Con un nuovo principio di diritto, la Cassazione precisa in quali casi la convivenza coniugale non è ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale ecclesiastico.
Svolgimento del processo
G.B. chiese la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario contratto il 26-9-2009 con F.G., sentenza basata sul dolo di costei, che aveva taciuto di essere afflitta da amenorrea e dalla conseguente incapacità di procreare.
Secondo la sentenza ecclesiastica tale fatto era stato appreso dal marito solo a gennaio 2015.
La corte d’appello di Firenze, nella resistenza della convenuta, ha respinto la domanda di delibazione, reputando ostativa la stabilità e rilevanza della situazione giuridica riferibile al rapporto matrimoniale (id est, al matrimonio inteso come rapporto), non contestata e comunque confermata dal protrarsi dell’unione, formalmente per oltre cinque anni (dal settembre 2009 al marzo 2015, epoca dell’autorizzazione a vivere separati ottenuta nel contesto del giudizio di separazione introdotto dalla moglie), ma sostanzialmente per oltre dieci, dal momento che la coppia aveva iniziato a convivere fin dall’anno 2004.
Secondo la corte d’appello era stata da ciò concretizzata la condizione di fatto che pone la decisione canonica in contrasto con l’ordine pubblico italiano, per la mancata considerazione (nella sede canonica) del valore del rapporto matrimoniale in sé, a fronte dei vizi genetici incidenti sul solo matrimonio-atto al quale unicamente guarda l’ordinamento canonico. Dunque, era integrata la situazione giuridica ostativa al riconoscimento della sentenza ecclesiastica secondo quanto affermato dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 16379 del 2014. E peraltro, ha aggiunto la corte d’appello, la circostanza che il giudizio ecclesiastico di nullità fosse stato introdotto subito dopo la presentazione del ricorso per separazione da parte della moglie era tale da palesare la natura strumentale dell’iniziativa e da denunciare, anche per tale via, il contrasto tra la sentenza ecclesiastica e i principi dell’ordine pubblico nazionale.
B. ha proposto ricorso contro la sentenza della corte fiorentina, affidandosi a due motivi.
L’intimata non ha svolto difese.
Motivi della decisione
I. Col primo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 8 della l. n. 121 del 1985, 122, secondo comma, cod. civ. e 7 cost., il ricorrente assume che la sentenza ecclesiastica sia in tutto conforme all’ordine pubblico italiano, in quanto basata sull’esistenza di requisiti di annullamento previsti come tali (ai sensi dell’art. 122 cod. civ.) anche dall’ordinamento nazionale e determinativi dell’azione di impugnativa entro un anno dalla scoperta, senza alcuna rilevanza dell’argomentazione offerta dalla corte del merito a proposito della rilevanza del matrimonio-rapporto.
Col secondo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione del punto 4, lett. b), n. 3, del protocollo addizionale dell’accordo ratificato con la citata legge n. 121 del 1985, il ricorrente soggiunge che non sarebbe stato possibile per il giudice della delibazione riesaminare il merito delle decisioni assunte nella sentenza da delibare, ed eccepisce comunque che errata sarebbe interpretazione del diritto canonico fatta dalla corte d’appello con riferimento alla rilevanza del momento della scoperta del vizio.
II. Il ricorso, i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente, è fondato nel senso che segue.
III. La corte d’appello di Firenze si è determinata sulla base del principio affermato dalla richiamata sentenza delle Sezioni unite di questa Corte n. 16379-14, in ordine alla essenzialità del rapporto matrimoniale.
Si è cioè basata sull’affermazione che, anche in casi come quello di specie, ostativa alla delibazione della sentenza di nullità sarebbe da considerare – di per sé - la circostanza della convivenza come coniugi, quale elemento essenziale del rapporto matrimoniale, protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione.
Dopodiché ha aggiunto che la convivenza si era in verità protratta, nello specifico, addirittura per dieci anni, considerato anche il periodo prematrimoniale, e che l’iniziativa del B. di ottenere dal tribunale ecclesiastico la dichiarazione di nullità del vincolo si era palesata come strumentale in quanto di poco successiva all’avversa presentazione del ricorso per separazione personale.
IV. Codeste ultime considerazioni svolte nella sentenza impugnata sono eccentriche rispetto a quanto oggetto di giudizio.
Il periodo di convivenza prematrimoniale non ha alcuna rilevanza, finanche seguendosi l’impostazione delle Sezioni unite di cui si dirà, visto che non incide sul rapporto di coniugio.
