
Inoltre, il CNF evidenzia che il patto di quota lite non può derogare al divieto deontologico di richiedere compensi manifestamente sproporzionati.
A seguito di un esposto presentato al COA Treviso, veniva deliberata l'apertura di un procedimento disciplinare a carico dell'avvocato. La condotta addebitata a quest'ultimo consisteva nell'aver sottoposto all'esponente un patto sulla definizione del compenso per l'attività svolta in relazione a un giudizio teso ad ottenere il risarcimento del danno per via di un sinistro stradale dall'esito fatale che contemplava il riconoscimento degli onorari come liquidati dall'assicurazione oltre ad una percentuale del10%su quanto sarebbe stato liquidato per il risarcimento del danno parentale, percentuale che era stata poi in seguito pretesa a mezzo diffida. In sostanza, dopo aver ricevuto dall'assicurazione del responsabile un importo pari a circa 16mila euro, l'avvocato aveva preteso un'ulteriore somma che, unita a quella già percepita, risultava eccessiva rispetto alla non complessità e alla durata dell'attività effettivamente svolta.
Per queste ragioni, all'esito di istruttoria, il CDD aveva ritenuto provato l'accordo contenente il patto di quota lite e sproporzionato il compenso richiesto dall'avvocato, dunque infliggeva a quest'ultimo la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della professione forense per due mesi.
Contro tale decisione, l'avvocato propone ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense.
Con la sentenza n. 206 del 9 novembre 2022, il CNF rigetta il ricorso.
Nello specifico, l'avvocato lamentava il fatto che l'accordo con il cliente non aveva costituito un patto di quota lite poiché riferito al denaro, bene generico e fungibile, visto che la normativa vigente ritiene legittimo, anche deontologicamente parlando, un accordo di tipo economico sul compenso.
Tuttavia, il CNF non è dello stesso avviso, ricordando che la normativa vigente prevede che sono vietati i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa, anche se è valida la pattuizione con la quale si determini il compenso a misura percentuale sul valore dell'affare. La differenza sta, infatti, in ciò: un conto è la percentuale rapportata al valore dei beni o agli interessi litigiosi, che è valida, un altro conto è la percentuale rapportata al risultato, che invece non è valida. Come ricorda il CNF
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«ciò che è vietato è pattuire il compenso che sia una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa che nel caso del risarcimento del danno è, di norma, l'equivalente in denaro cosicché, come nella fattispecie, la ragione litigiosa è il denaro e il compenso pari ad una percentuale del denaro è una quota della lite». |
Quanto alla sproporzionalità del compenso, invece, il CNF ricorda che l'eventuale liceità civilistica dell'accordo non esclude la sindacabilità dello stesso sul piano deontologico sul versante della sua adeguatezza e proporzionalità all'attività svolta, dovendo in tal senso considerare solo ciò che viene richiesto al cliente e non anche quanto percepito dall'assicurazione.
Ebbene, nel caso concreto il CDD ha ritenuto che il compenso richiesto dal ricorrente fosse pari a 6 volte quello dei parametri, evidentemente sproporzionato quindi e irrispettoso dei principi cardine che regolano i rapporti tra cliente ed avvocato in tema di compenso:
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Da ciò consegue che l'eventuale patto di quota lite non può derogare al divieto deontologico di chiedere compensi manifestamente sproporzionati.
Alla luce di quanto esposto, il CNF non può che confermare la sanzione disciplinare inflitta al ricorrente.