Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 26693 del 18 settembre 2023 hanno sollevato una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l'automatismo che si produce per effetto di certe sentenze penali di condanna sul procedimento disciplinare a carico del magistrato nella parte in cui il giudice è vincolato ad irrogare la massima sanzione disciplinare della rimozione. |
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Le Sezioni Unite, nell'esaminare il ricorso proposto dal magistrato, su sollecitazione della difesa dell'incolpato, ha deciso di sollevare la questione di legittimità costituzionale del quinto comma dell'art. 12 D.Lgs. n. 109 del 2006 senz'altro rilevante nel caso a quo poiché la dichiarazione della sua illegittimità «riespanderebbe il potere dell'Organo disciplinare di valutare, nello specifico, la congruità della sanzione estrema in rapporto al caso concreto, non essendo più di fronte alla esclusiva alternativa tra rimozione (art. 12, comma 5) e non rimozione (art. 3-bis), ma avendo la possibilità di graduare la sanzione secondo i tradizionali criteri di proporzionalità e adeguatezza». |
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In secondo luogo, le Sezioni Unite hanno individuato il parametro di riferimento per valutare la non manifesta infondatezza della sollevata questione di costituzionalità nell'art. 117 Cost. e nell'art. 8 CEDU che tutela la vita privata e che può ricomprendere, a certe condizioni, anche le cause di lavoro dal momento che si tratta di un concetto ampio e non suscettibile di definizione esaustiva. |
Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, ordinanza interlocutoria (ud. 4 luglio 2023) 18 settembre 2023, n. 26693
Svolgimento del processo
1. Il dott. F.L. è stato sottoposto a procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006 in relazione:
a) al procedimento penale per il delitto di cui agli artt. 110 e 323, primo e secondo comma, cod. pen., perché, quale giudice delegato della procedura 34/2014 RMP R., in concorso con S. S., quale Presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo e del collegio della procedura R., tutti quali pubblici ufficiali nello svolgimento delle rispettive funzioni, in concorso tra loro, e in concorso mediante istigazione o sollecitazione con T.V., componente togato del Consiglio superiore della magistratura nel periodo dal luglio 2010 al luglio 2014, aveva nominato amministratore giudiziario di beni in sequestro di prevenzione W.V., procurandogli intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale, esclusivamente in funzione della protezione che si attendeva di ricevere dal padre di questi, T.V.;
b) al procedimento penale per il delitto di cui all’art. 326 cod. pen. per aver appreso e divulgato la notizia d’ufficio, che doveva rimanere segreta, relativa alla trasmissione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta, ex art. 11 cod. proc. pen., degli atti relativi al procedimento a carico di W.V. in relazione alla gestione del compendio patrimoniale in sequestro;
c) al procedimento penale per il delitto di cui agli artt. 110 e 476, primo e secondo comma, cod. pen., in quanto, quale giudice delegato di alcune procedure, aveva apposto la sigla apocrifa di S.S. in calce a tre provvedimenti giurisdizionali.
La Sezione disciplinare, in data 22 giugno 2017, aveva sospeso il procedimento disciplinare cui il dott. L. era stato sottoposto, unitamente ad altri incolpati, per pregiudizialità del processo penale.
Con sentenza del 25/06/2020 la Corte d’appello di Caltanissetta aveva confermato la decisione di primo grado, che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva assolto il L. in relazione al reato di cui agli artt. 110 e 323 cod. pen., per insussistenza del fatto di reato, e all’art. 326 cod. pen., per mancata commissione del fatto, e aveva condannato il predetto alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione e al risarcimento nei confronti delle costituite parti civili in relazione ai tre reati di cui agli art. 110 e 476, primo e secondo comma, cod. pen. (per avere il L., con il consenso della Presidente S.S., apposto la sigla apocrifa di quest’ultima in calce a tre provvedimenti giurisdizionali, la cui falsità discendeva sia da quest’ultimo profilo sia dal fatto che il provvedimento non proveniva dal Tribunale, costituito, oltre che dal L. e dalla S., anche dal dott. C.; si trattava, nel dettaglio:
a) di un provvedimento di liquidazione nella procedura Italgas; b) di un decreto di sequestro nel procedimento n. 34/2014 R.M.P. R.; c) di un provvedimento definitorio del procedimento n. 231/2013 R.M.P. Evola).
La sentenza era confermata da questa Corte con pronuncia della Quinta Sezione penale n. 10671 del 24 marzo 2022.
A seguito di detta decisione, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, scissa la posizione del dott. L. da quella degli altri incolpati, all’udienza dell’8 novembre 2022, ha dichiarato colpevole il dott. L. per gli episodi relativi ai capi 37, 38 e 39 dell’incolpazione (e cioè per i tre falsi di cui alla condanna penale) ed applicato la sanzione disciplinare della rimozione (stante l’intervenuta condanna a pena detentiva superiore a un anno e non sospesa, ex art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006); lo ha assolto per i restanti addebiti contestati.
Ha, in particolare, rilevato che gli accertamenti compiuti in sede penale hanno autorità di cosa giudicata sul procedimento disciplinare e su tale presupposto ha evidenziato che non era in contestazione né l’accadimento materiale del fatto né la sua rilevanza penale.
Il Collegio disciplinare ha, quindi, evidenziato che il giudice penale ha irrogato la sanzione detentiva, ravvisando una sostanziale e consistente offensività nelle condotte di falso contestate al dott. L., senza che alcuna rilevanza potesse assumere il cd. “falso consentito” per l’assenso ricevuto dal Presidente della Sezione del Tribunale di appartenenza.
Ha, altresì, precisato che il giudice penale aveva dato rilevanza al contesto ove si erano verificate le condotte contestate al dott. L., definito come “improntato ad un consueto e deficitario rispetto delle regole”.
Ha affermato che tale sistema deficitario trovava conferma nella precedente sentenza di condanna alla perdita di anzianità di un anno, irrogata dalla Sezione disciplinare al dott. L. per reiterate violazioni di più doveri facenti capo al magistrato, verificatesi nel contesto del medesimo Ufficio giudiziario al quale si riferiva anche l’ulteriore vicenda disciplinare.
Quanto alle censure di legittimità costituzionale prospettate dalla difesa del dott. L. in relazione all’asserito automatismo di cui all’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 109 del 2006 per contrasto con i principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità ai sensi degli artt. 7 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 117 Cost.), la Sezione disciplinare le ha ritenute manifestamente infondate.
In particolare, ripercorsi brevemente i casi di rimozione di magistrati in sede disciplinare sui quali si è pronunciata la Corte EDU, ha evidenziato che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ritiene necessario, al fine di garantire il rispetto dell’art. 8 par. 2 della Convenzione, assicurare al magistrato un grado minimo di protezione contro l’arbitrarietà della decisione disciplinare, che può considerarsi assicurato dalla prevedibilità dei casi di ingerenza da parte dell’Autorità e dal rispetto di adeguate garanzie procedurali.
Ha ritenuto, altresì, infondata la censura inerente alla riconducibilità della sanzione disciplinare alla medesima natura della sanzione penale.