L’affermazione relativa alla natura strumentale dell’iniziativa assunta dall’attore dinanzi al giudice ecclesiastico è fuori tema, poiché non compete al giudice della delibazione il riesame della questione sottostante, già diversamente scrutinata nella sede propria, onde ritenerne la pretestuosità.
In particolare, nel giudizio di delibazione della sentenza emessa dal giudice ecclesiastico, non è consentito al giudice italiano il riesame nel merito, né è consentito respingere la domanda di exequatur della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio fornendo una diversa interpretazione delle risultanze processuali (v. Cass. n. 24967- 13).
Da questi punti di vista, dunque, la sentenza della corte fiorentina è senz’altro errata.
V. Non meno criticabile è l’affermazione che, in sentenza, ha costituito lo snodo principale del rigetto della domanda di delibazione: quella imperniata, cioè, sulla convivenza matrimoniale protrattasi per oltre tre anni.
Solo apparentemente codesta affermazione è sorretta dall’insegnamento delle Sezioni unite di cui alla citata sentenza n. 16379-14, essendo invece essenziale osservare come la richiamata sentenza sia stata occasionata da una fattispecie totalmente diversa da quella che qui rileva.
In quel caso la questione atteneva alla riserva di uno dei coniugi circa il carattere indissolubile del vincolo matrimoniale, e dunque a un’ipotesi di nullità matrimoniale tale solo per il diritto canonico, non anche invece per il diritto italiano.
VI. Ora in guisa della cennata fattispecie quell’arresto ha legittimato l’idea che l’elemento dinamico del rapporto matrimoniale (il matrimonio-rapporto, come dice anche la corte fiorentina) debba acquisire una più pregnante importanza rispetto all’aspetto genetico (statico) del matrimonio come atto, finendo col concretare una situazione giuridica di "ordine pubblico italiano", la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato; una situazione ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico “per qualsiasi vizio genetico del matrimonio-atto” (così Cass. Sez. U, Sentenza n. 16379-14, cui adde Cass. n. 1494-15 e altre).
Ad avviso del collegio, tuttavia, questa specificazione (“per qualsiasi vizio genetico del matrimonio-atto”) non può essere intesa nel senso totalizzante ritenuto dalla corte d’appello di Firenze, per l’elementare ragione che, se così fosse, la protrazione del rapporto coniugale finirebbe per risultare impeditiva dell’accertamento di vizi genetici (del matrimonio-atto) che rilevano come tali anche per il codice civile italiano senza rilevanza di limiti temporali alla loro deduzione: per esempio per i casi di cui agli artt. 86 e 87 cod. civ., relativi alla libertà di stato o all’impedimento derivato da parentela o affinità.
A seguire l’esegesi sostenuta dalla corte d’appello di Firenze dovrebbe affermarsi, per esempio, che anche la nullità del matrimonio del bigamo o dell’incestuoso non sarebbe in assoluto pronunciabile ove vi sia stata una convivenza come coniugi per tre anni. Ed egualmente, per analoga ragione, non sarebbe suscettibile di delibazione la sentenza di nullità che nelle stesse condizioni e situazioni fosse stata pronunciata dal giudice ecclesiastico.
VII. Una simile conclusione sarebbe a tal punto insostenibile da porsi come barriera elementare dell’esegesi in qualunque contesto. E tanto presuppone che del principio di diritto affermato con la ripetuta sentenza delle Sezioni unite n. 16379 del 2014 si debba dare una lettura più coerentemente restrittiva.
Una tale diversa esegesi, che la sezione può certamente fare senza incorrere in violazione dell’art. 374 cod. proc. civ., sembra d’altronde autorizzata dalla stessa parte della motivazione che la sentenza ha dedicato a spiegare il criterio sotteso alla formula “qualsiasi vizio genetico del matrimonio- atto”.
Il tema era stato indotto dalla sollecitazione dell’ordinanza interlocutoria di verificare se il predetto limite alla delibazione potesse dipendere, oppure no, dalla natura del vizio genetico del matrimonio “accertato e dichiarato dalla sentenza canonica”: in altri termini, se il giudice della delibazione, ai fini dell'applicazione del limite medesimo, dovesse o meno distinguere tra i vizi genetici comportanti la nullità del matrimonio “accertati e dichiarati secondo il diritto canonico”.
A tale quesito, che dunque andava contenuto nei limiti dei vizi genetici tali per il diritto canonico secondo la disciplina propria di esso, la sentenza ha offerto risposta negativa, per la decisiva ragione che all'affermazione della convivenza coniugale, successiva al matrimonio concordatario regolarmente trascritto e con i caratteri dianzi individuati, va attribuito i carattere di "limite generale" d'ordine pubblico italiano alla delibazione delle sentenze di nullità matrimoniale pronunciate dai tribunali ecclesiastici secondo l’ordine proprio; con conseguente irrilevanza nell' "ordine civile" del vizio genetico del matrimonio canonico (qualsiasi vizio genetico) tutte le volte che esso sia stato accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell' "ordine canonico", nonostante la sussistenza dell'elemento essenziale della convivenza coniugale.
