Questi i temi oggetto di referendum su cui la Corte Costituzionale si è espressa con le sentenze depositate il 2 marzo 2022.
Il 2 marzo 2022 la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito a tre distinti referendum, quali la responsabilità civile dei magistrati, l'omicidio del consenziente e le sostanze stupefacenti.
- Responsabilità civile dei magistrati:
Con la sentenza n. 49 del 2 marzo 2022, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'inammissibilità del referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati, con cui 9 Consigli regionali proponevano l'abrogazione di diverse disposizioni della
Mediante la tecnica del ritaglio abrogativo, l'intento del quesito referendario era quello di ricavare dalla normativa di risulta un'autonoma azione risarcitoria nei confronti del magistrato, al fine di consentire al soggetto danneggiato di chiamarlo direttamente in giudizio. Infatti, le norme vigenti indirizzano l'azione risarcitoria nei confronti dello Stato e, solo all'esito di un'eventuale soccombenza, quest'ultimo può rivalersi sul magistrato.
La Consulta ha dichiarato l'inammissibilità di tale referendum «per il suo carattere manipolativo e creativo, non ammesso dalla costante giurisprudenza costituzionale: esso, infatti, attraverso l'abrogazione parziale della legislazione vigente, avrebbe introdotto una disciplina giuridica nuova, non voluta dal legislatore, e perciò frutto di una manipolazione non consentita».
Il quesito è stato inoltre dichiarato inammissibile per mancanza di chiarezza, in quanto la normativa di risulta non avrebbe consentito di configurare i termini e le condizioni di procedibilità di un'autonoma azione risarcitoria esperibile direttamente verso il magistrato.
- Omicidio del consenziente:
Con il comunicato stampa del 15 febbraio 2022, la Corte Costituzionale aveva fatto sapere di aver dichiarato inammissibile la richiesta di referendum sull'abrogazione parziale dell'
In data odierna è stata depositata la sentenza n. 50 in cui vengono spiegate le motivazioni di tale decisione. In primo luogo, l'abrogazione di frammenti lessicali dell'
Prosegue la Corte precisando che l'incriminazione dell'omicidio del consenziente ha lo scopo di proteggere il diritto alla vita, soprattutto delle persone più vulnerabili di fronte a scelte estreme, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza.
Quando viene in rilievo il bene “apicale” della vita umana, ha spiegato la Corte, «la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima». Pertanto, una normativa come quella dell'
- Sostanze stupefacenti:
Con la sentenza n. 51, la Consulta ha dichiarato l'inammissibilità del requisito referendario sull'«abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope» perché in contrasto con le Convenzioni internazionali e la disciplina europea in materia.
Nello specifico, la richiesta di eliminare la parola “coltiva” dall'art. 73, c. 1, Testo unico sugli stupefacenti, si poneva in contrasto con gli obblighi internazionali poiché avrebbe determinato il venir meno della rilevanza penale anche della coltivazione delle piante da cui si estraggono le droghe pesanti. Inoltre, la Consulta ha osservato che il risultato perseguito dal referendum non sarebbe stato raggiunto, poichè sarebbero rimaste nell'ordinamento altre norme, non toccate dalla richiesta referendaria, che sanzionano la coltivazione di cannabis.
Corte Costituzionale, sentenza (ud. 16 febbraio 2022) 2 marzo 2022, n. 49
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 29 novembre 2021, depositata il 1° dicembre 2021, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo, promossa dai Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, sul seguente quesito:
«Volete voi che sia abrogata la Legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati) nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 2, comma 1, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 4, comma 2, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 6, comma 1 limitatamente alle parole “non può essere chiamato in causa ma”; art. 16, comma 4, limitatamente alle parole “in sede di rivalsa,”; art. 16, comma 5, limitatamente alle parole “di rivalsa ai sensi dell’art. 8”»?
1.1.– L’Ufficio centrale ha attribuito la seguente denominazione al quesito: «Responsabilità civile diretta dei magistrati: abrogazione di norme processuali in tema di responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie», a seguito della richiesta di integrazione, da parte delle Regioni interessate, delle parole «Responsabilità civile diretta dei magistrati» all’originario titolo proposto («Abrogazione di norme processuali in tema di responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie»).
1.2.– Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, il Presidente di questa Corte ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.
2.– Le Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, con memoria depositata l’11 febbraio 2022, chiedono che il quesito referendario sia dichiarato ammissibile.
2.1.– Le Regioni promotrici, per mezzo dei loro delegati regionali, ritengono, in particolare, che l’oggetto del quesito non ricada in alcuno dei limiti previsti dall’art. 75 della Costituzione, né su leggi ad esso collegate, né tantomeno che la materia su cui verte il referendum rientri nella categoria delle cosiddette leggi a contenuto costituzionalmente vincolato. A tal proposito, la memoria richiama la giurisprudenza di questa Corte che, in tema di responsabilità civile dei magistrati, ha riconosciuto al legislatore la possibilità di «[s]celte plurime, anche se non illimitate» e una «valutazione discrezionale» (vengono citate le sentenze n. 26 del 1987 e n. 38 del 2000), sia pure temperando le contrapposte esigenze che vedono coinvolti, da un lato, il soggetto ingiustamente danneggiato legittimato a ottenere ristoro per il pregiudizio subito e, dall’altro, l’indipendenza della magistratura. Considerazioni queste, che – a parere dei delegati regionali – escludono che in subiecta materia vi sia la presenza di una disciplina costituzionalmente vincolata.
2.2.– Quanto alla formulazione del quesito, quest’ultimo soddisferebbe i requisiti della chiarezza, della coerenza e dell’omogeneità, essendo evidente sia il fine intrinseco dell’atto abrogativo, sia la matrice razionalmente unitaria da ricondurre all’abrogazione della norma speciale che limita allo Stato la legittimazione passiva nel giudizio di responsabilità civile del magistrato. Secondo i delegati regionali, infatti, l’attuale formulazione del quesito si differenzierebbe dai precedenti casi in cui questa Corte si è espressa (vengono citate le sentenze n. 34 del 1997 e n. 38 del 2000), dal momento che, allora, l’abrogazione proposta dell’espressione «contro lo Stato» determinava una mancanza di chiarezza del quesito a causa della particolare tecnica del ritaglio utilizzata. Al contrario, nel caso in esame, essa è inserita in un diverso ritaglio normativo e lascia inalterata la restante disciplina, evidenziando un chiaro intento teleologico. Nel dettaglio, la memoria asserisce che la responsabilità civile dei magistrati, per come strutturata, non forma un sistema normativo autonomo e alternativo a quello ordinario (valevole per gli impiegativi civili dello Stato), ma un corpus normativo speciale che si innesta sulla comune base costituita dalle norme generali in materia, a partire dall’art. 28 Cost. e dal d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico concernente lo statuto degli impiegati civili dello Stato), in cui si stabilisce il principio di responsabilità generale e diretta dei funzionari pubblici, e che, rispetto a quella base, si pone in rapporto di specialità.
Da questa constatazione le Regioni promotrici sostengono che, là dove vengano meno altri elementi «inquinanti» legati ad una diversa formulazione dei quesiti in passato dichiarati inammissibili, l’eliminazione dell’espressione «contro lo Stato» possa sprigionare un autonomo contenuto normativo, facendo riespandere la disciplina generale che prevede la coesistenza della disciplina dello Stato e quella diretta del magistrato, discendente proprio dai citati art. 28 Cost. e d.P.R. n. 3 del 1957. Si profilerebbe, così, una naturale espansione delle norme regolanti l’azione di responsabilità nei confronti degli illeciti dei pubblici impiegati, eliminando la «deroga» soggettiva che l’espressione «contro lo Stato» ad oggi delinea. Ad avviso dei delegati regionali, poi, l’art. 13 della legge n. 117 del 1988, nella parte in cui prevede la responsabilità diretta del magistrato nel solo caso di commissione di un illecito penale, non è dirimente ai fini di una dichiarazione di inammissibilità, in quanto la ridondanza che questa disposizione verrebbe ad assumere nel nuovo sistema normativo, delineato dall’abrogazione referendaria, rappresenterebbe un mero «inconveniente», assumendo un diverso significato nel nuovo contesto, ad ogni modo non rilevabile in sede di giudizio di ammissibilità del referendum.
2.3.– Coerente, infine, sarebbe anche la logica abrogativa delle altre disposizioni interessate dal quesito. Quanto alla possibile eccezione secondo cui con la responsabilità diretta verrebbe meno la «serenità» del giudice, i delegati regionali affermano che essa è da ricondurre, al più, all’ambito della valutazione della legittimità costituzionale della normativa di risulta, non rientrante nel giudizio di ammissibilità. Quanto, invece, all’abrogazione che interessa gli artt. 6, comma 1, e 16, commi 4 e 5, essi sarebbero diretta esplicazione della preminenza della responsabilità diretta dello Stato nell’attuale sistema e la loro abrogazione rappresenterebbe un corollario dell’esigenza di omogeneità e chiarezza del quesito proposto. In particolare, relativamente alla formulazione dell’art. 6, comma 1, l’abrogazione dell’espressione «non può essere chiamato in causa ma» sarebbe una naturale conseguenza del venir meno della possibilità solo per lo Stato di essere convenuto in giudizio e a nulla rileverebbe che residui una disposizione che permette al magistrato di intervenire, ai sensi dell’art. 105 del codice di procedura civile (quest’ultimo sarebbe eventualmente un problema ermeneutico risolvibile sulla base delle norme processualistiche). Anche le abrogazioni proposte nell’art. 16, commi 4 e 5, relativi alla responsabilità dei componenti degli organi giudiziari collegiali, sarebbero conformi al fine referendario, permettendo l’espansione dei principi sull’imputazione della responsabilità ai membri di un collegio a tutte le ipotesi oggetto di giudizio di ammissibilità.
3.– La Regione autonoma della Sardegna, in persona del suo Presidente, è intervenuta nel presente giudizio, con memoria depositata l’11 febbraio 2022, a sostegno dell’ammissibilità della richiesta del referendum abrogativo. La Regione interveniente ha svolto argomentazioni del tutto sovrapponibili a quelle esposte dai delegati regionali.
Motivi della decisione
1.– La richiesta di referendum abrogativo, su cui questa Corte deve pronunciarsi in base all’art. 75, secondo comma, della Costituzione, riguarda la legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo modificato dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati).
Si tratta della normativa che disciplina il regime di responsabilità civile dei magistrati, per danni arrecati nell’esercizio delle funzioni loro demandate.
1.1.– I delegati dei Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, promotori della richiesta di referendum, hanno presentato un’unica memoria, ai sensi dell’art. 32 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo).
1.2.– In via preliminare, si deve rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte ha consentito l’illustrazione orale delle memorie depositate dai proponenti della richiesta referendaria ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), e, ancora prima, ha disposto l’ammissione degli scritti presentati da soggetti diversi da quelli indicati dalla disposizione ora richiamata e tuttavia interessati alla decisione sull’ammissibilità della richiesta di referendum, come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte (ex plurimis, sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012, n. 28, n. 27, n. 26, n. 25 e n. 24 del 2011).
Tale ammissione, che deve essere qui confermata, non si traduce però in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – e di illustrare le relative tesi in camera di consiglio, ma comporta solo la facoltà della Corte, ove lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti, come è appunto avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, prima che i soggetti di cui al citato art. 33 abbiano illustrato le rispettive posizioni.
2.– Le norme oggetto del quesito referendario sono estranee alle materie per le quali l’art. 75, secondo comma, Cost. preclude il ricorso all’istituto del referendum abrogativo.