Secondo la Sezione ciò sarebbe desumibile dalla guida agli artt. 6 e 7 della CEDU, pubbL. sul sito della Corte di Strasburgo, che esclude la riconducibilità alla medesima natura delle due sanzioni.
Inoltre, il Collegio ha precisato che la ragionevolezza e la proporzionalità della sanzione disciplinare sono dimostrate dall’intrinseca gravità del fatto, accertato in sede penale, che si riflette sul piano delle conseguenze disciplinari.
Ha, in ogni caso, rivendicato la spettanza al giudice disciplinare della valutazione - da effettuare secondo il suo insindacabile apprezzamento - circa la riconducibilità della condotta concreta alla scarsa rilevanza (ex art. 3-bis d.lgs. n. 109 del 2006), escludendo così qualsiasi irragionevolezza o automatismo di fondo della disposizione censurata.
La Sezione disciplinare ha altresì osservato che, pur immaginando una diversa sanzione penale (ossia inferiore al limite di un anno di reclusione previsto dall’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 109 del 2006), la sanzione della rimozione sarebbe l’unica idonea per la gravità delle condotte tenute dal dott. L., la cui portata ha determinato una irrimediabile compromissione della fiducia nella funzione giurisdizionale riferibile all’incolpato.
Con riferimento alla richiesta della difesa, proposta in via subordinata, di applicare, appunto, l’art. 3-bis d.lgs. 109 del 2006 per la scarsa rilevanza del fatto, il Collegio disciplinare - pur ritenendo astrattamente applicabile la non punibilità per scarsa rilevanza del fatto anche nei casi previsti dall’art. 12, comma 5, cit. - ha affermato che, nel caso di specie, non era possibile alcuna valutazione suscettibile di apprezzamento della scarsa rilevanza in ragione della speciale rimproverabilità delle condotte tenute dall’incolpato, oltre che per la risonanza mediatica avuta dalla vicenda negli ambienti giudiziari.
2. Contro la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura il dott. F.L. ha proposto ricorso con atto affidato a sei motivi.
3. Il Ministro della giustizia non ha svolto attività difensiva.
4. Il ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 12 del d.lgs. n. 109 del 2006, derivante dall’applicazione di una previsione incostituzionale qual è l’art. 12, comma 5, del d. lgs. n. 109 del 2006 (motivo ex art. 606, lett. b), cod. proc. pen.).
Assume che in sede disciplinare, premessane la rilevanza, si sono illustrati i vizi di costituzionalità dell’automatismo nell’applicazione della sanzione disciplinare massima della rimozione ex art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006 (elemento indiscutibilmente centrale e critico della vicenda).
Deduce che la Sezione disciplinare ha irrogato la sanzione della rimozione per illecito disciplinare conseguente a reato facendo applicazione del suddetto art. 12, comma 5, previsione che sollecita gravissimi dubbi di legittimità costituzionale in forza dei quali chiede a questa Corte di promuovere giudizio incidentale ex art. 23 della legge n. 87 del 1953.
Osserva che, se non fosse stato vigente l’art. 12, comma 5, la Sezione disciplinare avrebbe dovuto valutare la sanzione applicabile sulla base del ventaglio di risposte repressive di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 109 del 2006.
Rileva che, mentre l’art. 4 elenca gli illeciti disciplinari conseguenti a reato, l’art. 12 non prevede specifiche risposte sanzionatorie per tali illeciti disciplinari salvo il previsto automatismo sanzionatorio del comma 5 che comporta, in sé, la mancata applicazione dell’intero art. 12 e del medesimo art. 4.
Aggiunge che la circostanza che la Sezione disciplinare abbia affermato che la condotta oggetto di incolpazione sarebbe stata comunque da punire con la rimozione del magistrato e che non sarebbe configurabile l’ipotesi di cui all’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006 non priva di rilevanza la censura di incostituzionalità e ciò per due ragioni: - la norma sospettata di incostituzionalità è stata comunque applicata dalla Sezione disciplinare; - l’automatismo sanzionatorio ha permeato di sé tutta la motivazione della pronuncia impugnata, tanto che la valutazione della gravità della condotta è stata espletata solo al fine di escludere la tenuità del fatto ai sensi dell’art. 3- bis cit. (in sostanza la Sezione ha posto solo l’alternativa tra rimozione e non rimozione).
Richiama la pronuncia della Corte costituzionale n. 268 del 2016 in punto di illegittimità costituzionale della destituzione da un pubblico impiego a seguito di sentenza penale, senza la mediazione del procedimento disciplinare.
Rileva che, se pure è vero che nel caso in esame il procedimento disciplinare si è svolto, tuttavia è stato precluso l’esercizio della discrezionalità nell’individuazione della sanzione ritenuta appropriata e proporzionata.
Assume, richiamando Corte cost. n. 170 del 2015, che il principio di proporzione, fondamento della razionalità che domina il principio di eguaglianza, postula l’adeguatezza della sanzione al caso concreto e che tale adeguatezza non può essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito.
Precisa che il caso qui in esame non è paragonabile a quello scrutinato con la sentenza della Corte cost. n. 197 del 2018 in quanto in quella vicenda non si controverteva di “un automatismo legato al sopravvenire di una condanna in sede penale per determinati reati”, bensì di “un diverso automatismo insito nella previsione di un’unica sanzione fissa (la rimozione) per chi sia ritenuto responsabile dal giudice disciplinare di un preciso illecito, anch’esso di natura meramente disciplinare”, segnatamente quanto alla fattispecie prevista e punita dall’art. 3, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 109 del 2006 (così la citata sentenza n. 197 del 2018).
Nel caso scrutinato con tale pronuncia erano rimessi al CSM l’accertamento del fatto, la sua sussunzione nella fattispecie legale e la valutazione complessiva della vicenda disciplinarmente rilevante.
Invece, nel caso in esame, la fattispecie che viene in rilievo è quella del “sopravvenire di una condanna in sede penale per determinati reati”, ovverosia proprio la fattispecie che la stessa sentenza menzionata individua come tipico meccanismo in cui la reazione disciplinare automatica al fatto penalmente rilevante è violativa dei principi di eguaglianza e ragionevolezza (oltre che di parità di trattamento e buon andamento della P.A.).
Ciò rende, ad avviso del ricorrente, l’art. 12, comma 5, in esame affetto da irragionevolezza intrinseca e dunque da violazione dell’art. 3 Cost.
Inoltre, il previsto automatismo è palesemente lesivo delle prerogative del CSM ex art. 105 Cost., che attribuisce all’Organo di governo autonomo il potere disciplinare nei confronti degli appartenenti alla Magistratura, potere interamente resecato dall’automatismo “esterno” qui contestato.
Assume che ciò si risolve in una violazione dei princìpi di proporzionalità, ragionevolezza e buon andamento della P.A., come applicati dalla Corte costituzionale a tutti i procedimenti che sono sostanzialmente sanzionatori (non ultimo quello disciplinare).
