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19 giugno 2023
Civile e processo
Il compenso per l’avvocato che concilia la causa
La Suprema Corte riconosce l'impegno dell'avvocato che concilia la causa e chiarisce come deve essere interpretata la formula del decreto ministeriale sui parametri forensi nella parte in cui prevede la determinazione del compenso dell'avvocato nel caso di conciliazione raggiunta durante la causa.
di Avv. Fabio Valerini
Il caso

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La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 17325 del 16 giugno 2023, chiarisce quale sia la corretta lettura della norma che prevede il criterio di liquidazione del compenso dell'avvocato quando è stata raggiunta una conciliazione in corso di causa nella parte in cui prevede un aumento del compenso altrimenti liquidabile.

E ciò riconoscendo espressamente come spesso l'opera prestata per giungere ad un accordo transattivo (contatti, trattative, incontri, stesura degli accordi) impegna il professionista forense ben di più che la predisposizione delle difese conclusive nelle quali essenzialmente si sostanzia l'attività per la fase decisionale.

Nel caso di specie, due avvocati avevano proposto un ricorso ex art. 14 D.Lgs. n. 150 del 2011 per chiedere la condanna del proprio cliente dell'onorario che aveva maturato per l'attività di assistenza legale svolta, tra l'altro, in sede giudiziale relativamente ad una controversia di divisione.

Ebbene, quella controversia era stata transatta dopo la prima udienza attraverso un accordo formalizzato con un rogito notarile.

Il Tribunale aveva accolto la domanda degli avvocati disponendo, in particolare per quel che più rileva ai nostri fini, che in base all'art. 4, comma 6, del D.M. 55 del 2014, in tema di aumento del compenso per l'ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione della controversia, spettasse un importo pari ad euro 1.907,75.

Il diritto

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Secondo gli avvocati ricorrenti per cassazione il Tribunale aveva errato nella liquidazione del compenso loro spettante perché, anziché incrementare, in ragione del raggiungimento di un accordo transattivo grazie all'ausilio degli avvocati, il corrispettivo totale dovuto a questi ultimi di un quarto del compenso liquidabile per la fase decisoria – aveva semplicemente riconosciuto una somma ulteriore e separata (rispetto a quella relativa alle altre fasi del giudizio), pari al 25% dell'importo da liquidarsi nella fase conclusiva del giudizio.

La differenza era sostanziale poiché, se il Tribunale avesse seguito la tesi dei ricorrenti, in luogo di 1.907,75 euro avrebbe potuto liquidare fino a 9.538,75 (risultante dal compenso liquidabile per la fase decisoria – euro 7.631 – aumentato fino a un quarto).

Ebbene, la norma rilevante nel caso di specie, nella formulazione ratione temporis applicabile, è l'art. 4 del D.M. n. 55 del 2014 secondo cui «nell'ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione della controversia, la liquidazione del compenso è di regola aumentato fino a un quarto rispetto a quello altrimenti liquidabile per la fase decisionale, fermo quanto maturato per l'attività precedentemente svolta».

Il ricorso, quindi, ha posto la questione «se all'avvocato vada riconosciuto, nel caso (di conciliazione o) di transazione della causa, oltre al compenso per le fasi già svolte, una somma ulteriore fino a un quarto di quanto previsto per la fase decisionale, oppure se all'avvocato spetti un compenso pari a quanto previsto per tale ultima fase, aumentato fino al 25%».

La lente dell'autore

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La Suprema Corte, muovendo dal presupposto che l'art. 4 D.M. n. 55 del 2014 rappresenta un “incentivo deflattivo” con funzione “premiale”, ha ritenuto non corretta la scelta del Tribunale sancendo che quando il giudizio venga definito con una transazione e il professionista abbia prestato la sua opera nel raggiungimento dell'accordo, all'avvocato deve essere riconosciuto un ulteriore compenso rispetto a quello spettante per l'attività precedentemente svolta, pari al compenso liquidabile per la fase decisionale, di regola aumentato fino a un quarto.

Ed infatti, è vero che la fase decisionale non viene svolta, ma ciò accade anche perché i difensori hanno aiutato le parti ad addivenire a una soluzione transattiva della controversia alternativa alla decisione dell'autorità giudiziaria.

Diversamente, la finalità «verrebbe frustrata se il corrispondente importo fosse costituto da una percentuale di quello che sarebbe spettato qualora si fosse svolta la fase decisionale».

Alla luce di quanto richiamato la seconda sezione ha affermato il principio di diritto secondo cui «ai sensi dell'art. 4, comma 6, del D.M. n. 55 del 2004, nel caso in cui il giudizio venga concluso con una transazione, all'avvocato va riconosciuto un ulteriore compenso rispetto a quello spettante per l'attività precedentemente svolta, e questo è pari a quello altrimenti liquidabile per la fase decisionale, aumentato sino a un quarto».

Ha quindi errato il Tribunale a non liquidare l'intero compenso per la fase decisionale aumentato fino al 25% fermo quando maturato per l'attività precedentemente svolta.

Resta, infine, da dire che l'argomentazione adottata dalla Suprema Corte (e, cioè, quella di incentivare soluzioni che rendano superflua la decisione della causa) è coerente anche con il complessivo impianto dei parametri forensi per come recentemente modificati.

Ed infatti, il Legislatore nel 2018 per incentivare il raggiungimento di un accordo in mediazione aveva introdotto specifici parametri per l'assistenza in mediazione (fase di attivazione, fase di negoziazione, accordo).

Inoltre, con il D.M. n. 147 del 2022 ha eliminato i dubbi interpretativi prevedendo oggi che «nell'ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione della controversia, il compenso per tale attività  è determinato nella misura pari a quello previsto per la fase decisionale, aumentato di un quarto, fermo quanto maturato per l'attività precedentemente svolta».

Rispetto alla versione precedente, oltre a chiarire la base di calcolo, l'eliminazione delle espressioni “di regola” e “fino a”, hanno escluso la discrezionalità del giudice sia nell'an che nel quantum.

Infine, sempre per incentivare il raggiungimento di un accordo in mediazione la riforma Cartabia ha previsto che nel caso in cui la parte abbia i requisiti per essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato l'avvocato ha diritto ad essere liquidato nel caso in cui, nelle materie di cui all'art. 5 comma 1 D. Lgs. n. 28 del 2010, la mediazione si concluda con un verbale di accordo (precedentemente il sistema induceva a non trovare l'accordo perché l'assistenza in mediazione avrebbe potuto essere remunerata soltanto come voce nel successivo giudizio di merito).

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