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13 luglio 2022
Reinveste i proventi illeciti nell’acquisto di bitcoin: è autoriciclaggio?

La moneta virtuale non può essere esclusa dall'ambito degli strumenti finanziari e speculativi per una corretta lettura dell'art. 648-ter, comma 1, c.p..

La Redazione

Il Tribunale di Milano, nelle vesti di giudice del riesame cautelare, rigettava il gravame proposto nell'interesse dell'indagato contro l'ordinanza del GIP applicativa della misura della custodia carceraria in relazione ai reati di truffa e autoriciclaggio.
Nello specifico, il Tribunale aveva ribadito la propria competenza territoriale, ritenuto sussistente l'aggravante di cui all'art. 61, n. 5, c.p. per le particolari condizioni del luogo che avevano favorito l'agente a discapito delle vittime, ovvero una piattaforma online, e ritenuto sussistenti altresì i gravi indizi di colpevolezza in relazione all'ipotesi di autoriciclaggio, considerando il reinvestimento dei proventi illeciti nell'acquisto di valuta virtuale.
Contro tale decisione, il difensore dell'indagato propone ricorso per cassazione lamentando, in particolare, il fatto che l'acquisto di bitcoin attraverso denaro di provenienza illecita non poteva configurare un'ipotesi di autoriciclaggio poiché mancava il requisito dell'impiego in attività speculativa. Inoltre, la difesa ritiene carente il requisito dell'idoneità della condotta ad impedire l'identificazione della provenienza illecita dei beni poiché tutti gli acquisti erano stati fatti nella piattaforma digitale e dunque con trasparenza di ogni transazione, oltre al fatto che l'account dell'indagato consentiva di individuare gli specifici bitcoin acquistati.

Con la sentenza n. 27023 del 13 luglio 2022, la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso per genericità dei motivi.
Innanzitutto, la Cassazione ha ritenuto corretta l'individuazione da parte del Tribunale della sua competenza territoriale sul caso in base al reato più grave, ovvero a quello di autoriciclaggio, visto l'evidente vincolo di connessione con i reati presupposti di truffa. A tal proposito, la Corte ha evidenziato che ciò che rileva è il luogo ove viene impiegato il denaro, cioè il conto corrente su cui le somme sono confluite dalle vittime dei raggiri per essere poi destinate al mercato estero; dunque, ai fini della competenza per territorio, occorre fare riferimento al Tribunale del luogo in cui si trova la banca ove l'agente ha aperto quel conto corrente e ha operato da remoto.

Quanto al motivo di ricorso, poi, la Corte rileva che il ricorrente non si è confrontato con un aspetto rilevante riguardante il fatto che la moneta virtuale non può essere esclusa dall'ambito degli strumenti finanziari e speculativi ai fini di una corretta lettura dell'art. 648-ter, comma 1, c.p., ribadendo alcuni punti fondamentali in materia, tra cui il fatto che la dottrina abbia sottolineato che il sistema di acquisto di bitcoin ben si presta ad agevolare condotte illecite, vista la possibilità di garantire un alto grado di anonimato.
Segue la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

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