Individua ulteriori elementi sintomatici della violazione degli artt. 3 e 97 Cost. nel fatto che l’automatismo correlato al solo dato della pena inflitta abbraccia (e dunque equipara) una pluralità indistinta di condotte, alcune delle quali sono manifestamente estranee ai profili dell’imparzialità e della terzietà dell’amministrazione della giustizia, di tal che difetta un nesso di causalità tra la condotta tenuta dall’incolpato e il pericolo di distorsione dell’attività giurisdizionale in favore di una parte.
Da ultimo rileva che la possibilità di riconoscere la scarsa rilevanza della condotta ex art. 3-bis del medesimo d.lgs. non supplisce affatto al segnalato difetto di ragionevolezza e proporzionalità e certo non restituisce al CSM l’esercizio delle sue prerogative costituzionali, in quanto, in base alla giurisprudenza costituzionale, il meccanismo sanzionatorio è legittimo solo ove sia assicurato un rapporto di adeguatezza tra la condotta contestata e l’offesa al bene giuridico tutelato, nell’ambito di un procedimento rimesso alla piena cognizione del titolare del potere disciplinare.
Anche a voler diversamente ricostruire le indicazioni (“invero chiarissime”) della Corte costituzionale, l’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006 potrebbe essere ritenuto una sorta di “valvola di sicurezza” contro la rigidità del sistema sanzionatorio solo nel caso di fissazione per legge della sanzione minima per un illecito squisitamente disciplinare, e non nel caso dell’automatismo “esterno” connesso a un illecito penale.
Opera, poi, alcuni distinguo, in fatto ed in diritto, rispetto alla fattispecie oggetto della sentenza di questa Corte n. 29560 del 2021, richiamata nella pronuncia impugnata.
Censura la valutazione della Sezione circa la compatibilità dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006 con gli artt. 7 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, rilevanti nel giudizio di costituzionalità a integrazione del parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost.
Rileva che la Corte EDU con giurisprudenza costante ha affermato che la protezione assicurata dall’art. 8 si estende anche ai profili di ordine procedurale, richiedendosi non solo che il soggetto privato abbia la possibilità di intervenire nel procedimento ma anche che l’Amministrazione procedente svolga una valutazione di proporzionalità rispetto agli interessi in conflitto, anche in ragione del pregiudizio subito dai diritti del soggetto privato, valutazione di proporzionalità che nello specifico l’art. 12, comma 5, ha impedito.
Considera parimenti errata la statuizione della pronuncia impugnata sulla ritenuta compatibilità dell’indicata norma con l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Censura, al riguardo, l’affermazione secondo la quale la rimozione disposta in applicazione dell’automatismo sanzionatorio non potrebbe essere considerata “sanzione in materia penale” ai sensi del citato art. 7.
Rileva, a tal fine, che per una qualificazione del genere non è necessaria la previsione di una pena detentiva dovendo effettuarsi un accertamento sulla base dei criteri individuati dalla Corte EDU: i) classificazione del diritto interno; ii) natura della condotta del privato che determina l’intervento pubblico; iii) gravità dello stesso intervento pubblico.
Quanto al secondo criterio, rileva che l’accertamento deve investire anche una pluralità di sottocriteri: i) se la norma in questione si applichi esclusivamente ad un gruppo specifico di soggetti oppure ad una indistinta generalità di destinatari; ii) se il procedimento sia avviato da un ente pubblico dotato di poteri immediatamente autoritativi; iii) se la misura persegua una finalità punitivo-afflittiva o deterrente; iv) se la misura sia intesa a proteggere gli interessi generali della società solitamente tutelati dal diritto penale; v) se l’imposizione della misura restrittiva dipenda dall’accertamento della colpevolezza del soggetto privato.
Assume che, nella specie, la destituzione integra plurimi dei suddetti sottocriteri: a) l’Autorità che irroga la sanzione ha immediata capacità di darvi esecuzione; b) è pacifica la finalità punitivo-afflittiva e deterrente nei confronti delle persone sottoposte al potere disciplinare; c) la stessa sentenza gravata riconosce che l’interesse perseguito dall’intervento restrittivo è di tipo generalissimo ed è tutelato con l’estrema ratio della repressione penale; d) il giudizio penale impone anche la verifica dell’elemento soggettivo; e) vi è una diretta ed automatica connessione tra il fatto di reato e la misura disciplinare e la destituzione è l’effetto giuridico di una tipica pena accessoria quale l’interdizione dai pubblici uffici; f) la gravità della misura è evidente stante l’enormità del sacrifico imposto al sanzionato.
Quindi, ad avviso del ricorrente, la sanzione qui in esame è effettivamente “una sanzione in materia penale” come tale rientrante nell’ambito della protezione dell’art. 7.
Aggiunge che l’automatismo (senza che risulti comunque conservato in capo all’Organo disciplinare il potere-dovere di una valutazione discrezionale) determina un evidente difetto di proporzionalità tra la condotta oggetto di incolpazione e la sanzione irrogata.
Nello specifico la violazione dell’art. 7 della Convenzione sarebbe palese anche sotto il profilo della proporzionalità tra la condotta oggetto di incolpazione e la sanzione irrogata, in quanto nel caso di specie si verterebbe in un caso di falso consentito, con provvedimenti legittimamente deliberati dall’Organo collegiale competente e redatti dal legittimo relatore (l’odierno ricorrente).
2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 11 e 12 del d. lgs. n. 109 del 2006, anche in riferimento all’art. 3 Cost. (motivo ex art. 606, lett. b), cod. proc. pen.).
Sostiene che la statuizione della Sezione disciplinare riguardo alla necessarietà dell’applicazione della sanzione estrema della rimozione si pone in contrasto con il principio della proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta incolpata e pertanto viola gli art. 4, 11 e 12 del d.lgs. n. 109 del 2006, letti in combinato disposto con l’art. 3 Cost.
Sottolinea che nel caso in esame non è stato perseguito un interesse proprio dell’incolpato o un favoreggiamento illecito di una parte del giudizio con la conseguenza che la sanzione è certamente sproporzionata.
Rileva che la stessa Corte d’appello di Caltanissetta, nella sentenza n. 369 del 23 ottobre 2010, ha posto in evidenza che il dott. L. “ha agito per semplice leggerezza […] e non di certo perché mosso da uno specifico intento delinquenziale”.
Assume che la fattispecie di falso in questione è ben diversa da quella del falso fraudolento e che tale diversità assume rilievo decisivo nel giudizio disciplinare.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, in subordine, la violazione e falsa applicazione degli artt. 3-bis e 12, comma 5, d.lgs. n. 109 del 2006, in relazione all’art. 606, lett. b), cod. proc. pen.
Censura la sentenza impugnata per aver valutato la tenuità del fatto solo in relazione allo “strepitus fori” e al mero prestigio della magistratura, senza considerare la capacità del magistrato di svolgere la propria funzione, con violazione del principio della motivazione rafforzata, tanto più necessaria quando l’alterativa è solo la misura massima della rimozione.
4. Con il quarto motivo, in subordine, denuncia la mancata assunzione di una prova decisiva quale la testimonianza del dott. C., in relazione all’art. 606, lett. d), cod. proc. pen.; nonché la violazione dell’art. 18 del d.lgs. n. 109 del 2006, dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e degli artt. 190 e 495 cod. proc. pen., in relazione all’art. 606, lett. b), cod. proc. pen.