2.1.– Occorre tuttavia verificare se il quesito rispetti gli ulteriori limiti di ammissibilità del referendum abrogativo che la giurisprudenza di questa Corte, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, ha costantemente ricavato dall’ordinamento costituzionale.
3.– Il quesito, la cui denominazione su richiesta dei soggetti promotori è stata corretta dall’Ufficio centrale per il referendum con l’aggiunta della locuzione «Responsabilità civile diretta dei magistrati», si vale della cosiddetta tecnica del ritaglio per abrogare alcune espressioni lessicali contenute negli artt. 2, comma 1, 4, comma 2, 6, comma 1, e 16, commi 4 e 5, della legge n. 117 del 1988, al fine di consentire che il magistrato possa essere citato direttamente nel giudizio civile risarcitorio da parte del danneggiato, così intendendo superare la vigente normativa che, invece, prevede forme di responsabilità del magistrato solo in sede di rivalsa da parte dello Stato, ove quest’ultimo sia stato condannato al risarcimento (mentre, in caso di reato, la responsabilità del magistrato non consegue ad un’azione intentata nei suoi confronti innanzi al giudice civile, se non per effetto di una previa condanna penale).
A rendere chiaro un quesito non può non concorrere (anche se in modo non di per sé decisivo) la denominazione della richiesta referendaria, posto che essa viene desunta dall’Ufficio centrale per il referendum sulla base del significato obiettivo che l’abrogazione produrrebbe nell’ordinamento. Il titolo, da riprodurre nella parte interna della scheda di votazione, ha infatti la finalità di identificare l’oggetto del quesito, così da renderlo comprensibile agli elettori chiamati ad esprimere un voto pienamente consapevole, irrinunciabile requisito di un atto libero e sovrano del corpo elettorale.
4.– Così individuato l’obiettivo delle Regioni promotrici, la richiesta referendaria è inammissibile.
5.– Una prima ragione di inammissibilità del quesito attiene al suo carattere manipolativo e creativo, e non meramente abrogativo.
Come è noto, l’azione diretta nei confronti del magistrato, pur preceduta dall’autorizzazione del Ministro della giustizia e confinata ad ipotesi estreme di responsabilità, era prevista dagli artt. 55, 56 e 74 del codice di procedura civile, che furono abrogati con il referendum ritenuto ammissibile con la sentenza n. 26 del 1987.
La necessità che tale azione fosse autorizzata dal Ministro della giustizia, peraltro, contribuiva a diluire fortemente la sua natura diretta, precludendo la immediata costituzione del rapporto processuale tra parte attrice e magistrato. La responsabilità, inoltre, ad ulteriore tutela della indipendenza della magistratura, era ristretta a ipotesi eccezionali, tali da bilanciare, insieme con l’autorizzazione di cui si è detto, la circostanza che il magistrato potesse essere citato da chi lamentasse un danno (e non invece dallo Stato, in sede di rivalsa).
Con la legge n. 117 del 1988 il legislatore, nel disciplinare nuovamente la materia, si era conformato alle indicazioni espresse da questa Corte con la menzionata sentenza n. 26 del 1987, affinché lo statuto costituzionale della magistratura fosse preservato con l’introduzione di «condizioni e limiti» alla responsabilità dei magistrati.
Fu così operata una scelta che costituisce a tutt’oggi uno dei tratti caratterizzanti della legislazione, peraltro largamente presente negli ordinamenti degli Stati europei, ovvero che l’azione risarcitoria debba essere indirizzata nei confronti dello Stato, e che solo all’esito di un’eventuale soccombenza quest’ultimo disponga di azione di rivalsa nei confronti del magistrato.
Così prevedendo, il legislatore non si è discostato dalla pur non vincolante raccomandazione CM/Rec (2010) del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulle garanzie di indipendenza dei giudici, il cui punto 67 prevede che «soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione innanzi ad un tribunale».
A seguito della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa, che peraltro non ha messo in discussione la natura indiretta della responsabilità civile del magistrato, il legislatore ha nuovamente posto mano alla materia. La legge n. 18 del 2015, modificativa della legge n. 117 del 1988, ha determinato, da un lato, un ulteriore ampliamento delle ipotesi di responsabilità del magistrato e, da un altro lato, ha eliminato il filtro di ammissibilità. Si è così consolidato il nuovo modello di responsabilità indiretta senza filtro di ammissibilità: il magistrato risponde, ma in sede di rivalsa, dopo cioè che nei confronti dello Stato sia stato accertato che, nell’esercizio delle sue funzioni, il primo abbia cagionato con dolo o negligenza inescusabile un danno ingiusto.
6.– L’introduzione dell’azione civile diretta nei confronti del magistrato senza alcun filtro, in conseguenza di un impiego della cosiddetta tecnica del ritaglio, volgerebbe quest’ultima dalla finalità che le è propria (ex multis, sentenze n. 16 e n. 15 del 2008, n. 34 e n. 33 del 2000, n. 13 del 1999) a quella che è invece preclusa ad un istituto meramente abrogativo, ossia alla finalità di introdurre una disciplina giuridica nuova, mai voluta dal legislatore, e perciò frutto di una manipolazione creativa.
Questa Corte ha già affermato, a tal proposito, che non è consentita, mediante il cosiddetto ritaglio in sede di referendum, «la manipolazione della struttura linguistica della disposizione, ove a seguito di essa prenda vita un assetto normativo sostanzialmente nuovo. […] In questo caso si realizzerebbe uno stravolgimento della natura e della funzione propria del referendum abrogativo» (sentenza n. 26 del 2017; nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 10 del 2020, n. 46 del 2003, n. 50 e n. 38 del 2000, e n. 36 del 1997). L’effetto abrogativo dell’istituto referendario può portare (come ha più volte portato nella storia repubblicana) anche a importanti sviluppi normativi, ma solo ove ciò derivi dalla riespansione di principi generali dell’ordinamento o di principi già contenuti nei testi sottoposti ad abrogazione parziale.
7.– Non può sostenersi, in senso diverso, che l’abrogazione mediante ritaglio di frasi, nel caso di specie, sarebbe prodromica alla «riespansione di una compiuta disciplina già contenuta in nuce nel tessuto normativo, ma compressa per effetto della applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum» (sentenza n. 26 del 2017).
In questa direzione non può infatti operare l’impianto legislativo recato dalla legge n. 117 del 1988, il cui art. 13 prevede l’azione diretta per la sola ipotesi eccezionale, e (necessariamente) derogatoria rispetto alla disciplina generale, del fatto costituente reato. In questi casi, peraltro, l’azione per la responsabilità civile del magistrato, come si è detto, è comunque preceduta dalla condanna in sede penale, o può essere fatta valere con la costituzione di parte civile, incontrando, anche in tal caso, la intermediazione del giudice penale.
8.– Non si possono trarre spunti contrari dall’art. 28 Cost., che formula il principio per il quale i funzionari dello Stato sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti, e dalla conseguente normativa generale racchiusa nel d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato).
In particolare, la sentenza di questa Corte n. 2 del 1968 ha già concluso nel senso che la disposizione costituzionale appena citata, pur concernendo anche i magistrati, ammette leggi ordinarie che disciplinino variamente la responsabilità per categorie e situazioni (alla sola condizione, si è aggiunto in seguito, che essa non sia totalmente denegata: sentenza n. 385 del 1996).
La successiva giurisprudenza costituzionale ha avuto poi modo di chiarire ulteriormente quanto postulato dalla sentenza n. 2 del 1968, specificando che una legge ordinaria, recante la disciplina ad hoc della responsabilità civile del magistrato in attuazione dell’art. 28 Cost. (che fa espresso rinvio alle «leggi penali, civili e amministrative»), è non soltanto costituzionalmente consentita, ma piuttosto costituzionalmente dovuta, al fine di preservare «i disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 103 Cost.), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni» (sentenza n. 18 del 1989; in senso conforme, sentenza n. 164 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 468 del 1990). Questo orientamento, peraltro, è stato più volte confermato da questa Corte in occasione dei giudizi di ammissibilità vertenti su iniziative referendarie analoghe all’odierna, volte ad introdurre forme di responsabilità civile diretta del magistrato (sentenze n. 38 del 2000 e n. 34 del 1997, nonché la sentenza n. 468 del 1990, relativa a taluni effetti della consultazione referendaria del 1987).
Se ne trae che la responsabilità civile del magistrato, in quanto necessariamente subordinata alla introduzione legislativa di condizioni e limiti del tutto peculiari, non si presta alla piana applicazione della normativa comune vigente in tema di responsabilità dei funzionari dello Stato; sottraendosi, in caso di abrogazione referendaria, alla potenziale riespansione dei principi ai quali tale ultima normativa si conforma (già la sentenza n. 468 del 1990 aveva sottolineato la coessenzialità di tali condizioni e limiti alla eventuale introduzione di un’azione diretta).
Per tali ragioni, con la sentenza n. 38 del 2000 questa Corte, nel dichiarare inammissibile un quesito referendario vertente anch’esso sulla legge n. 117 del 1988, ha già negato che «l’introduzione dell’azione diretta nei confronti del magistrato, accanto alla perdurante possibilità di proporre l’azione contro lo Stato, possa realizzarsi grazie a meccanismi di riespansione o autointegrazione dell’ordinamento attivati dall’eventuale abrogazione popolare».
9.– Altre ragioni di inammissibilità del quesito concernono la sua scarsa chiarezza e ambiguità, e comunque, la sua inidoneità a conseguire il fine (pur creativo, e, come si è detto, per tale motivo in sé causa di inammissibilità) di dare vita ad un’autonoma azione risarcitoria, direttamente esperibile verso il magistrato.
Come pure si è già visto, la legge n. 117 del 1988 non prevede un’azione di tale natura, della quale, perciò, la normativa di risulta non è in grado di definire forme, termini e condizioni con il tasso di determinatezza necessario a ritenere che abbia preso forma nell’ordinamento una, pur nuova, azione processuale. Perché sia obiettivamente tale, e non il frutto di una mera intenzione indeterminata e priva di contenuti, l’emersione per via abrogativa di una nuova azione in giudizio non può prescindere, infatti, da regole, anche minime, in grado di imprimerle quanto necessario ad inserirsi coerentemente nell’ordinamento processuale.
In definitiva, avendo il legislatore disciplinato una sola azione diretta, l’intervento manipolativo oggetto del quesito referendario, ove con esso si intenda non escludere la responsabilità dello Stato, fallisce nell’intento di accostarle una seconda e differente forma processuale di responsabilità del magistrato, anch’essa diretta, della quale si possa cogliere la natura con sufficiente adeguatezza, per di più rendendo il testo del quesito ambiguo e poco chiaro.
9.1.– Sul piano della portata oggettiva dell’intervento abrogativo, che è il solo a rilevare, basti osservare che la normativa di risulta sarebbe caratterizzata da un’unica disposizione concernente «competenza e termini» dell’azione risarcitoria, ovvero l’art. 4 della legge qui considerata (n. 117 del 1988), e che essa, pertanto, non sarebbe rimodellata in modo da poter regolare, invece, due azioni distinte, quella contro lo Stato e quella contro il magistrato.
Infatti, mentre con la abrogazione delle parole «contro lo Stato», al comma 2 dell’art. 4, continua a prospettarsi la sussistenza di un’unica azione diretta, alla quale si riferiscono i successivi commi 3 e 4, il quesito lascia invariato il comma 1 del medesimo art. 4, che disciplina la competenza sulla sola «azione di risarcimento contro lo Stato».
In tal modo, si avrebbe che una disposizione che reca una rubrica dedicata alla «competenza e termini» dell’azione, al comma 1 disciplinerebbe tale competenza solo quanto alla domanda proposta verso lo Stato, tacendo del tutto sull’azione diretta che si vorrebbe introdurre, con la tecnica del ritaglio, nei confronti del magistrato, mentre nel comma 2 definirebbe, senza specificare di che azione si tratti, i termini di azionabilità della pretesa.
Ne consegue che non soltanto mancherebbe analoga disciplina quanto all’azione verso il magistrato, ma anche che tale silenzio renderebbe in radice normativamente dubbio, anche per l’elettore, se tale azione prenda davvero corpo insieme con la responsabilità diretta dello Stato.
9.2.– Va aggiunto che il quesito referendario intende sopprimere l’espressione «contro lo Stato» all’art. 2, comma 1, della menzionata legge n. 117 del 1988, che definisce le ipotesi di responsabilità civile per fatti commessi nell’esercizio delle funzioni demandate ai magistrati.
Ne deriverebbe in modo del tutto illogico che il magistrato, in caso di azione diretta, sarebbe responsabile ai sensi dell’art. 2, e, dunque, in un ventaglio di ipotesi più ampio di quello che si sarebbe avuto nel caso di azione diretta contro lo Stato, e successiva rivalsa di quest’ultimo. La rivalsa, infatti, è limitata ai soli casi, oltre che di dolo, di «negligenza inescusabile» del magistrato (art. 7, comma 1, della legge n. 117 del 1988).
Tale circostanza evidenzia un ulteriore aspetto di inidoneità del quesito, perché conferma che, in base alla normativa di risulta, l’azione non può che restare una soltanto (essendone altrimenti del tutto oscura la divaricazione, sul grado di responsabilità del magistrato), con la conseguenza che la conservazione dell’azione contro lo Stato (ove si leggesse in tal senso il quesito referendario) si appalesa incompatibile o comunque contraddittoria rispetto all’introduzione di una azione diretta verso il magistrato.
È infatti evidente che sarebbe contraddittorio dilatare o restringere il campo della responsabilità del magistrato, a seconda che questi sia soggetto ad azione diretta, oppure ad azione di rivalsa, al punto che diviene anche per tale ragione obiettivamente incerto (e quindi anche non chiaro per l’elettore) se la richiesta manipolazione dell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988 possa davvero avere l’effetto di introdurre l’azione diretta nei riguardi del magistrato, pur permanendo l’azione di rivalsa nei termini che si sono detti.
9.3.– In definitiva, la circostanza che il legislatore abbia disciplinato una sola tipologia di azione diretta (verso lo Stato) frustra la finalità referendaria di estrapolare dal testo normativo una seconda azione avente tale natura (verso il magistrato), e rende così inidoneo il quesito a raggiungere il fine incorporato nello stesso (sentenze n. 5 del 2015, n. 25 del 2011, n. 35 e n. 40 del 2000 e n. 30 del 1997).
10.– Esso incorre, quindi, nel medesimo profilo di inammissibilità rilevato dalla sentenza n. 34 del 1997 di questa Corte, a proposito di altro referendum avente ad oggetto, a sua volta, disposizioni della legge n. 117 del 1988.
In quell’occasione, si era rilevato che con la proposta referendaria, proprio rimuovendo l’espressione «contro lo Stato, di per sé non espressiva di un autonomo contenuto normativo, nel contesto che disciplina l’azione di risarcimento, si determina una assoluta ed oggettiva mancanza di chiarezza del quesito che si intende sottoporre a votazione popolare. Difatti è del tutto equivoca la configurazione della domanda referendaria per quanto attiene alla posizione dello Stato, la cui responsabilità pure è preminente nell’attuale sistema della legge al fine della garanzia di ristoro per danni derivanti da atti in ogni caso riferibili all’esercizio di poteri statali».
10.1.– Anche l’odierno quesito si propone di abrogare le parole «contro lo Stato» negli artt. 2, comma 1, e 4, comma 2, della legge n. 117 del 1988, sicché da ciò l’elettore dovrebbe oggettivamente trarre la conclusione che, con il voto, si sarebbe chiamati a superare l’azione diretta verso lo Stato. Al contempo, tuttavia, persistendo l’art. 4, comma 1, in tema di azione contro lo Stato, e l’art. 7 in tema di azione di rivalsa, tale conclusione trova una oggettiva smentita nella normativa di risulta, e nella stessa espressione del voto, atteso che la manipolazione dell’art. 6, in tema di intervento del magistrato nel giudizio, non può che riferirsi alla causa intentata contro lo Stato. Il richiamo all’art. 105 cod. proc. civile e alla facoltà di intervento ivi prevista per il magistrato trova giustificazione, infatti, solo nel caso di una possibile successiva azione di rivalsa.
L’esigenza di garantire al corpo elettorale «nell’esercizio del suo potere sovrano, la possibilità di una scelta chiara, che è insita nella logica dell’istituto del referendum» (sentenza n. 39 del 1997) viene così mancata, perché il quesito è privo della necessaria chiarezza e univocità che la giurisprudenza di questa Corte, invece, esige a tutela della sovranità popolare (ex plurimis, sentenza n. 10 del 2020, n. 43 del 2003, n. 34 del 1997, n. 1 del 1995 e n. 347 del 1991). Peraltro, come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare, quando l’abrogazione parziale viene perseguita mediante la soppressione nel testo normativo di singole parole o frasi, «si accentua l’esigenza di garantire al popolo, nell’esercizio del suo potere sovrano, la possibilità di una scelta chiara» (sentenza n. 39 del 1997).
10.2.– Si aggiunga che il quesito non solo assume il tratto di ambiguità e contraddittorietà di cui si è appena detto, ma, ove anche si possa ipotizzare la permanenza nella normativa di risulta della responsabilità diretta dello Stato, manca di rendere chiaro all’elettore il rapporto che si creerebbe con la responsabilità del magistrato, e, in particolare, se la prima abbia natura solidale o sussidiaria rispetto alla seconda, così incorrendo in un ulteriore profilo di oscurità già rimarcato, per analogo quesito, dalla sentenza n. 26 del 1987.
11.– In conclusione, per tutte le ragioni appena esposte, la richiesta di referendum è inammissibile.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione, nelle parti indicate in epigrafe, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), dichiarata legittima con ordinanza del 29 novembre 2021 dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.
Corte Costituzionale, sentenza (ud. 15 febbraio 2022) 2 marzo 2022, n. 50
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 15 dicembre 2021, depositata il 16 dicembre 2021, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato l’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1, limitatamente alle seguenti parole “la reclusione da sei a quindici anni”; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole “Si applicano”?».
2.- L’Ufficio centrale ha attribuito al quesito il seguente titolo: «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)».
3.- Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, il Presidente della Corte costituzionale ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.
4.- In data 26 gennaio 2022, i promotori della richiesta di referendum hanno depositato una memoria, nella quale, dopo un’ampia premessa sulla natura e sulle finalità del referendum abrogativo, argomentano a sostegno dell’ammissibilità dell’odierno quesito.
4.1.– L’obiettivo espresso dal quesito referendario sarebbe quello di «eliminare parzialmente dall’ordinamento il rilievo penale della condotta dell’omicidio del consenziente, tranne nei casi specifici già previsti al medesimo art. 579, terzo comma, c.p. e per i quali è già stabilita la sanzione penale di cui all’art. 575 c.p.».
La richiesta sarebbe ancorata a una «matrice razionalmente unitaria», idonea al raggiungimento dello scopo dichiarato e anche esaustiva, essendo incentrata sulla sola e unica fattispecie penale dell’omicidio del consenziente. Il quesito non presenterebbe neppure un asserito taglio manipolativo: la sua formulazione e l’esito cui si intenderebbe pervenire – l’eliminazione della fattispecie dell’omicidio del consenziente – ne confermerebbero, infatti, la natura meramente ablativa, «niente affatto innovativa o tantomeno sostitutiva di norme».
4.2.– Riguardo agli eventuali effetti dell’abrogazione referendaria, la difesa dei promotori, richiamando diversi precedenti di questa Corte, ricorda, da un lato, che eventuali criticità o profili di illegittimità costituzionale delle normativa di risulta non potrebbero condurre, per ciò solo, a una dichiarazione di inammissibilità del quesito e, dall’altro, che questa Corte, pur non potendo compiere in sede di valutazione di ammissibilità del referendum abrogativo un giudizio anticipato di legittimità costituzionale, ben potrebbe rivolgere specifiche indicazioni al legislatore, al fine di superare eventuali profili di criticità conseguenti all’abrogazione referendaria.
4.3.– I promotori precisano, inoltre, che con l’abrogazione referendaria non verrebbe affatto «totalmente depenalizzata» la condotta dell’omicidio del consenziente, perché non verrebbe eliminata la rilevanza penale per le ipotesi, sia di condotte contro persone che si trovino in un particolare stato di vulnerabilità, ossia i minori e le persone inferme di mente o affette da deficienza psichica, sia per le ipotesi di consenso non libero, estorto o carpito con l’inganno, in base a quanto previsto dall’attuale art. 579, terzo comma, cod. pen., il quale non sarebbe inciso dalla odierna richiesta di referendum.
In altri termini, il presidio penale non verrebbe eliminato, bensì perimetrato sulla base di quelle medesime esigenze che questa stessa Corte, fissando le condizioni che renderebbero lecita la condotta dei terzi cooperanti all’attuazione del proposito suicidario, avrebbe individuato con la sentenza n. 242 del 2019.
Si sottolinea, infatti, come l’odierno quesito referendario si porrebbe in linea di ideale e concreta continuità rispetto a quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 242 del 2019 per l’aiuto al suicidio e, stante la «perdurante inerzia del legislatore» in materia, mirerebbe a superare la punizione di una condotta che, seppur differente rispetto a quella dell’aiuto al suicidio, risulta certamente a essa contigua, se si considerano le analoghe, se non identiche, condizioni in cui versa la persona che richiede di porre fine alla propria vita.
Il quesito referendario mirerebbe, pertanto, anche ad eliminare la discriminazione oggi in atto verso quei malati che «non sono in condizione di ottenere una morte volontaria attraverso l’autosomministrazione del farmaco» e, in tal modo, i profili di irragionevolezza fra le fattispecie dell’aiuto al suicidio, così come risultante dall’intervento di questa Corte, e dell’omicidio del consenziente. Fattispecie che, sebbene differenziate per taluni elementi, risultano omogenee e analoghe, sia rispetto all’esito cui in entrambi i casi si perverrebbe, sia in ordine al rilievo – che questa Corte avrebbe valorizzato nella sentenza n. 242 del 2019 – della dignità soggettiva personale del paziente. Ferma restando – così si continua – la possibilità per il legislatore di intervenire al fine di introdurre una regolamentazione tesa a sistematizzare complessivamente la materia, seppur nel rispetto di quanto sancito da questa Corte in merito all’aiuto al suicidio e dell’esito della stessa consultazione referendaria.
4.4.– Ciò chiarito, la difesa dei promotori ritiene che in caso di abrogazione per via referendaria, e ancor prima dell’intervento del legislatore, assumerebbe decisiva importanza la funzione interpretativa dei giudici e non vi sarebbe nessun rischio di «allenta[re] per via referendaria» la «“cintura di protezione”» che questa Corte ha configurato nella più volte citata sentenza n. 242 del 2019.
Si sostiene, infatti, che l’analisi della giurisprudenza di merito e di legittimità, chiamata a dare applicazione alla disposizione oggetto del quesito referendario, farebbe emergere un quadro univoco, in forza del quale il consenso di cui all’art. 579 cod. pen. deve presentare alcune peculiari caratteristiche, ossia deve essere serio, esplicito, non equivoco, attuale e perdurante fino al momento della realizzazione della condotta dell’omicida. In linea, poi, con tali requisiti, sarebbero previsti una valutazione e un accertamento estremamente rigorosi in sede processuale. Verrebbe, quindi, certamente esclusa la possibilità di desumere l’esistenza del consenso da semplici ed estemporanee manifestazioni di sofferenza e, in modo del tutto conseguente, sarebbe possibile «intercettare (facendole ricadere nel perimetro della più gravemente punita fattispecie di omicidio volontario) tutte quelle situazioni in cui la formazione della volontà sia stata in qualche modo viziata e condizionata»; con ciò, in definitiva, scongiurando il rischio di una mancata tutela delle persone fragili e vulnerabili.
Proprio rispetto a tali categorie di soggetti, la difesa dei promotori ricorda che, anche «a fronte della richiesta di manipolazione dell’art. 579 c.p.», sarebbero, comunque sia, presidiati a livello penale i casi di coinvolgimento del minore, di persone che versano nelle condizioni di deficienza psichica e di infermità, di consenso estorto con violenza, minaccia, suggestione, o carpito con inganno, ossia le categorie protette dall’art. 579, terzo comma, cod. pen., non interessate dall’odierno quesito referendario. E si precisa che, anche per la seconda e la terza categoria, le quali «sollecitano interrogativi di non marginale portata», sussisterebbe «un contesto – normativo e giurisprudenziale» – idoneo ad offrire «solide sponde per assicurare una tutela piena ed effettiva» alle persone che in esse potrebbero essere ricomprese.
Sui concetti di deficienza psichica, infermità psichica e di suggestione, l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità formatasi attorno alla fattispecie incriminatrice delle condotte di circonvenzione di incapace di cui all’art. 643 cod. pen., offrirebbe, infatti, idonee garanzie al fine di «intercettare» le ipotesi in cui la capacità della persona di esprimere un valido consenso sia stata in qualsiasi forma condizionata ab exeterno (si citano Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 9 novembre 2016-8 febbraio 2017, n. 5791 e 26 maggio-9 settembre 2015, n. 36424).
Inoltre, proprio la giurisprudenza di legittimità che si è formata sull’art. 579 cod. pen. (si cita Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 19 aprile 2018-9 gennaio 2019, n. 747) indurrebbe ad escludere che l’abrogazione parziale dell’omicidio del consenziente possa esplicare «effetti di depenalizzazione» per i fatti commessi contro persone che non abbiano piena coscienza della propria richiesta. Si mette in evidenza, infatti, che, a viziare il consenso, sarebbe sufficiente anche una non totale diminuzione della capacità psichica che renda, sia pure momentaneamente, il soggetto non pienamente consapevole delle conseguenze del suo atto. La giurisprudenza di legittimità, infatti, intenderebbe «l’infermità psichica e la deficienza psichica» quale una minorata capacità psichica, anche con compromissione del potere di critica e minorazione della sfera volitiva ed intellettiva, che agevoli la suggestione della vittima e ne riduca i poteri di difesa contro le altrui insidie. Da ciò, si conclude che «tutti quei casi spesso citati per destare perplessità sulla tenuta del quesito referendario, come la delusione amorosa, la crisi finanziaria dell’imprenditore», sarebbero considerati, in sede processuale, quali circostanze che determinerebbero la contestazione «del comma 3», e quindi indurrebbe ad escludere che il consenso eventualmente prestato possa considerarsi valido, così determinando l’applicazione del reato di omicidio doloso. E, allorché dovessero scaturire delle difficoltà applicative dalla disciplina risultante dall’abrogazione referendaria, difficoltà che i giudici non sarebbero in grado di dirimere con gli ordinari strumenti interpretativi e in specie ricorrendo ad una interpretazione costituzionalmente orientata, rimarrebbe pur sempre la possibilità di sollevare «questione di costituzionalità».
4.5.– Da ultimo, la difesa del comitato promotore prende posizione sulla asserita natura costituzionalmente obbligata, vincolata o necessaria della tutela penale del bene della vita, con particolare riguardo alle persone che versano in condizioni di vulnerabilità o fragilità, secondo una visione che si è sviluppata «nel dibattito che ha recentemente interessato la tematica del fine vita». Si sostiene, infatti, che secondo la tesi contestata, alcune posizioni soggettive reclamerebbero, sempre e incondizionatamente, ossia a prescindere dalla specificità del caso concreto e dalla capacità della persona di esprimere un valido consenso, una protezione di tipo penale, data la «rilevanza sistematica del bene vita». In altri termini, questa tesi sembrerebbe fondarsi sull’idea che l’unico strumento normativo idoneo a proteggere le persone fragili e vulnerabili sia quello penale.
Tuttavia, «un simile ragionamento» – così si continua – si scontrerebbe, sia con la giurisprudenza costituzionale (si citano le sentenze n. 447 del 1998, n. 411 del 1995, n. 49 del 1985 e n. 226 del 1983), sia con «la più autorevole dottrina (costituzionalistica e penalistica)» la quale, invece, avrebbe negato la possibilità di ricavare dal testo costituzionale «degli obblighi positivi di incriminazione». Si ricorda, inoltre, come questa Corte, nella sentenza n. 447 del 1998, abbia affermato che le «esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono […] nella (eventuale) tutela penale, […]; ché anzi l’incriminazione costituisce una extrema ratio». Posizione analoga sarebbe stata assunta anche dal Tribunale costituzionale tedesco, in due distinte occasioni in cui è stato chiamato a pronunciarsi in materia di aborto. Il giudice costituzionale tedesco, infatti, seppur «in una prima decisione, del 1975,» avrebbe riscontrato l’incostituzionalità delle disposizioni impugnate, in quanto non tutelavano il diritto alla vita del feto attraverso «il ricorso allo strumento penale», in una «seconda pronuncia, invece, che risale al 1993» avrebbe «imposto al legislatore di considerare l’aborto “illegittimo, ma non penalmente punibile”».
In tale prospettiva, quindi, le riflessioni portate avanti, sia in Italia, sia in Germania, darebbero conferma dell’idea che la norma penale non possa essere strumentalmente piegata alla positiva realizzazione dei diritti fondamentali.
Conclusione, questa, che, secondo i promotori, troverebbe conferma anche nella sentenza n. 242 del 2019 (recte: ordinanza n. 207 del 2018), nella parte in cui questa Corte ha affermato che al «legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite». Si ritiene, infatti, che un conto sarebbe riconoscere uno spazio in cui possa dispiegarsi la discrezionalità del Parlamento, altro sarebbe ipotizzare che, in quello stesso spazio, su quest’ultimo gravi un obbligo di penalizzazione direttamente discendente dalla Costituzione.
In definitiva, alla luce della richiamata giurisprudenza di questa Corte, sarebbe da escludere la natura costituzionalmente imposta, necessaria o obbligatoria del presidio penale.
5.– In data 27 gennaio 2022, hanno depositato memoria le associazioni La società della ragione Aps, Liberi di decidere, Mobilitazione generale degli avvocati (MGA), Walter Piludu Ets Aps e Chi si cura di te Aps, chiedendo che la richiesta di referendum sia dichiarata ammissibile.
6.– In pari data, hanno presentato memoria A buon diritto Onlus Aps, Associazione utenti e consumatori Aps, Consulta di bioetica – Ets, Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) – Ufficio nuovi diritti, ArciAtea – rete per la laicità Aps e VOX – Osservatorio italiano sui diritti, deducendo anch’esse l’ammissibilità della richiesta referendaria.
7.– In data 2 febbraio 2022, hanno depositato memorie l’associazione +EUROPA, chiedendo che il quesito referendario sia dichiarato ammissibile, e l’associazione Pro Vita & Famiglia Onlus, deducendo, invece, l’inammissibilità del ricorso.
8.– In prossimità della camera di consiglio, hanno depositato memorie, chiedendo che il referendum sia dichiarato inammissibile, il Comitato per il no all’uccisione della persona anche se consenziente, il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, il Comitato Famiglie per il ‘no’ al referendum sull’omicidio del consenziente, l’Associazione movimento per la vita, l’associazione Scienza & Vita, il Comitato per il No all’eutanasia legale e l’Unione giuristi cattolici italiani.
Ha depositato, altresì, memoria l’associazione Avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia (AMI).
Motivi della decisione
1.– La richiesta di referendum abrogativo, dichiarata conforme alle disposizioni di legge dall’Ufficio centrale per il referendum con ordinanza del 15 dicembre 2021 e denominata «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)», investe l’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, limitatamente alle seguenti parti:
a) comma primo, limitatamente alle parole: «la reclusione da sei a quindici anni.»;
b) comma secondo: integralmente;
c) comma terzo, limitatamente alle parole «Si applicano».
2.- In via preliminare, si deve rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte, come già avvenuto più volte in passato, non solo ha consentito l’illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), ma – prima ancora – ha altresì ammesso gli scritti presentati da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata, e tuttavia interessati alla decisione sull’ammissibilità delle richieste referendarie, come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte (da ultimo: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012).
Tale ammissione non si traduce in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque sia, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – e di illustrare le relative tesi in camera di consiglio, ma comporta solo la facoltà della Corte, ove lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti, come è appunto avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, prima che i soggetti di cui al citato art. 33 illustrino le rispettive posizioni.
3.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, il giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo si propone di «verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall’art. 75, secondo comma, della Costituzione, attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario; sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione (sentenze n. 174 del 2011, n. 137 del 1993, n. 48 del 1981 e n. 70 del 1978): omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria» (sentenza n. 17 del 2016).
Ai fini di tale valutazione, è necessario innanzitutto individuare la portata del quesito.
Come questa Corte ha chiarito, «la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e, pertanto, l’obiettivo dei sottoscrittori del referendum va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente rese dai promotori (dichiarazioni, oltretutto, aventi spesso un contenuto diverso in sede di campagna per la raccolta delle sottoscrizioni, rispetto a quello delle difese scritte od orali espresse in sede di giudizio di ammissibilità), ma esclusivamente dalla finalità “incorporata nel quesito”, cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento […] (ex plurimis, sentenze n. 16 e n. 15 del 2008, n. 37 del 2000, n. 17 del 1997)» (sentenza n. 24 del 2011; nello stesso senso, più di recente, sentenza n. 28 del 2017).
Al riguardo, va altresì ribadito che il giudizio di ammissibilità che questa Corte è chiamata a svolgere si atteggia, per costante giurisprudenza, «con caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati a questa Corte, ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti con forza di legge» (sentenze n. 26 del 2011, n. 45 del 2005, n. 16 del 1978 e n. 251 del 1975). Non sono pertanto in discussione, in questa sede, profili di illegittimità costituzionale, sia della legge oggetto di referendum, sia della normativa risultante dall’eventuale abrogazione referendaria (sentenze n. 27 del 2017, n. 48, n. 47 e n. 46 del 2005). Quel che può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, è soltanto una «valutazione liminare ed inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se […] il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale» (sentenze n. 24 del 2011, n. 16 e n. 15 del 2008 e n. 45 del 2005).
