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23 maggio 2023
Deontologia forense
L’imparzialità dell’avvocato mediatore impedisce di avere una sede dell’organismo in un locale anche solo contiguo allo studio professionale
Sanzionato con due mesi di sospensione l'avvocato che ha il proprio studio professionale contiguo con la sede dell'organismo di mediazione: non valgono a separare attività forense da quella di mediazione il diverso numero di telefono, le diverse segreterie e i bagni se l'apparenza di una anticamera comune crea confusione nel pubblico.
di Avv. Fabio Valerini
Il caso

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Un avvocato, che assisteva una parte in una controversia, aveva introdotto una procedura di mediazione (obbligatoria) depositando una domanda davanti ad un organismo di mediazione del quale lui era il presidente e che aveva sede ad un indirizzo corrispondente a quello presso cui era il suo studio legale.

A quel punto, l'avvocato della parte chiamata, venuto a conoscenza della circostanza e dopo aver deciso di non partecipare all'incontro per opportunità rappresentata alla Segreteria dell'organismo, aveva “richiesto un parere” al Consiglio dell'ordine sul se la condotta fosse, o no, in contrasto con gli obblighi deontologici.

A quel punto venne formalizzato il capo di incolpazione secondo cui l'avvocato si era reso «responsabile della violazione dell'art. 55-bis del precedente codice deontologico (art. 62 codice attuale), in particolare il IV comma che fa divieto all'avvocato di consentire che l'organismo abbia sede, a qualsiasi titolo, presso il suo studio o che quest'ultimo abbia sede presso l'organismo di mediazione. In .. data prossima e successiva al 16/07/2012».

Il Consiglio distrettuale di disciplina, all'esito del procedimento, aveva sanzionato l'avvocato con una sospensione dall'esercizio della professione forense per due mesi dopo aver ritenuto che «la separazione degli ambienti all'interno del medesimo appartamento non valesse ad escludere l'integrazione della fattispecie».

Il diritto

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Secondo la linea difensiva dell'avvocato ricorrente e sulla quale ha fondato il suo ricorso al Consiglio Nazionale forense la mera condivisione di un locale d'ingresso a tre autonomi, separati minialloggi (ognuno dei quali con bagno, citofono, cassetta per la posta e diversa segreteria e numeri di telefono) non può costituire una violazione della normativa deontologica.

In altri termini, nel caso di specie non c'era coincidenza ma semplice contiguità che, necessariamente, avrebbe escluso la violazione deontologica.

Senonché per il Consiglio Nazionale Forense occorre muovere dalla ratio della previsione del divieto di far coincidere la sede di un organismo di mediazione con uno studio legale.

Ebbene, il «disvalore ascritto alla coincidenza ovvero contiguità tra sede dell'organismo di mediazione e sede dello studio legale deriva dalla necessità di evitare anche la mera apparenza di una commistione di interessi, di per sé sufficiente a far dubitare dell'imparzialità dell'avvocato-mediatore».

Peraltro, il valore protetto dalla norma ha un rilievo generale e indipendente rispetto allo svolgimento di singoli procedimenti e, quindi, deve essere tutelato a prescindere dalla circostanza che la commistione di interessi emerga in relazione a un procedimento individuato.

In questo contesto il Consiglio Nazionale Forense con la circolare illustrativa n. 24 del 2011 aveva valutato la necessità o meno di una effettiva coincidenza spaziale e logistica tra studio e organismo, escludendo tale rigida necessità poiché anche soltanto la contiguità può costituire un fattore, agli occhi dei terzi, di una ipotetica commistione di interessi sufficiente a far dubitare dell'imparzialità ed indipendenza dell'avvocato-mediatore.

La lente dell'autore

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Secondo il Consiglio Nazionale Forense, dunque, «il divieto di coincidenza/contiguità non opera soltanto nei confronti dei soggetti in mediazione, ma anche e soprattutto a tutela dell'immagine dell'Avvocatura e, come già detto, anche dell'istituto della mediazione ed è posto proprio affinché i cittadini possano ad essa affidarsi in totale fiducia e trasparenza».

Il tema del rapporto tra avvocato e mediatore e quello della “terzietà” dell'organismo di mediazione sono stati più volte oggetto di attenzione normativa.

Un primo evento, Come si ricorderà, era stata l'introduzione – invero molto discussa e criticata - nell'art. 14-bis del D.M. 180/2010 di un'ipotesi di incompatibilità secondo cui «il mediatore non può essere parte ovvero rappresentare o in ogni modo assistere parti in procedure di mediazione dinanzi all'organismo presso cui è iscritto o relativamente al quale è socio o riveste una carica a qualsiasi titolo; il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino la professione negli stessi locali» […] «1…il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino la professione negli stessi locali».

Quella previsione regolamentare (invero troppo rigida rispetto allo scopo) era stata annullata dal TAR Lazio con la sentenza 3989 del 2016.

Se, invece, pensiamo a tempi più recenti, la riforma Cartabia per rafforzare l'indipendenza e l'imparzialità della mediazione (anche qui forse con un eccesso rispetto allo scopo) ha previsto, tra l'altro, all'art. 16 D.Lgs. n. 28 del 2010 che l'organismo di mediazione debba avere come oggetto sociale esclusivo quello dello svolgimento della mediazione (o degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie).