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28 settembre 2023
Penale e processo
Il reato di inquinamento ambientale non richiede la prova della contaminazione del sito
Il reato di inquinamento ambientale è caratterizzato da un duplice evento: “compromissione” o “deterioramento” delle matrici ambientali (acqua, aria, suolo, sottosuolo), di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna. La prima, intesa come “squilibrio funzionale”, incidente sui normali processi naturali correlati alla specifica matrice, il secondo come “squilibrio strutturale”, connotato da un decadimento di stati o di qualità dei citati elementi. Pur dovendo trattarsi di uno squilibrio “significativo” e “misurabile”, l'assenza di espliciti riferimenti a limiti o a specifiche metodiche di analisi esclude l'esistenza di un vincolo assoluto per l'interprete correlato a parametri imposti dalla disciplina di settore. Sicché, ai fini della sussistenza del reato ex art. 452-bis c.p. non occorre accertare la contaminazione del sito ex art. 240, lett. e), D.Lgs. 152/2006.
di Dott. ssa e consulente compliance aziendale - 231 Tiziana Satta Mazzone
Il caso

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La Suprema Corte è tornata ad occuparsi dei reati ambientali, compiendo un'articolata indagine sugli elementi costitutivi di alcune delle fattispecie di più frequente realizzazione, contribuendo, in tal modo, alla definizione dei numerosi concetti vaghi o generici utilizzati dal Legislatore nella costruzione di tali norme incriminatrici. 
Lo spunto è stato offerto da una vicenda processuale che ha coinvolto due soggetti, il primo imputato del reato contravvenzionaleex art. 256, co. 3 D. Lgs. n. 152/2006, per aver realizzato e gestito una discarica abusiva in Pisticci; il secondo, imputato del delitto ex art. 452-quinquies c.p. per avere, nella sua qualità di dirigente del settore Ambiente ed Ecologia, cagionato l'inquinamento colposo delle acque superficiali site in Pisticci, in adiacenza alla dismessa discarica comunale, per effetto del rilascio di percolato di discarica.
L'affermazione della responsabilità di entrambi gli imputati, riconosciuta sia in primo che in secondo grado di giudizio, ha quindi indotto gli stessi a proporre due distinti ed articolati ricorsi per cassazione, volti a censurare, sotto innumerevoli profili, il giudizio di colpevolezza espresso. 
La Terza sezione, investita del ricorso, dopo aver constatato la sussistenza nel caso di specie di una “doppia conforme” alla luce dei parametri dei a) richiami continui operati dalla sentenza di appello a quella di primo grado e b) dell'adozione dei medesimi criteri di valutazione delle prove da parte di entrambe le sentenze, ha evidenziato la necessità di confrontare le doglianze difensive con ambedue le sentenze.

Il diritto

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I Giudici di legittimità, partendo dal primo dei ricorsi, hanno compiuto un'attenta analisi del reato di discarica abusiva ex art. 256, co. 3, D. Lgs. n. 152/2006, ritenendo complessivamente infondato il ricorso presentato dal prevenuto.

La Corte, rispondendo alla censura difensiva secondo cui il reato si configurerebbe solo in presenza di una condotta attiva, richiamando la giurisprudenza prevalente in tema di realizzazione del reato di gestione abusiva di una discarica mediante una condotta “omissiva impropria”, ha chiarito che «il concetto di gestione di una discarica abusiva.. deve essere inteso in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo, sia attivo che passivo, diretto a realizzare o anche semplicemente a tollerare e mantenere il grave stato del fatto-reato, strutturalmente permanente. Di conseguenza, devono ritenersi sanzionate non solo le condotte di iniziale trasformazione di un sito a luogo adibito a discarica, ma anche tutte quelle che contribuiscono a mantenere tali, nel corso del tempo, le condizioni del sito stesso» (Cass., n. 163/1994).
Ne discende la configurabilità del reato anche nella forma omissiva impropria. In simili casi, esso presuppone una posizione di garanzia in capo all'autore del reato, posizione che, oltre che dalla legge, può discendere anche da un contratto, come avvenuto nel caso di specie in cui l'imputato, titolare della società incaricata della rimozione dei rifiuti sul suolo pubblico, risultava investito di tale posizione dallo stesso capitolato d'appalto. Si aggiunga che in caso di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia, oltre a potere essere generata da un'investitura formale, può scaturire persino da un comportamento concludente dell'agente, consistente anche nella mera presa in carico del bene (Cass., n. 28316/2020).
Passando ad occuparsi della nozione di “rifiuto”, i Giudici di legittimità hanno preliminarmente richiamato la definizione di rifiuti di cui all'art. 183 del citato D. Lgs. n. 152 secondo cui sono tali 
«le sostanze o gli oggetti che derivano da attività umane o da cicli naturali, di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». Si tratta, secondo la dottrina, di una nozione “funzionale”, essendo rifiuto tutto ciò di cui il detentore si sia disfatto, intenda farlo o sia obbligato a farlo. L'espressione “disfarsi”, inoltre, come evidenziato dalla CGUE, va interpretata alla luce dell'obiettivo della Direttiva 2008/98 e, dunque, in modo ampio e non restrittivo, sì da non pregiudicare gli obiettivi di riduzione dei rifiuti e del loro impatto sulla salute e sull'ambiente. 
Occorre, infine, privilegiare una nozione “oggettiva” del termine rifiuto a discapito di quella soggettiva, nel senso che la 
«la qualifica di rifiuto (art. 183 del D.lgs. 152/2006) deve essere dedotta da dati obiettivi, non dalla scelta personale del detentore che decide che quel bene non gli è più di nessuna utilità. Sono elementi obiettivi, ad esempio, l'oggettività dei materiali in questione, la loro eterogeneità, non rispondente a ragionevoli criteri merceologici, e le condizioni in cui gli stessi sono detenuti, così come le circostanze e le modalità con le quali l'originario produttore se ne era disfatto. Non rileva, poi, il fatto che un bene sia ancora cedibile a titolo oneroso, poiché tale evenienza non esclude comunque la natura di rifiuto» (Cass., n. 3299/2017).

Ed ancora, rispondendo alla censura relativa al difetto di “definitività” dell'abbandono, con conseguente necessità di riqualificare i fatti contestati nell'illecito di abbandono incontrollato di rifiuti, i Giudici di legittimità hanno colto l'occasione per chiarire i criteri distintivi tra il reato di discarica abusiva e abbandono incontrollato di rifiuti.
Un primo criterio differenziale è costituito dalla “occasionalità” dell'abbandono, contrapposta alla “abitualità” della discarica abusiva. La discarica, inoltre, a differenza dell'abbandono, si caratterizza per la presenza di una struttura organizzativa nella gestione dei rifiuti. Altri elementi vanno individuati, poi, nella “quantità” dei rifiuti depositati e nello “spazio” occupato dai rifiuti stessi nonché nella “natura eterogenea” dei rifiuti. Pertanto, il carattere “definitivo” dell'abbandono non costituisce un requisito a sé, bensì un dato di sintesi dei predetti “indici di discarica” da valutare in concreto tenendo conto della quantità di rifiuti, dello spazio occupato, della natura organizzativa dell'attività e della continuità della condotta. 
Quanto, infine, al dies a quo del termine di prescrizione del reato, «la permanenza del reato previsto per la gestione abusiva o irregolare della fase post-operativa di una discarica, cessa o con il venir meno della situazione antigiuridica per rilascio dell'autorizzazione amministrativa, o con la rimozione dei rifiuti o la bonifica dell'area o con il sequestro che sottrae al gestore la disponibilità dell'area, o, infine, con la pronuncia della sentenza di primo grado».
Passando ad occuparsi delle censure proposte dal soggetto imputato del reato di inquinamento ambientale, la Corte, reputando il ricorso parzialmente fondato, ha dichiarato l'annullamento della sentenza, rinviando per un nuovo esame sul punto alla Corte di appello territorialmente competente.
In particolare, i Giudici di legittimità sono tornati ad occuparsi dell'evento che caratterizza il delitto di inquinamento ambientale, ribadendo che esso presenta un duplice evento consistente o nella “compromissione” o nel “deterioramento” delle matrici ambientali (acqua, aria, suolo, sottosuolo), di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna. La prima intesa come squilibrio che attiene alla relazione del bene aggredito con l'uomo e ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare (c.d. “squilibrio funzionale”, incidente sui normali processi naturali correlati alla specifica matrice ambientale o dell'ecosistema), il secondo consistente  in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne, in modo apprezzabile, il valore o da impedirne anche parzialmente l'uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole (c.d. “squilibrio strutturale”, connotato da un decadimento di stati o di qualità dei citati elementi). Pur dovendo trattarsi di uno squilibrio “significativo” e “misurabile”, l'assenza di espliciti riferimenti a limiti o a specifiche metodiche di analisi esclude l'esistenza di un vincolo assoluto per l'interprete correlato a parametri imposti dalla disciplina di settore. Sicché, ai fini della sussistenza del reato ex art. 452-bis c.p. non occorre accertare la contaminazione del sito ai sensi dell'art. 240, lett. e), D. Lgs. n. 152 del 2006, né occorre fare riferimento, quale parametro della “significatività” del danno, alle CSC (concentrazioni soglia di contaminazione) o CRS (concentrazione soglia di rischio). Tali parametri costituiscono un utile riferimento dal quale trarre un elemento concreto di giudizio circa il fatto che la compromissione o il deterioramento siano effettivamente significativi. In altri termini, non conta solo “se” siano state superate le CSC (che sono parametri astratti fissati dal legislatore come red flags di una probabile contaminazione) o le CSR (che sono parametri sito-specifici), ma occorre anche valutare “di quanto” sono state superate, con riferimento a “quanti” parametri e “per quanto tempo”.
Ne consegue che in presenza di una significativa contaminazione del sito, pur risultando indubbia la “misurabilità” del dato, lo stesso non può dirsi né in ordine alla “significatività” di tale dato, né in relazione agli effetti della condotta in termini di “compromissione” o “deterioramento” della matrice ambientale, ossia dell'evento del reato.