3.1.– Nella specie, il quesito referendario verte sull’art. 579 cod. pen., che configura il delitto di omicidio del consenziente. Si tratta di norma incriminatrice strettamente finitima, nell’ispirazione, a quella del successivo art. 580 cod. pen., che incrimina l’aiuto (oltre che l’istigazione) al suicidio. Le due disposizioni riflettono, nel loro insieme, l’intento del legislatore del codice penale del 1930 di tutelare la vita umana anche nei casi in cui il titolare del diritto intenderebbe rinunciarvi, sia manu alius, sia manu propria, ma con l’ausilio di altri. Esclusa una reazione sanzionatoria nei confronti dello stesso autore dell’atto abdicativo, anche nei casi in cui essa sarebbe materialmente possibile (per essere il fatto rimasto allo stadio del tentativo), il legislatore erige una “cintura di protezione” indiretta rispetto all’attuazione di decisioni in suo danno, inibendo, comunque sia, ai terzi di cooperarvi, sotto minaccia di sanzione penale.
In quest’ottica, l’art. 579 cod. pen. punisce segnatamente, al primo comma, con la reclusione da sei a quindici anni «[c]hiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui». In tal modo, la norma esclude implicitamente, ma univocamente, che rispetto al delitto di omicidio possa operare la scriminante del consenso dell’offeso, la quale presuppone la disponibilità del diritto leso (art. 50 cod. pen.), accreditando, con ciò, il bene della vita umana del connotato dell’indisponibilità da parte del suo titolare.
L’omicidio del consenziente è configurato, pur tuttavia, come fattispecie autonoma di reato, punita con pena più mite di quella prevista in via generale per il delitto di omicidio (art. 575 cod. pen.), in ragione del ritenuto minor disvalore del fatto.
Nella medesima prospettiva di mitigazione del trattamento sanzionatorio, il secondo comma dell’art. 579 cod. pen. rende, altresì, inapplicabili all’omicidio del consenziente le circostanze aggravanti comuni indicate nell’art. 61 cod. pen.
Il successivo terzo comma dell’art. 579 cod. pen. sottrae, peraltro, al perimetro applicativo della fattispecie meno severamente punita, riportandole nell’alveo della fattispecie comune, le ipotesi nelle quali il consenso sia prestato da un soggetto incapace o risulti affetto da un vizio che lo rende invalido. La disposizione stabilisce, in particolare, che «[s]i applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».
3.2.– Il quesito referendario in esame è costruito con la cosiddetta tecnica del ritaglio, ossia chiedendo l’abrogazione di frammenti lessicali della disposizione attinta, in modo da provocare la saldatura dei brani linguistici che permangono. Agli elettori viene, infatti, chiesto se vogliano una abrogazione parziale della norma incriminatrice che investa il primo comma dell’art. 579 cod. pen., limitatamente alle parole «la reclusione da sei a quindici anni»; l’intero secondo comma; il terzo comma, limitatamente alle parole «Si applicano».
Per effetto del ritaglio e della conseguente saldatura tra l’incipit del primo comma e la parte residua del terzo comma, la disposizione risultante dall’abrogazione stabilirebbe quanto segue: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».
Il risultato oggettivo del successo dell’iniziativa referendaria sarebbe, dunque, quello di rendere penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa, fuori dai casi in cui il consenso risulti invalido per l’incapacità dell’offeso o per un vizio della sua formazione. Eliminando la fattispecie meno severamente punita di omicidio consentito e limitando l’applicabilità delle disposizioni sull’omicidio comune alle sole ipotesi di invalidità del consenso dianzi indicate, il testo risultante dall’approvazione del referendum escluderebbe implicitamente, ma univocamente, a contrario sensu, la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente in tutte le altre ipotesi: sicché la norma verrebbe a sancire, all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo.
L’effetto di liceizzazione dell’omicidio del consenziente oggettivamente conseguente alla vittoria del sì non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili.
Alla luce della normativa di risulta, la “liberalizzazione” del fatto prescinderebbe dalle motivazioni che possono indurre a chiedere la propria morte, le quali non dovrebbero risultare necessariamente legate a un corpo prigioniero di uno stato di malattia con particolari caratteristiche, potendo connettersi anche a situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale, economica e via dicendo), sino al mero taedium vitae, ovvero pure a scelte che implichino, comunque sia, l’accettazione della propria morte per mano altrui. Egualmente irrilevanti risulterebbero la qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte (potendo l’agente servirsi non solo di farmaci che garantiscano una morte indolore, ma anche di armi o mezzi violenti di altro genere). Né può tacersi che tra le ipotesi di liceità rientrerebbe anche il caso del consenso prestato per errore spontaneo e non indotto da suggestione.
3.3.– Al riguardo, non può essere, infatti, condivisa la tesi sostenuta dai promotori nel presente giudizio, e ripresa anche nelle difese di alcuni degli intervenuti, stando alla quale la normativa di risulta andrebbe reinterpretata alla luce del quadro ordinamentale nel quale si inserisce: porterebbe a ritenere che, ai fini della non punibilità dell’omicidio del consenziente, il consenso dovrebbe essere espresso nelle forme previste dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) e in presenza delle condizioni alle quali questa Corte, con la citata sentenza n. 242 del 2019, ha subordinato l’esclusione della punibilità per il finitimo reato di aiuto al suicidio, di cui all’art. 580 cod. pen., non attinto dal quesito referendario (di modo che il consenziente dovrebbe identificarsi in una persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche per lei assolutamente intollerabili, e tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli).
A fronte della limitazione della rilevanza penale dell’omicidio del consenziente alle sole ipotesi espressamente indicate dall’attuale terzo comma dell’art. 579 cod. pen., nulla autorizzerebbe a ritenere che l’esenzione da responsabilità resti subordinata al rispetto della “procedura medicalizzata” prefigurata dalla legge n. 219 del 2017 per l’espressione (o la revoca) del consenso a un trattamento terapeutico (o del rifiuto di esso).
Del resto, anche l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, dopo aver proposto, con ordinanza non definitiva del 30 novembre 2021, una denominazione del quesito referendario nella quale non compariva la parola «eutanasia» – in specie, quella di «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice di penale (omicidio del consenziente)» –, non ha poi accolto, con l’ordinanza conclusiva del 15 dicembre 2021, la richiesta dei promotori di aggiungere a tale denominazione la frase «Disponibilità della propria vita mediante consenso libero, consapevole, informato». Ha rilevato, infatti, l’Ufficio centrale che l’integrazione proposta prospettava un bilanciamento tra i due diritti che vengono in gioco (diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione) che non trova fondamento nella sentenza n. 242 del 2019 e non «è rispettoso dei limiti di un quesito di natura abrogativa, spingendosi piuttosto sul terreno di scelte eventualmente spettanti agli organi istituzionalmente competenti all’adozione di una disciplina organica della materia».
4.– A quest’ultimo proposito, non è neppure significativo, agli odierni fini, che l’iniziativa referendaria – nata quale reazione all’inerzia del legislatore nel disciplinare la materia delle scelte di fine vita, anche dopo i ripetuti moniti provenienti da questa Corte (sentenza n. 242 del 2019 e ordinanza n. 207 del 2018) – sia destinata, nell’idea dei promotori, a fungere da volano per il varo di una legge che riempia i vuoti lasciati dal referendum.
Come precisato, infatti, da questa Corte, sono irrilevanti in sede di giudizio di ammissibilità del referendum «i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata; né ad una richiesta referendaria abrogativa, quale è quella prevista dall’art. 75 della Costituzione, è possibile di per sé attribuire un significato ricostruttivo di una nuova e diversa disciplina. Ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti, per esaminare, tra l’altro, se essa abbia per avventura un contenuto non consentito perché in contrasto con la Costituzione» (sentenza n. 17 del 1997).
5.– Proprio questa, in effetti, è l’ipotesi che ricorre nel caso in esame, venendo il quesito referendario ad incidere su normativa costituzionalmente necessaria.
5.1.– A partire dalla sentenza n. 16 del 1978, questa Corte ha costantemente affermato l’esistenza di «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.». Una delle categorie allora individuate consisteva nei «referendum aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)».
All’interno di questa categoria di norme legislative che non possono essere oggetto di richieste referendarie, la sentenza n. 27 del 1987 ha chiarito che debbono essere enucleate «due distinte ipotesi: innanzitutto le leggi ordinarie che contengono l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale, di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione di quest’ultima (cfr. sentenze n. 26/1981 e 16/1978); in secondo luogo, le leggi ordinarie, la cui eliminazione ad opera del referendum priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale “la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione (cfr. sentenza n. 25/1981)”».
Successivamente, la sentenza n. 35 del 1997 ha riferito quest’ultima ipotesi anche a quelle «leggi ordinarie la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione», e la sentenza n. 49 del 2000 ha puntualizzato che le leggi «costituzionalmente necessarie», poiché sono «dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento».
Con la sentenza n. 45 del 2005, infine, si è ulteriormente precisato, per un verso, che la natura di legge costituzionalmente necessaria può anche essere determinata dal fatto che una certa disciplina «coinvolg[a] una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa», e per l’altro, che «il vincolo costituzionale può anche riferirsi solo a parti della normativa oggetto del quesito referendario o anche al fatto che una disciplina legislativa comunque sussista».
5.2.– Nel caso oggi in esame viene in considerazione un valore che si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona.
Come questa Corte ha avuto modo di chiarire in più occasioni, il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost., è «da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”» (sentenza n. 35 del 1997). Esso «concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona» (sentenza n. 238 del 1996).
Posizione, questa, confermata da ultimo, proprio per la tematica delle scelte di fine vita, nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, ove si è ribadito che il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 35 del 1997), nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, è il «“primo dei diritti inviolabili dell’uomo” (sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri», ponendo altresì in evidenza come da esso discenda «il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire».
5.3.– Rispetto al reato di omicidio del consenziente, può, d’altro canto, ripetersi quanto già osservato da questa Corte in rapporto alla figura finitima dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018). Se è ben vero, cioè, che il legislatore del 1930, mediante la norma incriminatrice di cui all’art. 579 cod. pen., intendeva tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile anche in funzione dell’interesse che lo Stato riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini, non è però affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di tutela della norma «alla luce del mutato quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi».
Vietando ai terzi di farsi esecutori delle altrui richieste di morte, pur validamente espresse, l’incriminazione dell’omicidio del consenziente assolve, in effetti, come quella dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018), allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma occorre aggiungere: non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate.
A questo riguardo, non può non essere ribadito il «cardinale rilievo del valore della vita», il quale, se non può tradursi in un dovere di vivere a tutti i costi, neppure consente una disciplina delle scelte di fine vita che, «in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale», ignori «le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite» (ordinanza n. 207 del 2018). Quando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima.
Discipline come quella dell’art. 579 cod. pen., poste a tutela della vita, non possono, pertanto, essere puramente e semplicemente abrogate, facendo così venir meno le istanze di protezione di quest’ultima a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale.
La norma incriminatrice vigente annette a quest’ultima una incidenza limitata, che si risolve nella mitigazione della risposta sanzionatoria, in capo all’autore del fatto di omicidio, in ragione del consenso prestato dalla vittima. Non si tratta di una legge a contenuto costituzionalmente vincolato, non essendo quella ora indicata l’unica disciplina della materia compatibile con il rilievo costituzionale del bene della vita umana. Discipline come quella considerata possono essere modificate o sostituite dallo stesso legislatore con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali esse si saldano.
Già in occasione di uno dei referendum sull’interruzione della gravidanza, questa Corte ha del resto dichiarato inammissibile la richiesta referendaria, richiamando la necessità di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, con specifico riferimento al diritto alla vita (sentenza n. 35 del 1997).
