).
9. La ricorrente, con l’undicesimo motivo, lamenta la violazione o falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c.p.c., dell’art.115 c.p.c., in relazione al principio di non contestazione, assumendo che, nel giudizio di primo grado, la parte attrice non avesse preso posizione sulla domanda riconvenzionale formulata dalla convenuta e sui fatti e documenti dedotti e prodotti.
Il controricorrente ha replicato rilevando di avere tempestivamente ed integralmente contestato tutti i fatti ed i documenti posti dalla controparte alla base della spiegata domanda riconvenzionale, poiché non provati o smentiti documentalmente.
La censura è inammissibile, essendo sufficiente, al riguardo, rammentare che, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell'art. 115 cod. proc. civ. può essere dedotta come vizio di legittimità non in riferimento all'apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma solo sotto due profili: qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale (Cassazione, n. 4699/2018; Cass., n. 20382/2016).
Inoltre, l'operatività del principio di non contestazione, con conseguente «relevatio» dell'avversario dall'onere probatorio, postula che la parte dalla quale è invocato abbia per prima ottemperato all'onere processuale, posto a suo carico, di provvedere ad una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l'altra parte è tenuta a prendere posizione (Cass. 2525/2020; Cass 3023/2016).
Nella specie, la mancata, precisa allegazione da parte dell’attrice in riconvenzionale dei pretesi sperperi o indebiti prelievi o acquisti operati dal L., esonerava il convenuto, che comunque aveva o negato il reale accadimento di tali eventi o fornito giustificazione, dall'onere di compiere una contestazione circostanziata, perché ciò equivarrebbe a ribaltare sullo stesso convenuto l'onere di allegare il fatto costitutivo dell'avversa pretesa.
10. Si lamenta poi, con il dodicesimo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c.p.c., degli artt.112 e 281 quinquies e sexies c.p.c., in quanto le parti avevano in primo grado precisato le conclusioni nelle memorie difensive depositate nel termine concesso del 16/10/2017, formulando le istanze istruttorie, di modo che la frase riportata dal giudice di primo grado nel verbale di udienza del 25/10/2017, secondo cui «i procuratori delle parti precisano le conclusioni come da atti introduttivi», doveva ritenersi frutto di un refuso, tanto che nella sentenza di primo grado era precisato, a pag.2, che «le parti hanno concluso come da memorie depositate» .
La censura è inammissibile in quanto neppure vengono specificamente indicate le istanze istruttorie articolate in primo grado e non ammesse dal Tribunale, con conferma della statuizione di rigetto da parte della Corte d’appello.
Dal tenore del ricorso emerge peraltro che la P. avesse chiesto essenzialmente l’ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio contabile, ricostruttiva del patrimonio familiare (o meglio di quello derivante dai conti correnti o deposito titoli cointestati o intestati al solo L.), ma la Corte d’appello ha esaminato la richiesta istruttoria ritenendola inammissibile in quanto di tenore meramente esplorativo.
11. Infine, è inammissibile anche il tredicesimo motivo, con il quale si denuncia la violazione e falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c.p.c., degli artt.115,116, 61 e 98 c.p.c., nonché 24 e 111 Cost., in punto di rigetto della richiesta di CTU contabile avanzata dalla P., in particolare in relazione alla verifica di documentazione bancaria non accessibile quale quella relativa al «conto corrente n. 26218 intestato solo a L. F.», presso la Banca Agricola Mantovana, avendo la deducente, a suo dire, documentato la richiesta, rimasta senza esito, inoltrata alla Banca nel 2008.
Ora, l’incombente istruttorio non è stato ammesso in quanto il Tribunale e la Corte d’appello hanno ritenuto, valutate le allegazioni complessive della P., che la chiesta consulenza contabile avesse una finalità meramente esplorativa.
E questa Corte (Cass. 3130/2011 Cass. 30218/2017; Cass. 10373/2019) ha già affermato che la consulenza tecnica d'ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, cosicché il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati.
Inoltre, «la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d'ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell'istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare» (Cass. 17399/2015).
Si è poi precisato che, essendo consentito denunciare in Cassazione, giusta la nuova formulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., , oltre all'anomalia motivazionale, solo il vizio specifico relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ed abbia carattere decisivo, «il ricorrente non può limitarsi a denunciare l’omesso esame di elementi istruttori, ma deve indicare l’esistenza di uno o più fatti specifici, il cui esame è stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui essi risultino, il come ed il quando tali fatti siano stati oggetto di discussione processuale tra le parti e la loro decisività» (Cass. 7472/2017).
Nella specie, la ricorrente si è limitata a dedurre di aver dimostrato, in relazione ad un conto corrente intestato al solo L., l’avvenuta richiesta all’istituto di credito di accesso alla documentazione bancaria, richiesta rimasta senza esito, omettendo peraltro di chiarire la decisività di tale dato fattuale.
12. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso; condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 9.000,00, a titolo di compensi, oltre € 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.