Per il Consiglio di Stato, anche a fronte della richiesta di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, se l'amministrazione verifica preliminarmente che l'intervento per il quale è richiesto il titolo sia precluso in assoluto, il procedimento deve arrestarsi ad una fase preliminare rispetto al vero e proprio giudizio di compatibilità.
La controversia trae origine dall'appello proposto da un proprietario di un terreno avverso la sentenza con cui era stata respinta la sua istanza di autorizzazione paesaggistica per cambio di destinazione d'uso, previa demolizione, di preesistente manufatto. Nello specifico, la richiesta era stata avanzata ai sensi dell'
Il primo Giudice riteneva corretta la determinazione del Comune in quanto basata sull'inammissibilità di un intervento di ristrutturazione, cui deve essere ricondotto quello del caso di specie. L'immobile non poteva essere considerato “edificio rurale”, trattandosi di una baracca, e pertanto non destinato ad uso abitativo. L'appellante lamenta il difetto di motivazione del diniego di autorizzazione paesaggistica, in quanto priva di ogni riferimento a valutazioni di impatto ambientale.
Con la sentenza n. 6180 del 18 luglio 2022, il Consiglio di Stato rigetta il gravame. Nelle sue argomentazioni, ricorda anzitutto il procedimento diretto al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica precisando che, una volta ricevuta l'istanza, l'amministrazione verifica preliminarmente la necessità del titolo, accertando che non si versi in quelle tipologie di interventi per le quali l'art. 149, c. 1, cit. la esclude.
Pertanto, prosegue il Palazzo Spada, laddove l'intervento per il quale è richiesto il titolo sia precluso in assoluto nell'area di riferimento, il procedimento deve arrestarsi ad una fase preliminare rispetto al vero e proprio giudizio di compatibilità.
Sulla questione aggiunge che «l'accertamento di conformità di cui all'art. 36 del
Consiglio di Stato, Sezione Seconda, sentenza (ud. 7 giugno 2022) 18 luglio 2022, n. 6180
Svolgimento del processo
1. Con l’appello in trattazione il signor R.V., proprietario di un terreno sito alla via (omissis), particella (omissis), del Comune di Massa Lubrense, ha impugnato la sentenza del T.A.R. per la Campania segnata in epigrafe di rigetto del ricorso per l’annullamento del provvedimento del 2 aprile 2019, con il quale era stata respinta la sua istanza di autorizzazione paesaggistica per cambio di destinazione d’uso, previa demolizione, di preesistente manufatto (baracca in lamiera). Nello specifico, la richiesta era stata avanzata ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, a corredo di una s.c.i.a. in variante rispetto alle prescrizioni contenute nella concessione in sanatoria.
1.1. Il primo giudice ha ritenuto corretta la determinazione del Comune in quanto basata sulla inammissibilità di un intervento di ristrutturazione, cui deve essere ricondotto quello di cui è causa, giusta la disciplina urbanistica e vincolistica vigente nella zona, classificata come “1/b” nel Piano urbanistico territoriale (PUT) e omogenea “E2/1” nel Piano regolatore generale (PRG). D’altro canto, non può trovare applicazione in funzione derogatoria la legge regionale per la Campania del 28 dicembre 2009, n. 19 (c.d. “Piano casa”), stante che il combinato disposto degli artt. 2, lett. b) e 6-bis, laddove consente di intervenire su «edifici rurali, ubicati fuori dalle zone classificate agricole», richiede comunque che essi siano già «destinati parzialmente ad uso abitativo», mentre l’immobile de quo né può essere considerato “edificio rurale”, trattandosi di una baracca, né è destinato, seppure parzialmente, ad uso abitativo. La natura vincolata del provvedimento impugnato ne ha infine consentito l’integrazione motivazionale in corso di causa, in applicazione dei principi rivenienti dall’art. 21 octies della l. 7 agosto 1990, n. 241.