Quanto, infine, al tempus commissi delicti, normalmente il delitto ha natura di reato istantaneo a effetti permanenti, quando l'evento è correlato a condotte unisussistenti; esso, tuttavia, può anche configurarsi come reato abituale o permanente, con le conseguenze che ne derivano in punto di prescrizione del reato.
Nel caso in cui il delitto sia contestato in forma colposa ex art. 452-quinquies c.p. e nell'ipotesi in cui il reato sia commesso in forma omissiva, è necessario che il soggetto chiamato a risponderne sia titolare di una posizione di garanzia individuata dalla legge o dal regolamento, o dal contratto, o da provvedimenti amministrativi. Occorre, quindi, verificare in concreto quali siano gli obblighi incombenti sul titolare della posizione di garanzia, accertando se egli abbia o meno adempiuto le specifiche norme precauzionali in materia.

La lente dell'autore

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L'odierna pronuncia appare particolarmente pregevole sotto il profilo sistematico poiché offre un fondamentale contributo nella individuazione del significato di alcuni concetti vaghi e generici e di clausole generali contenuti nei “nuovi” delitti contro l'ambiente di cui al Titolo VI-bis del Libro secondo del Codice penale, recante specifiche disposizioni incriminatrici volte a rafforzare la tutela dell'ambiente. Come noto, infatti, la presenza di tali elementi “elastici” all'interno delle suddette fattispecie ha indotto una parte deli Commentatori a dubitare della compatibilità costituzionale di tali fattispecie, in quanto prive dei connotati di determinatezza e precisione che devono, invece, necessariamente caratterizzare una norma penale. 
La sentenza della Suprema Corte si pone, invero, nel solco di quel consolidato orientamento della Corte costituzionale secondo cui l'utilizzo di clausole generali all'interno delle norme incriminatrici non è idoneo ex se a vulnerare il principio costituzionale di precisione purché l'interprete, oltre a tener conto della ratio della norma e del contesto i cui essa si colloca, stabilisca un significato di tali elementi controllabile in concreto e prevedibile per il destinatario. 
Di qui il riferimento della sentenza in commento anche alla valutazione del superamento dei parametri CSC (concentrazioni soglia di contaminazione) e CRS (concentrazione soglia di rischio) chiarendo come, tuttavia, essi costituiscano un utile riferimento dal quale trarre un elemento concreto di giudizio circa il fatto che la compromissione o il deterioramento siano effettivamente significativi e non un indice dal quale dedurre automaticamente l'evento del delitto.
Secondo la Suprema Corte, infatti, non conta solo “se” siano state superate le CSC (che sono parametri astratti fissati dal legislatore come red flags di una probabile contaminazione) o le CSR (che sono parametri sito-specifici), ma occorre anche valutare “di quanto” esse siano state superate, con riferimento a “quanti” parametri e “per quanto tempo”, elementi che, alla stregua delle indicazioni del Giudice delle leggi, oltre ad essere empiricamente misurabili, garantiscono al destinatario della norma la prevedibilità delle conseguenze scaturenti dalla eventuale violazione della norma incriminatrice.