5. Con il quinto motivo, in via ulteriormente subordinata, denuncia la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in riferimento all’escussione dell’avv. D.M. e all’escussione del dott. M.S., in relazione all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen.
6. Infine con il sesto motivo, sempre in via subordinata, denuncia la violazione dell’art. 3-bis d.lgs. n. 109 del 2006 sotto altro profilo.
Censura la sentenza impugnata per aver escluso la scarsa rilevanza del fatto in modo astratto ed apodittico senza tener conto delle specificità del caso concreto ed omettendo qualsiasi accertamento sul fine perseguito dal ricorrente nella commissione dell’illecito.
7. Ritiene questo Collegio, per le ragioni che di seguito si andranno ad esporre, che sia rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, nella parte in cui prevede che si applica la sanzione della rimozione al magistrato che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’art. 168 dello stesso Codice, senza che sia comunque rimessa all’Organo di governo autonomo la valutazione concreta della offensività della condotta al fine di una eventuale graduazione della misura sanzionatoria, per violazione degli artt. 3, 97 e 105 Cost., nonché per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in riferimento all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
SULLA RILEVANZA
8. Come si evince dai motivi di ricorso sopra sintetizzati, il dott. L. pone principalmente la questione della non manifesta infondatezza dei prospettati dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006 sotto vari profili che, di seguito, partitamente si esamineranno.
Se la suddetta norma fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, ne deriverebbe la cassazione della sentenza della Sezione disciplinare in quanto, escluso l’automatismo sanzionatorio di cui all’indicata norma, la pronuncia andrebbe riformata per violazione degli artt. 4 e 12 del medesimo d.lgs. per non avere il Collegio dell’Organo di governo autonomo scelto con la dovuta discrezionalità la risposta al fatto contestato sulla base del giudizio di proporzionalità e appropriatezza tipico del procedimento disciplinare.
8.1. Né vale ad escludere detta rilevanza il passaggio in cui la Sezione disciplinare, al fine di sottolineare la gravità e reiterazione della condotta posta in essere - tre episodi di falso materiale in provvedimenti giurisdizionali, sottoscrivendo gli stessi con firma apocrifa del Presidente (e sia pure in accordo con essa) -, attinente proprio all’esercizio della funzione giurisdizionale, e la conclamata responsabilità penale ad essa conseguente con irrogazione di una sanzione detentiva di lunga durata, tali da compromettere irrimediabilmente la fiducia nella funzione giurisdizionale riferibile all’incolpato, ha evidenziato che ciò “avrebbe reso necessaria la sanzione estrema della rimozione anche ove mai, per avventura, la sanzione penale comminata fosse stata mantenuta al di sotto del minimo oltrepassato il quale l’art. 12, comma 5, d.lgs., n. 109 del 2006 impone la conseguenza della rimozione”.
Trattasi, infatti, di una argomentazione meramente ipotetica perché si muove in un contesto normativo contrassegnato dall’automatismo di cui all’art. 12, comma 5, automatismo che permea l’intero provvedimento, il quale, nella finale parte dispositiva, tale norma richiama al fine di sostenere che la rimozione è sanzione proporzionalmente adeguata alla gravità dei fatti, così sostanzialmente mutuando il preventivo e presuntivo giudizio fissato dal legislatore.
La Sezione disciplinare ha svolto un ragionamento fondato sulla risposta all’interrogativo su cosa si sarebbe potuto fare se detto automatismo non ci fosse stato, ma trattasi di un interrogativo, come evidenziato dalla difesa del dott. L., “processualmente e sostanzialmente insignificante” perché l’automatismo c’è ed è inevitabile che la sua presenza abbia inciso sul convincimento del Giudice, come traspare evidente dalla motivazione nel suo complesso.
Non vi è dubbio, quindi, che la sentenza impugnata sia stata resa ai sensi dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, il che evidenzia la rilevanza della questione che si andrà a porre, giacché essa concerne l’applicazione della disposizione censurata il cui automatismo sanzionatorio è elemento condizionante ed ineludibile della motivazione della sentenza, così da relegare al campo delle ipotesi le ulteriori considerazioni che seguono una logica differente, presupponente una (inesistente) graduabilità delle sanzioni.
8.2. La suddetta rilevanza neppure è esclusa dal riferimento al precedente disciplinare del dott. L. che, nell’impianto argomentativo della pronuncia, costituisce elemento meramente narrativo utilizzato ad abundantiam per descrivere il contesto nel quale la vicenda avente rilevanza penale si è consumata (come si evince dalla stessa sentenza impugnata, la condanna alla perdita di anzianità di un anno è sostanzialmente da ricomprendere entro la medesima vicenda qui in esame, ovvero nell’ambito dei rapporti tra componente del Collegio - l’odierno ricorrente - e Presidente di Sezione).
8.3. Egualmente non rileva, al fine di escludere la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, la ritenuta non sussumibilità della vicenda in esame nell’alveo dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006.
L’accertamento della condotta disciplinarmente irrilevante in applicazione dell’esimente di cui all’art. 3-bis (da identificarsi in quella che, riguardata ex post ed in concreto, non comprometta l’immagine del magistrato) è stata compiuta, infatti, senza sovvertire il previsto automatismo.
Ed è su quest’ultimo, fondante come detto l’argomentare della Sezione disciplinare, che si incentrano i sospetti di incostituzionalità.
La rilevanza, del resto, deve essere valutata in relazione al nesso di pregiudizialità tra la decisione sul dubbio di costituzionalità e l’applicazione della norma di cui si dubita.
Tale nesso, nello specifico, sicuramente sussiste.
8.4. La decisione sul ricorso del dott. L., dunque, dipende fondamentalmente dall’applicazione dell’automatismo di cui all’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006 (si vedano i punti 14 e 15 della sentenza): di qui la rilevanza del dubbio di illegittimità costituzionale, in quanto se la disposizione sospettata venisse dichiarata costituzionalmente illegittima si riespanderebbe il potere dell’Organo disciplinare di valutare, nello specifico, la congruità della sanzione estrema in rapporto al caso concreto, non essendo più di fronte alla esclusiva alternativa tra rimozione (art. 12, comma 5) e non rimozione (art. 3-bis), ma avendo la possibilità di graduare la sanzione secondo i tradizionali criteri di proporzionalità e adeguatezza.
SULLA NON MANIFESTA INFONDATEZZA
9. La disposizione censurata statuisce che: «5. Si applica la sanzione della rimozione al magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’articolo 3, comma 1, lettera e), che incorre nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice».
10. Seguendo l’ordine delle questioni poste dal ricorrente e comunque esaminando le stesse secondo un opportuno ordine logico, va innanzitutto verificata la compatibilità della norma suddetta con l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
10.1. Al riguardo, non è condivisibile la tesi della assimilabilità della sanzione disciplinare a quella penale.
La giurisprudenza di legittimità ha affermato (Cass., Sez. Un., 6 novembre 2020, n. 24896) che la sanzione disciplinare e quella penale hanno finalità, intensità ed ambiti di applicazione diversi, sicché non è coerente con il sistema pervenire ad una loro identificazione (Cass., Sez. Un., 12 marzo 2015, n. 4953).