5.4.– Non gioverebbe opporre – come fanno i promotori e alcuni degli intervenienti – che l’abrogazione dell’art. 579 cod. pen. richiesta dal quesito referendario, non essendo totale, ma solo parziale, garantirebbe i soggetti vulnerabili, in quanto resterebbero ancora puniti gli omicidi perpetrati in danno dei soggetti indicati dall’attuale terzo comma: e ciò tanto più alla luce del rigore con il quale la giurisprudenza ha mostrato sinora di valutare la ricorrenza dei presupposti di operatività della fattispecie meno gravemente punita dell’omicidio del consenziente.
Le ipotesi alle quali rimarrebbe circoscritta la punibilità attengono, infatti, a casi in cui il consenso è viziato in modo conclamato per le modalità con le quali è ottenuto, oppure intrinsecamente invalido per la menomata capacità di chi lo presta. Le situazioni di vulnerabilità e debolezza alle quali hanno fatto riferimento le richiamate pronunce di questa Corte non si esauriscono, in ogni caso, nella sola minore età, infermità di mente e deficienza psichica, potendo connettersi a fattori di varia natura (non solo di salute fisica, ma anche affettivi, familiari, sociali o economici); senza considerare che l’esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive del titolare del diritto, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate, va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili.
In tutte queste ipotesi, l’approvazione della proposta referendaria – che, come rilevato, renderebbe indiscriminatamente lecito l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito senza incorrere nei vizi indicati, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata – comporterebbe il venir meno di ogni tutela.
6.– Alla luce delle considerazioni svolte, deve quindi concludersi per la natura costituzionalmente necessaria della normativa oggetto del quesito, che, per tale motivo, è sottratta all’abrogazione referendaria, con conseguente inammissibilità del quesito stesso.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione, nelle parti indicate in epigrafe, dell’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente), dichiarata legittima dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, con ordinanza del 15 dicembre 2021.
Corte Costituzionale, sentenza (ud. 16 febbraio 2022) 2 marzo 2022, n. 51
Svolgimento del processo
1.¿ Con ordinanza del 10 gennaio 2022, depositata in data 12 gennaio 2022, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, a norma dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta del referendum popolare abrogativo, proposto ai sensi dell’art. 75 della Costituzione da cinquecentomila elettori (con annuncio n. 21A05375, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, serie generale, dell’8 settembre 2021), sul seguente quesito «Volete voi che sia abrogato il decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, avente ad oggetto “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” limitatamente alle seguenti parti: Articolo 73 (Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), comma 1, limitatamente all’inciso «coltiva»; Articolo 73 (Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), comma 4, limitatamente alle parole «la reclusione da due a sei anni e»; Articolo 75 (Condotte integranti illeciti amministrativi), comma 1, limitatamente alle parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni;”?» e con la seguente denominazione: «Abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope».
2.¿ L’Ufficio centrale ha dato atto che il 28 ottobre 2021, nella cancelleria della Corte di cassazione, si sono presentati i promotori della raccolta delle firme a sostegno del referendum, i quali hanno depositato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 28 della legge n. 352 del 1970: una scatola, recante l’indicazione «referendum cannabis legale referendumcannabis.it», che hanno affermato contenere n. 294 moduli predisposti con le modalità indicate dall’art. 27 della predetta legge, regolarmente autenticate e accompagnate, in parte, dalla certificazione di iscrizione nelle liste elettorali; un hard disk che hanno affermato contenere il duplicato informatico, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera i-quinquies), del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale), di n. 606.879 firme raccolte elettronicamente, accompagnate dal duplicato informatico, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera i-quinquies) succitato, delle richieste formulate con PEC alle amministrazioni comunali e dei certificati d’iscrizione nelle liste elettorali acclusi ai messaggi PEC ricevuti.
Inoltre, con ordinanza non definitiva del 15 dicembre 2021, l’Ufficio centrale ha rilevato, tra l’altro, che le norme oggetto del quesito sono contenute in un atto normativo avente natura ed efficacia di legge; che si tratta di norme tuttora in vigore, non essendo intervenuti, rispetto a nessuna di esse, atti di abrogazione o pronunce di illegittimità costituzionale; che, in particolare, in relazione alla rubrica dell’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e al testo del comma 4 dello stesso articolo, le modifiche introdotte dall’art. 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), convertito con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49, sono state dichiarate costituzionalmente illegittime da questa Corte con la sentenza n. 32 del 2014, nella quale si è affermato che tornano «a ricevere applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate» con le disposizioni di cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale.
Con la medesima ordinanza non definitiva, l’Ufficio centrale ha ritenuto opportuno integrare il quesito con l’indicazione della rubrica di ciascuno degli articoli in esso richiamati e del comma in cui è contenuta la disposizione dell’art. 75 di cui è richiesta l’abrogazione; e di aver proposto, ai fini dell’identificazione del quesito, la seguente denominazione: «Abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope».
Infine, il medesimo Ufficio ha accolto la richiesta dei promotori di integrazione della denominazione del quesito referendario con la parola «coltivazione» (da inserire dopo le parole «in materia di»), per una più puntuale individuazione dell’oggetto del quesito nella parte relativa all’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti.
3.¿ Il Presidente della Corte costituzionale, ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori ed al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.
4.¿ In data 8 febbraio 2022, è stato depositato un atto di intervento ad opponendum del Presidente pro tempore del Comitato per il No alla droga legale, nel quale sono state rappresentate plurime ragioni a sostegno della inammissibilità della richiesta referendaria, che, in sostanza, si connoterebbe, tra l’altro, per «il troppo ampio ventaglio di significati possibili che derivano dal quesito».
5.¿ In data 11 febbraio 2022, i promotori della richiesta referendaria hanno depositato una memoria, nella quale argomentano considerazioni a sostegno dell’ammissibilità del referendum.
In particolare, il Comitato promotore afferma che l’intento referendario, espresso nel quesito, si identifica nello scopo di attutire la portata sanzionatoria rispetto a determinate condotte tenute in relazione alle sostanze stupefacenti che, secondo la prassi e l’applicazione giurisprudenziale, si contraddistinguono per una bassa ovvero inesistente carica di lesività dei beni oggetto di tutela.
I promotori, in particolare, sostengono, con riferimento alla prima parte del quesito, che l’unico frammento di impunità che vi è ritagliato attiene esclusivamente alla coltivazione rudimentale finalizzata all’immediato uso personale, restando preclusa, dalla normativa di risulta, la possibilità di detenzione e successiva cessione della sostanza, con ciò rispettando altresì le Convenzioni in materia.
Con riferimento, poi, alla seconda parte del quesito, la proposta referendaria mira all’eliminazione delle sole pene detentive (da due a sei anni), tenendo ferma la multa da euro 5.164 a 77.468.
Quanto, infine, alla terza parte, si richiede al corpo elettorale di espungere dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti la sola lettera a), al fine di eliminare una sanzione che ha natura particolarmente afflittiva e che senz’altro, sostiene il Comitato, incide considerevolmente sui diritti fondamentali della persona, quali la libertà di circolazione e financo il diritto al lavoro che spesso viene ingiustamente inciso in occasione della comminazione della sospensione della patente di guida.
6.¿ In data 11 febbraio, è stata altresì depositata una memoria nell’interesse di Antigone Onlus e Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili, dal Presidente di Antigone Onlus, a sostegno delle ragioni di ammissibilità del referendum sostenute dal Comitato promotore.
Motivi della decisione
1.¿ Il presente giudizio concerne l’ammissibilità della richiesta di referendum popolare dichiarata legittima con ordinanza del 10 gennaio 2022 dell’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.
La richiesta di referendum popolare, promossa dal «Comitato promotore referendum Cannabis legale», ha ad oggetto l’abrogazione delle seguenti disposizioni del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza):
art. 73 (Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), comma 1, limitatamente all’inciso «coltiva»;
art. 73 (Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), comma 4, limitatamente alle parole «la reclusione da due a sei anni e»;
art. 75 (Condotte integranti illeciti amministrativi), comma 1, limitatamente alle parole «a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni».
Alla richiesta di referendum è stata data la seguente denominazione: «Abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope».
2.¿ In via preliminare, va rilevato che nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte ha consentito, secondo la sua costante giurisprudenza, l’illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), e ha – prima ancora – ammesso le memorie presentate da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata, e tuttavia interessati alla decisione sull’ammissibilità delle richieste referendarie, come contributo contenente argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte (ex plurimis, sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012, n. 28, n. 27, n. 26, n. 25 e n. 24 del 2011, n. 17, n. 16 e n. 15 del 2008).
L’ammissione di tali contributi, va qui ribadito, non si traduce in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – e di illustrare le relative tesi in camera di consiglio, ma comporta la facoltà di questa Corte, ove lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti, come è avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022 prima che i soggetti di cui al citato art. 33 della legge n. 352 del 1970 abbiano illustrato le rispettive posizioni.
3.¿ Ciò precisato, è opportuno premettere, in sintesi, il complessivo (e complesso) quadro normativo nel quale si collocano le disposizioni oggetto della richiesta referendaria.
4.¿ Il quesito referendario – articolato, come sopra indicato, in tre parti – investe, nelle prime due, il comma 1 ed il comma 4 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, e, nella terza parte, la lettera a) del comma 1 dell’art. 75, appartenente al medesimo testo unico.
Si è altresì già rilevato che l’Ufficio centrale per il referendum ha sottolineato che in relazione alla rubrica dell’art. 73 t.u. stupefacenti e al testo del comma 4 dello stesso articolo, le modifiche introdotte dall’art. 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49, sono state oggetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 32 del 2014.
Più precisamente, con tale pronuncia, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimi, per contrasto con l’art. 77, secondo comma, della Costituzione, l’art. 4-bis (che modificava l’art. 73 t.u. stupefacenti) e l’art. 4-vicies ter (che modificava ulteriori disposizioni del testo unico e, tra queste, l’art. 14 in materia di criteri per la formazione delle tabelle), i quali in particolare avevano unificato la disciplina del trattamento sanzionatorio delle condotte tenute in riferimento alle sostanze stupefacenti, senza alcuna distinzione tra droghe cosiddette “pesanti” e droghe cosiddette “leggere”, ricomprese in un’unica tabella.
Nella sentenza, ai fini che qui interessano, si è affermato che «[i]n considerazione del particolare vizio procedurale accertato in questa sede, per carenza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost., deve ritenersi che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, tornino a ricevere applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate». La sentenza ha infatti precisato che «[i]n tali casi, in base alla giurisprudenza di questa Corte, l’atto affetto da vizio radicale nella sua formazione è inidoneo ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010)», sicché «la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel d.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, torn[a] ad applicarsi, non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo».
In tale ripristinato contesto normativo – ritenuto altresì dalla costante giurisprudenza di legittimità della Corte di cassazione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 26 febbraio-28 luglio 2015, n. 33040) – si colloca, pertanto, la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, oggetto della prima parte del quesito referendario; disposizione che dunque stabilisce: «Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste dall’articolo 75, sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’articolo 14, è punito con la reclusione da otto a venti anni e con la multa da euro 25.822 (lire cinquanta milioni) a euro 258.228 (lire cinquecento milioni)».
La stessa disposizione (art. 73, comma 1) è stata poi dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni (sentenza n. 40 del 2019).
Analogamente si ha che la disposizione di cui al comma 4, dell’art. 73 t.u. stupefacenti, è quella vigente prima della legge n. 49 del 2006; essa quindi stabilisce: «Se taluno dei fatti previsti dai commi 1, 2 e 3 riguarda sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle II e IV previste dall’articolo 14, si applicano la reclusione da due a sei anni e la multa da euro 5.164 (lire dieci milioni) a euro 77.468 (lire centocinquanta milioni)».
Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, come convertito, consegue altresì che le preesistenti Tabelle I e III, cui rinvia l’art. 73, comma 1, e le Tabelle II e IV, cui rinvia l’art. 73, comma 4, previste dall’art. 14 (Criteri per la formazione delle tabelle), tornano ad avere applicazione.
Però, immediatamente dopo la sentenza n. 32 del 2014, il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36 (Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di impiego di medicinali), convertito, con modificazioni, nella legge 16 maggio 2014, n.79, ha novellato le Tabelle di cui all’art. 14 citato, integrandole con l’indicazione di sostanze sottoposte a controllo del Ministero della salute e di quelle sottoposte a controllo in attuazione di Convenzioni internazionali, nonché delle nuove sostanze psicoattive, individuate sulla base delle acquisizioni scientifiche; le quali tutte per effetto della indicata dichiarazione di illegittimità costituzionale non potevano ritenersi più ricomprese nelle “vecchie” tabelle; ma, in ogni caso l’intervento normativo ha mantenuto ferma la distinzione del trattamento sanzionatorio tra le sostanze stupefacenti di tipo “pesante” e di tipo “leggero”.
Parallelamente deve rilevarsi che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, come convertito, ha investito anche l’art. 26 t.u. stupefacenti, disposizione che rinviava alla sola Tabella I per la individuazione delle piante, la cui coltivazione era vietata nel territorio dello Stato, in tal modo facendo rivivere la precedente formulazione, la quale dunque ripristina il rinvio alle piante ricomprese nelle Tabelle I e II. Però successivamente l’art. 1, comma 4, del medesimo d.l. n. 36 del 2014, come convertito, ha sostituito tale disposizione (l’art. 26) prescrivendo che «[s]alvo quanto stabilito nel comma 2, è vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II di cui all’articolo 14, ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all’articolo 27, consentiti dalla normativa dell’Unione europea. 2. Il Ministro della sanità può autorizzare istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali di ricerca, alla coltivazione delle piante sopra indicate per scopi scientifici, sperimentali o didattici».
La dichiarazione di illegittimità costituzionale non ha invece investito la disposizione di cui all’art. 75, comma 1, lettera a), t.u. stupefacenti, oggetto della terza parte del quesito referendario, nonostante anch’essa sia stata incisa dalla disciplina di cui all’art. 4-ter, comma 1, del d.l. n. 272 del 2005, come convertito.
Al riguardo, si è affermato che «la declaratoria di illegittimità costituzionale colpisce per intero le due disposizioni impugnate e soltanto esse, restando impregiudicata la valutazione di questa Corte in relazione ad eventuali ulteriori impugnative aventi ad oggetto altre disposizioni della medesima legge» (sentenza n. 32 del 2014, citata).
Su tale disposizione è però intervenuto l’art. 1, comma 24-quater, lettera a), del d.l. n. 36 del 2014, come convertito, che ha sostituito la norma secondo la formulazione attualmente vigente e che dispone: «Chiunque, per farne uso personale, illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope è sottoposto, per un periodo da due mesi a un anno, se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope comprese nelle tabelle I e III previste dall’articolo 14, e per un periodo da uno a tre mesi, se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope comprese nelle tabelle II e IV previste dallo stesso articolo, a una o più delle seguenti sanzioni amministrative: a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni; b) sospensione della licenza di porto d’armi o divieto di conseguirla; c) sospensione del passaporto e di ogni altro documento equipollente o divieto di conseguirli; d) sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o divieto di conseguirlo se cittadino extracomunitario».
Può aggiungersi, infine, che al di fuori del quesito referendario in esame è la disciplina della “canapa sativa” delle varietà delle specie di piante agricole, che «non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope» ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242 (Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa), al pari delle piante officinali di cui al decreto legislativo 21 maggio 2018, n. 75 (Testo unico in materia di coltivazione, raccolta e prima trasformazione delle piante officinali, ai sensi dell’articolo 5, della legge 28 luglio 2016, n. 154).
5.¿ Così delineato il contesto normativo di riferimento e l’insieme delle disposizioni oggetto del quesito referendario, occorre ora valutare l’ammissibilità di quest’ultimo alla luce dei criteri desumibili dall’art. 75 Cost., come elaborati da questa Corte sin dalla sentenza n. 16 del 1978.
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, non solo la richiesta referendaria non può investire una delle leggi indicate nell’art. 75 Cost. o comunque riconducibili ad esse, ma è necessario che il quesito da sottoporre al giudizio del corpo elettorale consenta una scelta libera e consapevole, richiedendosi pertanto i caratteri della chiarezza, dell’omogeneità, dell’univocità del medesimo quesito, oltre che l’esistenza di una sua matrice razionalmente unitaria (sentenze n. 10 del 2020 e n. 17 del 2016).
6.¿ Un particolare rilievo, in riferimento al referendum in esame, hanno i vincoli internazionali.
Giova ricordare che la disciplina della cannabis – che costituirebbe il proprium del referendum in esame, secondo la memoria del Comitato promotore – è stata oggetto, in passato, di altre analoghe iniziative referendarie.
La prima perseguiva lo scopo di liberalizzare la coltivazione, il commercio, la detenzione, l’uso della canapa indiana e dei suoi derivati (hashish e marijuana). Questa Corte (sentenza n. 30 del 1981) aveva dichiarato inammissibile il referendum perché esso – avendo ad oggetto la Tabella II (allora prevista dall’art. 12 della legge 22 dicembre 1975, n. 685, recante «Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza») e, con riferimento al divieto assoluto di coltivazione, l’inciso «di piante di canapa indiana» di cui all’art. 26 della legge ora citata – si poneva in contrasto con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia in materia di disciplina della canapa indiana e dei suoi derivati, dovendo ritenersi preclusi i referendum che investano non soltanto le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, ma anche quelle strettamente collegate all’esecuzione dei trattati medesimi.
Una seconda iniziativa referendaria – avente ad oggetto varie disposizioni del d.P.R. n. 309 del 1990, e la cui finalità, secondo la Corte, era quella «di rendere lecite e, quindi, prive di sanzione, le attività preliminari e connesse all’uso personale della canapa indiana e dei suoi derivati, quali hashish e marijuana» – è stata anch’essa dichiarata inammissibile con sentenza n. 27 del 1997 in ragione, parimenti, dei vincoli derivanti dalle Convenzioni internazionali. Dall’abrogazione delle disposizioni oggetto del quesito referendario sarebbe derivata infatti l’esposizione dello Stato italiano a responsabilità nei confronti delle altre parti contraenti a causa della violazione degli impegni assunti in sede internazionale.
Invece, è stato dichiarato ammissibile il referendum che concerneva l’uso personale di sostanze stupefacenti, anche in dose superiore a quella media giornaliera, e che mirava alla depenalizzazione dell’importazione, dell’acquisto e della detenzione limitatamente a tale uso, lasciando sussistere le sanzioni amministrative, sicché esso non si poneva in contrasto con gli obblighi internazionali assunti in materia dallo Stato italiano (sentenza n. 28 del 1993).
Il quadro degli obblighi internazionali rilevanti in questa materia è definito dalla Convenzione unica sugli stupefacenti, adottata a New York il 30 marzo 1961 e dal relativo Protocollo di emendamento, adottato a Ginevra il 25 marzo 1972, entrambi ratificati e resi esecutivi in Italia per effetto della legge 5 giugno 1974, n. 412 (Ratifica ed esecuzione della convenzione unica sugli stupefacenti, adottata a New York il 30 marzo 1961 e del protocollo di emendamento, adottato a Ginevra il 25 marzo 1972); dalla Convenzione sulle sostanze psicotrope di Vienna del 21 febbraio 1971, ratificata con legge 25 maggio 1981, n. 385 (Adesione alla convenzione sulle sostanze psicotrope, adottata a Vienna il 21 febbraio 1971, e sua esecuzione); dalla Convenzione delle Nazioni Unite, adottata a Vienna il 20 dicembre 1988, contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope, ratificata e resa esecutiva in Italia per effetto della legge 5 novembre 1990, n. 328 (Ratifica ed esecuzione della convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope, con annesso, atto finale e relative raccomandazioni, fatta a Vienna il 20 dicembre 1988).
Rileva poi la decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio, del 25 ottobre 2004, riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, la quale, nel dettare norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, ha indicato anche la coltivazione della cannabis tra le condotte per le quali i singoli Stati devono applicare sanzioni penali.
La direttiva (UE) 2017/2103 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 novembre 2017 ha modificato la decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio, al fine di includere nuove sostanze psicoattive nella definizione di «stupefacenti».
Non vi è quindi dubbio che, alla stregua delle Convenzioni internazionali di Vienna e di New York, nonché della richiamata normativa europea, la canapa indiana e i suoi derivati rientrano tra le sostanze stupefacenti, la cui coltivazione e detenzione deve essere qualificata come reato e che solo la loro destinazione al consumo personale rende possibile l’adozione delle misure amministrative riabilitative e di reinserimento sociale diverse dalla sanzione penale (sentenza n. 28 del 1993).
7.¿ Il Comitato promotore è ben consapevole di tali vincoli derivanti dalla normativa sovranazionale in ragione dei quali in passato ¿ come appena ricordato ¿ questa Corte ha già dichiarato inammissibili iniziative referendarie analoghe.
Ma ¿ per sostenere ora la compatibilità con tali vincoli ¿ il Comitato precisa nella sua memoria che il quesito referendario proposto persegue, in realtà, uno scopo diverso e ben più limitato, indicato nella finalità di «attenuare la portata sanzionatoria del testo unico n. 309/1990». Ciò rappresenterebbe un obiettivo maggiormente circoscritto rispetto alle due precedenti iniziative referendarie, dichiarate inammissibili da questa Corte (sentenze n. 27 del 1997 e n. 30 del 1981), di talché, proprio in ragione di questa asserita portata ridotta, il quesito proposto risulterebbe essere compatibile con i vincoli internazionali ed europei in materia.
La mera attenuazione della risposta sanzionatoria, che la richiesta referendaria perseguirebbe, si avrebbe attraverso: a) la depenalizzazione delle sole condotte di coltivazione cosiddette “domestiche” e “rudimentali” delle piante di cannabis perché ad esse si riferirebbe la condotta di chi «coltiva», quale prevista nel comma 1 dell’art. 73; b) l’eliminazione della pena della reclusione per tutte le condotte diverse dalla coltivazione, che riguardano la cannabis e i derivati, previste dal comma 4 dell’art. 73 e che rimarrebbero punite con la pena della sola multa; c) l’esclusione, in caso di uso personale di qualsiasi sostanza stupefacente, della sanzione amministrativa della sospensione della patente e degli altri titoli abilitativi alla guida di motoveicoli e ciclomotori.
8.¿ Pur così articolata in tre parti (due ritagli e un’abrogazione parziale), la richiesta referendaria – va subito precisato ¿ richiede una valutazione necessariamente unitaria.
Questa Corte ha, infatti, affermato che il referendum «non consente di scindere il quesito e quindi non offre possibilità di soluzioni intermedie tra il rifiuto e l’accettazione integrale della proposta abrogativa» (sentenza n. 12 del 2014).
9.¿ La richiesta referendaria è diretta innanzi tutto ad espungere, dall’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti, la parola «coltiva», termine che – nell’interpretazione prospettata dal Comitato promotore ¿ riguarderebbe solo la coltivazione domestica “rudimentale” della pianta di cannabis.
Nella sua memoria il Comitato promotore richiama il recente arresto della Corte di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 19 dicembre 2019-16 aprile 2020, n. 12348), che, a composizione di un contrasto di giurisprudenza, ha affermato che dall’area dell’illecito penale del comma 1 dell’art. 73 devono ritenersi escluse – per difetto di tipicità, quale necessaria connotazione della fattispecie penale – le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.