In questi casi è stata ritenuta manifesta “la radicale collisione di detti vizi genetici del matrimonio canonico con l'individuato limite d'ordine pubblico” anche perché, diversamente opinandosi, e dunque ipotizzando una diversa risposta al medesimo quesito, ne sarebbe derivata una inammissibile invasione del giudice italiano nella giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità del matrimonio, riservata esclusivamente ai tribunali ecclesiastici nel citato “ordine canonico” dall’art. 8, n. 2, dell’accordo, con protocollo addizionale, ratificato con la legge n. 121 del 1985; invero il giudice italiano, al fine di decidere sulla domanda di delibazione sotto il profilo dell'applicabilità del predetto limite generale d'ordine pubblico, avrebbe altrimenti dovuto procedere a una previa interpretazione delle singole norme del codice di diritto canonico disciplinanti le fattispecie di nullità ivi previste, distinguendo fra di esse e stabilendo eventualmente una gerarchia fra di esse, così valicando inammissibilmente i confini della giurisdizione riservata dalle disposizioni concordatarie.
VIII. Ma se ciò è vero, è altrettanto vero che invece la prolungata convivenza come coniugi, dopo il matrimonio, non può rilevare come limite generale per la delibazione di sentenze ecclesiastiche che abbiano accertato ipotesi di nullità del matrimonio previste come tali anche dall’ordinamento italiano, senza termini di decadenza o fattispecie di sanatoria, o con limiti tutt’affatto distinti dalla protratta convivenza in sé.
Codeste situazioni, per quanto corrispondenti a quelle eventualmente ritenute dall’ordinamento canonico, non possono tradurre la protratta convivenza in un limite (di ordine pubblico) che l’ordinamento nazionale non prevede neppure quanto alle fattispecie interamente disciplinate al proprio interno.
Il vizio genetico accertato dal tribunale ecclesiastico attiene, nel caso concreto, all’errore essenziale del marito siccome indotto da dolo della moglie: un errore sulle qualità personali della moglie stessa, da essa dolosamente taciute.
In particolare, l’errore aveva riguardato, secondo quanto dice la sentenza ecclesiastica, l’esistenza di una malattia (o se si vuole di una anomalia) tale da indurre la sterilità, e quindi da impedire, secondo quanto conforme alla sensibilità del coniuge, lo svolgimento della vita coniugale in un aspetto (la procreazione) per lui essenziale.
Una simile condizione sarebbe presidiata da nullità anche per l’ordinamento interno (art. 122, secondo e terzo comma, cod. civ.), sul semplice presupposto dell’essenzialità dell’errore in base alle sensibilità dell’altro coniuge. E in questi casi è vano discettare di matrimonio-rapporto protratto per tre anni (o più) come elemento impeditivo della rilevanza della nullità o come elemento di sanatoria, ove si consideri che neppure il codice civile contempla un tale aspetto in analoga caratteristica funzionale, e che l’art. 122 cod. civ. pone semmai come impeditivo il decorso del distinto termine di un anno di coabitazione dalla cessazione della causa di invalidità, ovvero di un anno dalla scoperta dell’errore.
IX. Ne segue che a torto la corte d’appello ha negato la delibazione della sentenza ecclesiastica invocando i principi di cui alla citata sentenza delle Sezioni unite di questa Corte n. 16379-14.
La decisione va cassata con rinvio alla medesima corte d’appello, in diversa composizione, per nuovo esame.
La corte d’appello si uniformerà al seguente principio:
- la convivenza "come coniugi", pur essendo elemento essenziale del "matrimonio-rapporto" ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, e pur integrando una situazione giuridica di "ordine pubblico italiano", non è ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per vizi genetici del "matrimonio-atto" presidiati da nullità anche nell’ordinamento italiano; in particolare non è ostativa alla delibazione di sentenza ecclesiastica che accerti la nullità del matrimonio per errore essenziale sulle qualità personali dell’altro coniuge dovuto a dolo di questi, poiché una tale nullità non è sanabile, nell’ordinamento italiano, dalla protrazione della convivenza prima della scoperta del vizio.
La corte d’appello provvederà sulle spese del giudizio
svoltosi in questa sede di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia alla corte d’appello di Firenze anche per le spese del giudizio di cassazione.
Dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.