10.2. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 197 del 2018 (sulla quale si tornerà, per altri aspetti, più avanti), ha precisato - punto 11 del “considerato in diritto” - che “benché le sanzioni disciplinari attengano in senso lato al diritto sanzionatorio-punitivo, e proprio per tale ragione attraggano su di sé alcune delle garanzie che la Costituzione e le carte internazionali dei diritti riservano alla pena, esse conservano tuttavia una propria specificità, anche dal punto di vista del loro statuto costituzionale, non essendo – ad esempio – soggette al principio della necessaria funzione rieducativa della pena, che questa Corte ha sempre ritenuto essere connotato esclusivo delle pene in senso stretto (nel senso dell’inapplicabilità di tale principio alle sanzioni amministrative, sentenza n. 281 del 2013 e ordinanza
n. 169 del 2013). Tale specificità comporta dunque che alcune almeno delle garanzie che, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, circondano la pena in senso stretto non si applicano, o si applicano con un maggior grado di flessibilità, alla sfera delle sanzioni disciplinari. Oltre che a logiche punitive e deterrenti comuni alle pene, tali sanzioni possono legittimamente rispondere, quanto meno nei casi concernenti pubblici funzionari cui sono affidati compiti essenziali a garanzia dello Stato di diritto, anche alla finalità di assicurare la definitiva cessazione dal servizio di persone dimostratesi non idonee, o non più idonee, all’assolvimento dei propri doveri. E ciò anche sulla base di automatismi sanzionatori, come quello incorporato nella disposizione ora scrutinata, i quali potranno eccezionalmente superare il vaglio di non manifesta irragionevolezza proprio e soltanto in quanto funzionali all’applicazione di una mera sanzione disciplinare, ma che resteranno invece, in linea di principio, inaccettabili nell’ambito delle pene in senso stretto, dove le esigenze di rigorosa individualizzazione del trattamento sanzionatorio si impongono in maniera assai più stringente, anche in considerazione della ben più drammatica incidenza della pena sui diritti fondamentali della persona”.
10.3. Ne deriva la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale posta con riguardo all’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
11. Diversamente, può dirsi non manifestamente infondato il dubbio di incostituzionalità posto con riferimento alla violazione dell’art. 8 della Convenzione.
11.1. Per invocare l’art. 8, un ricorrente deve dimostrare che la sua doglianza concerna almeno uno dei quattro interessi tutelati dall’articolo, ovvero: la vita privata, la vita familiare, il domicilio e la corrispondenza. Alcune questioni, naturalmente, abbracciano più di un interesse. Il paragrafo 2 dell’art. 8 enuncia le condizioni richieste perché uno Stato possa ingerire nel godimento di un diritto protetto, ovvero se ciò è necessario alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Sono consentite limitazioni qualora esse siano “previste dalla legge” o “conformi alla legge” e siano “necessarie in una società democratica” per la tutela di uno dei suesposti obiettivi.
Nella sentenza Denisov contro Ucraina, n. 76639/11, Corte EDU (Grande Camera), 25 settembre 2018, la Corte europea, richiamando diversi precedenti pertinenti (§§ 101, 104-105, 108 e 109), ha esposto i principi mediante i quali valutare se le cause di lavoro rientrino nel campo di applicazione della nozione di “vita privata” di cui all’art. 8 (§§ 115-117).
La Corte ha ritenuto che, in tali controversie, il licenziamento, la retrocessione, il diniego di accesso a una professione o altri analoghi provvedimenti sfavorevoli possono incidere su alcuni aspetti tipici della vita privata.
Egualmente, nella sentenza Mile Novakovic contro Croazia, n. 73544/14, Corte EDU (Prima Sezione), 17 dicembre 2020, la Corte ha affermato che il concetto di “vita privata” è ampio e non suscettibile di definizione esaustiva. Può quindi abbracciare molteplici aspetti dell’identità fisica e sociale della persona. Per questo, anche le controversie relative al lavoro non sono di per sé escluse dall’ambito della “vita privata” ai sensi dell’art. 8 cit.
Nell’elaborazione giurisprudenziale della Corte europea, l’art. 8 è norma finalizzata fondamentalmente a difendere l’individuo da ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri, essendo appunto posto agli Stati contraenti il divieto di ingerenza, salvo specifiche espresse deroghe.
Al riguardo, l’ingerenza può essere prevista dalla legge ovvero motivata da una delle esigenze imperative di carattere generale di cui al secondo comma dell’art. 8. All’impegno di carattere negativo degli Stati parti si aggiungono gli obblighi positivi di adottare misure atte a garantire il rispetto effettivo della «vita familiare e della vita privata».
Il confine tra obblighi positivi e negativi posti a carico degli Stati contraenti, ai sensi dell’art. 8, non si presta ad una definizione precisa ma i principi applicabili sono, comunque, assimilabili. Nell’adempiere ad entrambi gli obblighi (positivo e negativo), ciascuno Stato deve trovare un giusto equilibrio tra i concorrenti interessi generali e dei singoli, nell’ambito del margine di apprezzamento che gli è conferito.
Inoltre, la procedura decisionale prevista deve essere “equa” e tale da garantire il dovuto rispetto degli interessi tutelati dall’art. 8.
In particolare, deve esistere «un principio di proporzionalità tra la misura [contestata] e lo scopo perseguito».
11.2. Non vi è dubbio che, nel caso in esame, le conseguenze derivanti dalla rimozione automatica sono inevitabilmente incidenti sulla vita privata del ricorrente, rimasto senza lavoro quando non aveva ancora compiuto sessanta anni (e, dunque, un’età che, da un lato, non consente di accedere al trattamento pensionistico e, dall’altro, rende del tutto illusoria la possibilità di intraprendere altra professione, diversa da quella oggetto della rimozione).
Anche sotto il profilo della mancanza di alternativa concreta alla rimozione (insufficiente a tal fine la previsione, del tutto residuale e, come si evidenzierà, di scarsa applicazione pratica di cui all’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006), la vicenda del dott. L. ben può inserirsi nell’ambito della protezione di cui all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Tale rimozione, infatti, pur prevista previo rispetto di adeguate garanzie procedurali, e pur essendo ricollegata ad una condanna penale, confligge con i principi di gradualità e proporzionalità della sanzione disciplinare che soli garantiscono, nell’ottica della Corte europea, una reazione adeguata al pur legittimo fine perseguito.
11.3. Dedurre la proporzionalità (presuntivamente) dall’esistenza di una condanna penale, accertata nella sede competente e con il rispetto delle garanzie procedimentali, integra un salto logico nel senso che sovrappone i due piani: quello punitivo statuale e quello disciplinare.
Ciò è tanto più evidente se si considera che la norma in questione non specifica neppure quali siano i fatti penalmente rilevanti in relazione ai quali la prevista condanna determina la automatica rimozione del magistrato, introducendo, così, di fatto una interdizione dai pubblici uffici non prevista dal legislatore penale (sul punto, v. infra).