Sicché ¿ assume il Comitato promotore ¿ l’abrogazione della parola «coltiva» nel comma 1 dell’art. 73 avrebbe l’effetto di sottrarre alla punibilità proprio e solo la coltivazione domestica cosiddetta “rudimentale” della pianta per l’infiorescenza di cannabis.
9.1.¿ Ma questa lettura riduttiva non è ricavabile dal testo normativo secondo gli ordinari canoni interpretativi, né trova fondamento nel principio giurisprudenziale sopra richiamato.
Deve infatti considerarsi che – in ragione della reviviscenza del testo vigente prima della legge n. 49 del 2006 nel contesto normativo di cui si è detto sopra sub punto 4 – la condotta di coltivazione, ricompresa nella catalogazione del comma 1 (unitamente a quelle di produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita ed altre ancora), si riferisce testualmente alle Tabelle I e III dell’art. 14, che concernono le droghe “pesanti” e non già la cannabis, la quale è compresa invece nella Tabella II.
Quindi la condotta di chi «coltiva», prevista dal comma 1 dell’art. 73, è testualmente quella relativa alle piante indicate nella Tabella I (la Tabella III non ne contiene alcuna): il papavero sonnifero e le foglie di coca; inoltre, in mancanza di specificazioni, si tratta della coltivazione tout court, quale che sia la sua estensione, pure agraria e finanche massiva.
La coltivazione della canapa è, invece, contemplata nel comma 4 dell’art. 73, che riguarda le sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle Tabelle II e IV previste dall’art. 14 e che, quanto alle condotte sanzionate penalmente, richiama quelle dei commi precedenti e segnatamente del comma 1. Sicché è solo come conseguenza indiretta dell’eventuale abrogazione referendaria della parola «coltiva» nel comma 1 della stessa disposizione che sarebbe parimenti depenalizzata altresì la coltivazione della canapa, prevista dalla Tabella II, pure essa nella dimensione agricola, in ipotesi finanche massiva.
Pertanto il quesito referendario – per quello che è il suo contenuto oggettivo, l’unico rilevante, e non già la finalità soggettiva assunta dal Comitato nella sua memoria – conduce a depenalizzare direttamente la coltivazione (quale ne sia l’estensione) delle piante della Tabella I, da cui si estraggono le sostanze stupefacenti qualificate come droghe cosiddette “pesanti” (papavero sonnifero e foglie di coca), e indirettamente altresì la coltivazione della pianta di cannabis della Tabella II, peraltro nella dimensione anche agricola e non solo domestica (quest’ultima, anzi, essendo in parte già fuori dalla fattispecie penale nella misura in cui ricorrano le condizioni indicate dalla citata giurisprudenza di legittimità).
9.2.¿ Questo così esteso risultato, obiettivamente prefigurato dalla richiesta referendaria al di là dell’intento soggettivo del Comitato promotore, contrasta apertamente con i vincoli sovranazionali di cui sopra sub punto 6, come questa Corte ha già ritenuto nelle sentenze n. 27 del 1997 e n. 30 del 1981. In particolare la citata decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea 2004/757/GAI, integrata dalla direttiva 2017/2103/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 novembre 2017, prevede espressamente all’art. 2, paragrafo 1, che ciascuno Stato membro provvede affinché siano punite plurime condotte connesse al traffico illecito di stupefacenti, tra le quali è espressamente indicata – alla lettera b) – «la coltura del papavero da oppio, della pianta di coca o della pianta della cannabis». Nella Relazione al disegno di legge, recante «Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea con la legge di delegazione europea 2018», il Governo – come prescritto dall’art. 29, comma 7, lettera d), della legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea) – ha dato atto dell’omesso inserimento, tra le altre, della citata direttiva integrativa della richiamata decisione quadro «poiché l’ordinamento nazionale risulta essere conforme al dettato normativo europeo e, pertanto, non necessita[…] di norme di attuazione».
9.3.¿ Inoltre il risultato prefigurato dalla richiesta referendaria neppure verrebbe conseguito perché comunque rimarrebbe la fattispecie penale dell’art. 28 t.u. stupefacenti, che – in quanto non attinto dalla richiesta referendaria, come del resto ammette lo stesso Comitato promotore – continuerebbe a sanzionare la coltivazione non autorizzata di tutte le piante di cui all’art. 26, comprendendo così sia quelle della Tabella I (papavero sonnifero e foglie di coca), sia quelle della Tabella II (canapa), con la sola eccezione, espressamente prevista, della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all’art. 27, consentiti dalla normativa dell’Unione europea.
Anche in caso di esito affermativo della consultazione referendaria, quindi, rimarrebbe vigente la prescrizione dell’art. 28, che prevede, al comma 1, che chiunque, senza essere autorizzato, coltiva le piante indicate nel precedente art. 26, è assoggettato alle sanzioni penali (oltre che amministrative) stabilite per la fabbricazione illecita delle sostanze stesse (ossia quelle dell’art. 73). L’art. 26 a sua volta richiama le Tabelle dell’art. 14, come sostituito dal d.l. n. 36 del 2014, come convertito, che contemplano, appunto, le piante sia di papavero sonnifero, sia di coca, sia di canapa.
9.4.¿ In definitiva, mentre apparentemente, per quella che è la dichiarata intenzione del Comitato, il quesito referendario mirerebbe soltanto a depenalizzare la coltivazione, non agricola ma domestica “rudimentale” (o minimale), della canapa indiana (cannabis), in realtà esso – per quello che è invece il suo contenuto oggettivo, l’unico rilevante – per un verso produrrebbe un risultato ben più esteso, riguardando direttamente ogni coltivazione delle piante per estrarre sostanze stupefacenti cosiddette “pesanti” (papavero sonnifero e foglie di coca) e indirettamente anche la coltivazione, agricola o domestica che sia, della pianta di canapa; risultato complessivo precluso dai vincoli sovranazionali sopra richiamati che non consentono l’ammissibilità di un referendum di questa portata.
Per altro verso, questo apparente risultato più ampio sarebbe in realtà vano e illusorio, perché rimarrebbe in ogni caso immutata la rilevanza penale, prevista dall’art. 28 t.u. stupefacenti, non oggetto della richiesta referendaria, per ogni coltivazione non autorizzata di piante di cui all’art. 26, tra cui proprio la canapa indiana.
Questa discrasia, che emerge dall’esame del ritaglio proposto dal quesito referendario nel comma 1 dell’art. 73, è rilevante, non essendo inibita a questa Corte la valutazione della normativa di risulta allorché essa, come nella fattispecie, presenti elementi di grave contraddittorietà rispetto al fine obiettivo dell’iniziativa referendaria tali da pregiudicare la chiarezza e la comprensibilità del quesito per l’elettore (sentenze n. 24 del 2011, n. 15 del 2008 e n. 45 del 2005).
Si ha infatti che in questa parte la proposta referendaria risulta essere fuorviante per il corpo elettorale, che ¿ diversamente da quanto proclamato dal Comitato promotore ¿ non sarebbe, in realtà, affatto chiamato a esprimersi sull’alternativa, di portata ridotta, se depenalizzare, o no, la coltivazione della canapa in forma domestica “rudimentale”, bensì si troverebbe di fronte all’alternativa, sopra indicata, ad un tempo ben più ampia (in quanto comprensiva della depenalizzazione anche della coltivazione del papavero sonnifero e delle foglie di coca), quanto illusoria (rimanendo, in realtà, la rilevanza penale di tutte tali condotte); e ciò ridonda in irrimediabile difetto di chiarezza e univocità del quesito.
10.¿ La richiesta referendaria è diretta anche alla eliminazione dalla disposizione di cui al comma 4 dell’art. 73 t.u. stupefacenti delle parole «la reclusione da due a sei anni e».
Il rinvio, contenuto nel comma 4, ai fatti di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 73 t.u. stupefacenti postula, come già rilevato sopra sub punto 4, che anche in questo caso le norme applicabili vanno individuate in quelle che tornano in vigore a seguito della sentenza n. 32 del 2014 di questa Corte.
Dal rinvio contenuto nel comma 4 dell’art. 73 discende che, in caso di positivo esito referendario, alle stesse condotte sanzionate dai commi precedenti (tra cui la condotta di chi «coltiva»), se concernenti sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle Tabelle II e IV previste dall’art. 14 (droghe cosiddette “leggere”), si applicherebbe la sola sanzione penale della multa (da euro 5.164 a euro 77.468), con esclusione quindi della reclusione, attualmente prevista tra il minimo di due anni e il massimo di sei anni.
L’intento referendario mira quindi all’alleggerimento del trattamento sanzionatorio, che conseguirebbe all’eliminazione della pena della reclusione, residuando solo quella della multa, quando si tratta delle condotte di rilievo penale aventi ad oggetto le cosiddette droghe “leggere”, individuate attraverso il rinvio «ai fatti di cui ai commi 1, 2 e 3».
Nella fattispecie, pur rimanendo precluse, nel giudizio di ammissibilità del referendum, valutazioni di merito sulla legittimità costituzionale della normativa di risulta, questa Corte non può, tuttavia, non rilevare, sotto il profilo dell’ambiguità del quesito, la vistosa contraddittorietà che conseguirebbe all’eliminazione della pena detentiva, per l’irriducibile antinomia che ne deriverebbe con la fattispecie del comma 5 del medesimo art. 73 t.u. stupefacenti, disposizione non toccata dalla proposta abrogativa referendaria. Infatti si avrebbe che ai medesimi fatti di cui al comma 4, se ritenuti di «lieve entità», rimarrebbe invece applicabile la sanzione congiunta della reclusione e della multa.
È vero ¿ come sottolinea il Comitato promotore nella sua memoria ¿ che questa Corte (sentenza n. 23 del 2016) ha affermato in proposito che, dopo la trasformazione della circostanza attenuante in reato autonomo, «non sussiste più alcuna esigenza di mantenere una simmetria sanzionatoria tra fatti di lieve entità e quelli non lievi». Ma ciò giustifica solo che il regime sanzionatorio del novellato comma 5 dell’art. 73 possa essere ¿ come in effetti è ¿ unico, senza distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, e non già che paradossalmente il fatto di «lieve entità» possa essere punito con la pena congiunta della reclusione e della multa e non lo sia invece il fatto non lieve o addirittura quello grave per la ricorrenza delle circostanze aggravanti dell’art. 80 t.u. stupefacenti (l’aumento di pena è, infatti, previsto con riferimento alla pena base, che per la fattispecie del comma 4 dell’art. 73, in caso di esito affermativo del referendum, sarebbe costituita dalla sola multa).
Anche in questa parte la richiesta referendaria presenta, quindi, un irrimediabile profilo di inammissibilità per la manifesta contraddittorietà della normativa di risulta con l’intento referendario, in quanto la sanzione detentiva permarrebbe in riferimento ai medesimi fatti quando di «lieve entità».
Ciò ridonda in difetto di chiarezza giacché il quesito referendario chiederebbe all’elettore di operare una scelta illogica e contraddittoria: se eliminare, o no, la pena della reclusione per i fatti concernenti le droghe cosiddette “leggere”, conservandola invece per le medesime condotte se di «lieve entità».
11.¿ Conclusivamente, va quindi dichiarata inammissibile, nel complesso, la richiesta di referendum in esame.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione, nelle parti indicate in epigrafe, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), richiesta dichiarata legittima con ordinanza del 10 gennaio 2022, pronunciata dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.