11.4. Il previsto automatismo, precludendo all’Organo di governo autonomo la possibilità di una graduazione della sanzione da applicare in rapporto al caso concreto, integra la violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del principio di proporzionalità tra la misura e lo scopo perseguito.
Ciò pone in relazione alla norma in disamina dubbi di costituzionalità per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, nella parte in cui dispone che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (oltre che della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario).
12. Sono del pari condivisibili i prospettati dubbi di costituzionalità sollevati con riguardo agli artt. 3 e 105 Cost.
12.1. Esaminando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, nella parte in cui prevede che si applica la sanzione della rimozione al magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 109 del 2006, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 197 del 2018, ha ritenuto la stessa non fondata evidenziando la diversità della norma scrutinata rispetto a quella oggetto della sentenza n. 170 del 2015 del medesimo Giudice delle leggi (nella quale era stata censurata l’obbligatorietà della sanzione disciplinare accessoria del trasferimento presso altra sede o altro ufficio ricorrendo una delle violazioni stabilite dall’art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, che sanziona il magistrato il quale, violando i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona, abbia arrecato ingiusto danno o indebito vantaggio a una delle parti).
Si è affermato che l’illecito disciplinare, nel caso della sentenza n. 170 del 2015, abbracciava condotte di natura eterogenea, e connotate ictu oculi da gradi di disvalore fortemente differenziati, anche soltanto dal punto di vista dell’elemento soggettivo, risultando sanzionabili a quel titolo anche condotte caratterizzate da mera imperizia o trascuratezza, che sono invece a priori escluse dall’ambito applicativo dell’illecito disciplinare oggetto di esame nella sentenza n. 197 del 2018, il quale richiede invece la prova della positiva consapevolezza da parte del magistrato delle qualità soggettive della persona da cui egli riceva prestiti o agevolazioni.
Nella vicenda esaminata da Corte cost. n. 197 del 2018, si controverteva di un automatismo insito nella previsione di un’unica sanzione fissa (la rimozione) per chi fosse ritenuto responsabile dal giudice disciplinare di un preciso illecito, anch’esso di natura meramente disciplinare.
Trattasi di una situazione diversa da quella qui in esame, in cui si controverte di un automatismo legato al sopravvenire di una condanna in sede penale per determinati reati (cfr., altresì, Corte cost. n. 133 del 2019).
La norma oggetto di scrutinio nella sentenza n. 197 del 2018 ha superato il vaglio di costituzionalità per essere stata ivi individuata la species facti.
12.2. Nel caso qui in esame, l’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, lì dove stabilisce la rimozione automatica del magistrato che sia stato condannato a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli artt. 163 e 164 cod. pen., o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’art. 168 dello stesso codice, non indica una vera e propria species facti ma individua in realtà una species poenae.
12.3. Già questo crea una irragionevole distonia nel sistema, di fatto devolvendo al giudice penale oltre che l’individuazione del fatto anche le conseguenze, attraverso la concreta determinazione della pena, in termini disciplinari.
È del tutto evidente l’eterogeneità delle situazioni di fatto che, in astratto, potrebbero rientrare nell’ambito della suddetta previsione (si pensi, tra le tante, all’ipotesi, richiamata dalla stessa Sezione disciplinare, dell’aiuto al suicidio di cui all’art. 580 cod. pen., al di fuori dei casi per i quali la lettura costituzionalmente orientata della norma consente, oggi, di escludere la stessa punibilità; si pensi ai reati di lesioni personali di cui all’art. 582 cod. pen., al reato di abbandono di minori o incapaci di cui all’art. 591 cod. pen., al reato di atti persecutori di cui all’art. 612 bis cod. pen., al reato di violazione di domicilio di cui all’art. 614 cod. pen., al reato di accesso abusivo ad un sistema informatico di cui all’art. 615 ter cod. pen.).
12.4. Ed allora, a fronte di tale eterogeneità, comprensiva anche di condotte estranee ai profili dell’imparzialità e della terzietà dell’amministrazione della giustizia, non è rimessa alla Sezione disciplinare alcuna possibilità di graduazione, non essendo a tal fine utile la previsione di cui all’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006 secondo il quale: «L’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza».
Se pure tale norma è stata ritenuta applicabile anche all’ipotesi di cui all’art. 12, comma 5, del medesimo d.lgs., è del tutto evidente che si tratta di disposizione non utile a ritenere integrata quella necessaria graduazione che è compito precipuo riservato all’Organo di governo autonomo.
Ed infatti con l’art. 3-bis, norma non specificamente prevista per le ipotesi di cui all’art. 12, comma 5, ma di applicazione generale, è demandato un accertamento che va oltre quello della mera corrispondenza della condotta alla fattispecie disciplinare astratta.
Si fuoriesce dall’ambito della formale conformità alla fattispecie tipica e ci si inoltra in valutazioni che colgono la dimensione fattuale in una prospettiva di lesione del bene giuridico.
Questa Corte ha chiarito che si tratta di quei casi in cui, pur perfezionata la fattispecie tipica, il fatto, per le particolari circostanze del caso concreto, non sia lesivo del bene tutelato (Cass., Sez. Un., 8 ottobre 2018, n. 24672). L’accertamento della condotta disciplinarmente irrilevante in applicazione dell’esimente di cui all’art. 3-bis (da identificarsi in quella che, riguardata ex post ed in concreto, non comprometta l’immagine del magistrato) deve compiersi senza sovvertire il principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari; pertanto, nell’ipotesi in cui il bene giuridico individuato specificamente dal legislatore in rapporto al singolo illecito disciplinare non coincida con quello protetto dal citato art. 3-bis, il giudizio di scarsa rilevanza del fatto dovrà anzitutto tenere conto della consistenza della lesione arrecata al bene giuridico specifico e, solo se l’offesa non sia apprezzabile in termini di gravità, occorrerà ulteriormente verificare se quello stesso fatto, che integra l’illecito tipizzato, abbia però determinato un’effettiva lesione dell’immagine del magistrato, risultando applicabile la detta esimente in caso di esito negativo di entrambe le verifiche (Cass., Sez. Un., 27 novembre 2019, n. 31058; Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2020, n. 29823).
L’esimente in questione si applica a tutte le ipotesi di illecito (e non solo a quelle per le quali è prevista la rimozione), allorché la fattispecie tipica sia stata realizzata ma il fatto, per particolari circostanze anche non riferibili all’incolpato, non risulti in concreto capace di ledere il bene giuridico tutelato, secondo una valutazione che costituisce compito esclusivo della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, soggetta a sindacato di legittimità solo ove viziata da errore di impostazione giuridica oppure motivata in modo insufficiente o illogico (Cass., Sez. Un., 26 marzo 2021, n. 8563).
In sintesi, la valutazione sulla scarsa rilevanza del fatto deve essere compiuta in coerenza con il principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari e avendo riguardo alla compromissione o all’appannamento dell’immagine del magistrato e della sua attività.
Tale apprezzamento deve, pertanto, avvenire su due piani, distinti ma cospiranti: si deve prima valutare se la lesione al bene giuridico tutelato direttamente dalla norma sull’illecito disciplinare che viene in rilievo non sia stata grave; solamente ove tale operazione dia esito positivo, si deve passare a valutare se la condotta abbia comportato effetti di scarsa rilevanza sull’immagine del magistrato (Cass., Sez. Un., n. 21368 del 2023).
Tutto ciò porta a ritenere che: - deve esserci stata una previa tipizzazione dell’illecito disciplinare; - l’esimente, che è collegata al permanere della fiducia, da parte della comunità, dell’autorità e del prestigio del magistrato, della credibilità della funzione giudiziaria, non consente alcuna graduazione, nel senso che vi è solo l’alternativa tra escludere l’illecito per scarsa rilevanza del fatto o irrogare la sanzione della rimozione, prevista come unica sanzione dall’art. 12, comma 5 (o tutto o niente, senza possibilità di articolazioni intermedie).
Vi è dunque solo un’alternativa che non lascia alcuno spazio alla modulazione della sanzione, dovendo il giudice scegliere, per fatti che si connotano per una gravità materiale variabile, soltanto tra la sanzione estrema della cessazione del rapporto o l’irrilevanza disciplinare.
12.5. Ed allora, in conformità con quanto affermato dal Giudice delle leggi (Corte cost. n. 170 del 2015), va ritenuto che il vulnus ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza sussiste in presenza di un sistema punitivo fondato sull’automatismo ed assolutamente disattento alla consistenza e gravità delle singole svariate condotte sanzionabili indiscriminatamente. Ciò, in particolare, si verifica quando la disposizione faccia riferimento ad un ventaglio eccessivamente ampio (e non omogeneo) di presupposti ai quali è collegata la sanzione automatica, con la conseguenza che una troppo ampia generalità dei casi nei quali applicare la medesima sanzione automatica non consente di formulare un giudizio certo sulla proporzione della sanzione rispetto allo scopo perseguito, in violazione dell’art. 3 Cost.
Come precisato nella citata Corte cost. n. 170 del 2015, il principio di proporzione è assolutamente centrale, come conseguenza del principio di eguaglianza, che postula l’adeguatezza della sanzione al caso concreto. Ciò presuppone che la valutazione del giudice debba avvenire “in concreto”, tenendo conto dei comportamenti posti in essere nel commettere l’illecito, per cui sarebbero “tendenzialmente” illegittime le sanzioni rigide, vale a dire, quelle che sono applicate prescindendo da una verifica di adeguatezza al caso concreto e dalla valutazione sulla gradualità applicativa.
12.6. Né può ritenersi legittimo prescindere da tale giudizio nell’ipotesi di una gravità quoad poenam predeterminata dal legislatore.
Una valutazione in termini di irragionevolezza non può, perciò, che essere svolta con riguardo alla disposizione qui in esame, in relazione alla quale l’eterogeneità delle condotte non consente di individuare l’idoneità della sanzione a raggiungere lo scopo di preservare la fiducia dei consociati nell’indipendenza e nell’imparzialità del sistema giudiziario, l’inefficacia di misure meno afflittive a raggiungere il medesimo obiettivo oltre che l’insussistenza di una lesione globale dei diritti del magistrato.
È innanzitutto evidente che non può ritenersi che sussista una limitazione di uno solo degli aspetti della sua vita professionale, residuando la possibilità di intraprendere altra professione diversa dalla funzione giurisdizionale. Una affermazione siffatta, oltre a non confrontarsi con la situazione di chi, come il ricorrente, per ragioni di età ed anche per il pregiudizio costituito da una intervenuta rimozione, si veda con ragionevole probabilità preclusa la possibilità di intraprendere altra professione, non dà conto delle ragioni per cui la scelta legislativa debba essere considerata adeguata.
12.7. Piuttosto, occorre chiedersi se il legislatore, adottando la norma predetta, abbia perseguito uno scopo legittimo alla luce dei principi costituzionali, essendo necessario verificare, con riguardo al rapporto tra mezzi utilizzati e fini perseguiti, che tra i due vi sia una connessione razionale, diversamente risolvendosi la scelta legislativa in una sorta di eterogenesi dei fini, ed inoltre accertare la stretta necessità della disposizione normativa, così come formulata, vale a dire che questa rappresenti, allo stesso tempo, la soluzione migliore per conseguire il fine perseguito con il minor sacrificio possibile degli altri diritti costituzionali; infine verificare la proporzionalità in senso proprio, che implica un esame sugli effetti dell’atto legislativo, soppesando i benefici che derivano dal conseguimento dell’obiettivo con i sacrifici imposti agli altri diritti in gioco su un piano concreto.
Non va sottaciuto che il ruolo del giudice (e così del giudice disciplinare) si sostanzia nell’attività di sussunzione del fatto concreto alla fattispecie astratta e ciò implica una valutazione di proporzionalità tra il dato oggettivo e il contenuto della decisione. Per tale ragione la valutazione sulla proporzionalità è intrinseca all’atto applicativo: l’adeguamento al caso concreto non è dunque un elemento eventuale, ma ontologicamente necessario perché l’interprete- decisore possa svolgere realmente la sua funzione.
12.8. Il rispetto del principio di proporzionalità, in concreto, implicherebbe sempre la necessità che il giudice sia messo nelle condizioni di far emergere gli aspetti materiali del fatto, le sue circostanze, facendo in modo che dette peculiarità si riflettano sulla commisurazione della sanzione, che sarà “giusta” solo ove adeguata al fatto, tenuto conto di tutta una serie di elementi che devono essere oggetto di valutazione da parte del giudice. Se tale aspetto viene messo in secondo piano, rispetto a quello della proporzionalità “in astratto” della sanzione, è verosimile ritenere che, allo stesso tempo, il giudice disciplinare sia privato di una propria facoltà di apprezzamento del fatto e il cittadino (magistrato) del diritto a vedersi irrogata una sanzione il più possibile giusta, in violazione delle prerogative di cui all’art. 105 Cost.
Non può essere così aprioristicamente negletto l’ambito di discrezionalità di cui il soggetto chiamato a giudicare deve godere nell’applicazione della norma e la proporzionalità trova realizzazione soltanto ove connessa al ruolo di concretizzazione del diritto affidato al giudicante. L’attività di concretizzazione è compiuta dal legislatore ma è il giudice, e così l’Organo di governo autonomo della magistratura, che deve svolgere quella essenziale funzione di mediazione-adeguamento del diritto astratto ai fatti concreti, attività che implica necessariamente un giudizio secondo il criterio di proporzionalità.
12.9. Ed allora l’automatismo previsto pone fondati dubbi di legittimità costituzionale non solo perché, da un punto di vista astratto, contrario al principio di eguaglianza difettando di un adeguato bilanciamento, quoad factum, da parte del legislatore, ma perché irragionevole anche nella misura in cui, da un punto di vista concreto, preclude al giudice di collegare la sanzione alla gravità dell’illecito, desumibile dalla condotta, dalla misura della pena o dal bene protetto.
È vero che il fine perseguito dalla disposizione è quello di garantire il buon andamento dell’amministrazione della giustizia ma non può essere da questo disgiunto (ed escluso) il controllo di proporzionalità in concreto del giudice, unico soggetto in grado di adeguare il dato normativo della fattispecie alla variabilità dei casi della vita reale.
12.10. Senza dire che l’automatismo della rimozione quoad poenam di cui all’art. 12, comma 5, per l’ipotesi qui in rilievo, introduce nella sostanza una interdizione dai pubblici uffici ulteriore rispetto a quella specificamente ipotizzata (quoad delicta) dal legislatore penale, il che, anche sotto tale profilo, determina un vulnus quanto alla previa individuazione delle conseguenze derivanti dalla commissione di un determinato reato.
Ed allora, se è pur vero che, per quanto sopra evidenziato, le sanzioni disciplinari non possono essere equiparate alle sanzioni penali, tuttavia, specie quando queste siano di particolare rilevanza (si pensi alla incidenza della rimozione sulla vita professionale del magistrato, e ciò in modo irreversibile, oltre che, inevitabilmente, sulla sua vita privata), non può prescindersi dalla garanzia di proporzionalità demandata all’Organo di governo autonomo.
Ai fini della conformità a Costituzione della norma qui in esame, va rilevato che essa introduce una presunzione assoluta di incompatibilità con il rapporto di servizio in ragione della intervenuta condanna penale. Come osservato dalla Corte cost. nella sentenza n. 268 del 2016, “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”, con la conseguenza che “l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa” (ex multis, sentenze n. 185 del 2015, n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010).
Ed è proprio questa la situazione della disposizione in esame, in cui l’estrema variabilità delle ipotesi riconducibili all’art. 12, comma 5, nella parte che qui rileva, e la sottrazione all’Organo di governo autonomo della possibilità di graduare la sanzione da applicare per l’offensività della condotta in rapporto agli interessi generali protetti dal legislatore disciplinare, ne determina una intrinseca irragionevolezza oltre che una contrarietà con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.
Come posto in rilievo dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 170 del 2015, “la giurisprudenza di questa Corte è da tempo costante nell’affermare come il ‘principio di proporzione’, fondamento della razionalità che domina ‘il principio di eguaglianza’, postuli l’adeguatezza della sanzione al caso concreto; e come tale adeguatezza non possa essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito, valutazione che soltanto il procedimento disciplinare consente (sentenze n. 447 del 1995, n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 40 del 1990 e n. 971 del 1988)”.
12.11. Ferma restando, dunque, la discrezionalità del legislatore di prevedere attraverso il criterio della species poenae una categoria di comportamenti sicuramente gravi, tuttavia non può essere esclusa aprioristicamente l’indispensabile gradualità applicativa in un rapporto di adeguatezza con il caso concreto, nell’ambito del naturale contesto del procedimento disciplinare.
La rimozione quale sanzione conseguente a condanna in sede penale può essere considerata, allora, legittima solo ove risulti comunque conservato in capo all’Organo disciplinare il potere-dovere della valutazione discrezionale in ordine alla proporzionale graduazione della misura da applicare al caso concreto.
12.12. Il suddetto controllo va effettuato anche in rapporto all’interesse dell’Amministrazione di privarsi di un magistrato a fronte di una condotta che, grave dal punto di vista della reazione punitiva statuale, potrebbe non esserlo se valutata in termini di offensività del fatto, con riferimento sia alla lesione dell’interesse specifico tutelato dall’illecito disciplinare, sia alla compromissione dell’immagine del magistrato e del prestigio di cui deve godere nell’esercizio dell’attività giurisdizionale.
Così, l’automatismo previsto dalla norma qui in esame si risolve anche nella violazione dell’art. 97 Cost., realizzando lo stesso una eterogenesi dei fini cui la disposizione costituzionale è preordinata.
12.13. Peraltro, in caso di condanna a pena non sospesa non inferiore ad un anno, le pene alternative previste dall’ordinamento penitenziario potrebbero in concreto escludere la detenzione; egualmente, in caso di condanna inferiore ai tre anni, la pena detentiva inflitta potrebbe essere espiata in regime di libertà assistita o controllata attraverso l’affidamento in prova. Ciò porta a ritenere che, nel complesso, la previsione legislativa non sia stata dettata in riferimento ad una ipotesi di preclusione oggettiva della prosecuzione del rapporto ma ad una preventiva valutazione di incompatibilità con l’ulteriore esercizio delle funzioni, effettuata in astratto dal legislatore e vincolante per il giudice disciplinare.
Questo, evidentemente, non toglie che, nelle ipotesi riconducibili alla previsione di cui all’art. 12, comma 5, nella parte qui di interesse, anche dopo la valutazione delle fattispecie concrete, la rimozione possa essere la sanzione appropriata: ma solo il giudice disciplinare può adeguare la sanzione alla gravità del fatto, solo la gravità degli effetti sul bene tutelato dalla norma può far ritenere integrato l’illecito disciplinare comportante la sanzione massima espulsiva.
12.14. I magistrati sono senz’altro tenuti - più di ogni altra categoria di funzionari pubblici - non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, secondo quanto prescritto dall’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni, essendo la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto.
Questo, però, non può giustificare la sottrazione del sistema disciplinare sanzionatorio ai principi in materia di proporzionalità e graduazione in riferimento al caso concreto.
13. Da ultimo si evidenzia che non è possibile una interpretazione della norma qui in esame in senso conforme a Costituzione.
La diposizione, infatti, è perentoria («Si applica la sanzione della rimozione […]») e non contiene alcun elemento per escludere, in via di interpretazione, che l’effetto della rimozione si produca automaticamente.
Preme osservare, peraltro, che la sentenza della Corte cost. n. 197 del 2018, sopra più volte ricordata, non ha dato indicazioni nel senso della possibilità di una interpretazione dell’art. 12, comma 5, che, andando oltre il previsto automatismo, consenta di ravvisare la facoltà di una valutazione, in concreto, della gravità della condotta ai fini della proporzionalità della sanzione.
14. Conclusivamente, essendo non percorribile la strada di una interpretazione della disposizione conforme a Costituzione, ritiene il Collegio che l’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, disponendo che si applica la sanzione della rimozione al magistrato che «incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice», ponga seri dubbi di costituzionalità nella parte in cui non prevede che sia comunque rimessa all’Organo di governo autonomo la valutazione concreta della offensività della condotta al fine di una eventuale graduazione della misura sanzionatoria, per violazione degli artt. 3,
97 e 105 della Costituzione, nonché per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, quest’ultimo in riferimento all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
P.Q.M.
La Corte, visti gli artt. 134 Cost. e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 97 e 105 della Costituzione, nonché in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, nella parte in cui dispone che si applica la sanzione della rimozione al magistrato che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso codice, senza prevedere che sia comunque rimessa all’Organo di governo autonomo la valutazione concreta della offensività della condotta al fine di una eventuale graduazione della misura sanzionatoria.
Sospende il presente giudizio.
Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti del giudizio di cassazione, al Pubblico Ministero presso questa Corte e al Presidente del Consiglio dei ministri; ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata dal cancelliere ai Presidenti delle due Camere del Parlamento; dispone l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte costituzionale.