2. L’appellante lamenta l’omesso scrutinio di un motivo decisivo (sub A) e l’erroneità nel merito della sentenza impugnata (sub B). Sotto il primo profilo evidenzia come il T.A.R. non avrebbe tenuto in debito conto la natura dell’atto impugnato che, in quanto attinente alla tutela del paesaggio, non poteva basarsi esclusivamente su valutazioni di tipo urbanistico-edilizio; sotto il secondo ha articolato molteplici censure, rivendicando in particolare l’applicabilità della l.r. n. 19 del 2009, erroneamente esclusa dal primo giudice, che anzi vi ha ravvisato «un’ulteriore ragione ostativa all’accoglimento dell’istanza», con ciò dando seguito ad un’argomentazione introdotta per la prima volta dalla controparte in una memoria difensiva, ma asseritamente estranea al contenuto dell’atto impugnato.
3. Nel giudizio di appello il Comune di Massa Lubrense non si è costituito.
4. Con ordinanza n. 860 del 24 febbraio 2022 la Sezione ha dichiarato improcedibile la domanda cautelare, prendendo atto della rinuncia alla stessa manifestata in udienza dalla difesa della parte.
5. All’udienza del 7 giugno 2022 l’appello è stato trattenuto per la decisione.
Motivi della decisione
6. Al di là della semplicità nel suo nucleo fattuale, riconducibile all’avvenuta realizzazione sine titulo di una baracca in lamiera per la quale è stata chiesta e ottenuta la sanatoria, la controversia interseca delicate questioni di diritto, anche per le scelte procedimentali del Comune di Massa Lubrense, che tuttavia, pur nella loro non sempre chiara enunciazione formale, non possono certo risolversi nell’avallo della realizzazione di una casa di abitazione in zona soggetta a vincolo di inedificabilità assoluta, come sostanzialmente preteso dall’appellante.
7. In punto di fatto va ricordato che con concessione edilizia n. 58/c del 20 novembre 2017, rilasciata a seguito di istanza presentata nel 1986, è stata sanata una «baracca costituita da pannelli in lamierato metallico sorretti da una struttura lignea in pali di castagno» (v. testualmente l’istanza di condono edilizio prot. n. 17050/86), prevedendone altresì il completamento/modifica sia con riguardo ai materiali da utilizzare in sostituzione dei preesistenti, sia in termini di riduzione di volume per una superficie netta sanata di circa mq. 31.
In data 19 dicembre 2017 è stata poi inoltrata dall’interessato la comunicazione di inizio dei lavori, salvo presentare, a distanza di pochi giorni (22 dicembre 2017), una “s.c.i.a. in variante” per il cambio di destinazione d’uso del manufatto, da demolire per poi essere ricostruito interamente in muratura.
Con istanza prot. n. 850 del 10 gennaio 2019, peraltro su sollecito istruttorio del competente ufficio comunale, l’appellante ha avanzato richiesta di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, ipotizzando la possibilità di avvalersi della procedura semplificata prevista dal d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31, cui il Comune ha dato riscontro negativo con l’atto oggetto di impugnazione, previo inoltro del relativo preavviso di diniego (nota prot. 850/19-8689 dell’11 febbraio 2019).
8. Secondo l’appellante il primo giudice non si sarebbe pronunciato su una delle censure proposte, ovvero il difetto di motivazione del diniego di autorizzazione paesaggistica, in quanto priva di ogni riferimento a valutazioni di impatto ambientale, limitandosi a richiamare le (asserite) problematiche urbanistico-edilizie sottese all’intervento.
8.1. La censura è infondata, seppure con le precisazioni che seguono.
8.2. Ha affermato il T.A.R. che la legittimità del provvedimento impugnato consegue alla radicale inammissibilità dell’intervento richiesto (cambio di destinazione d’uso dell’immobile, previa demolizione del manufatto in lamiera, ricostruendolo non in legno, come previsto dal titolo, ma in muratura) sulla base del regime giuridico contenuto nel PUT, nel PRG e nella l.r. Campania n. 19 del 2009.
8.3. Il terreno su cui insiste il manufatto ricade infatti in zona territoriale “1b” del PUT dell’area sorrentino-amalfitana ed in zona omogenea “E2/1” del PRG, con riferimento alla quale è in generale preclusa qualsivoglia nuova edificazione. Uniche attività ammesse, pur sempre sul patrimonio immobiliare preesistente, sono quelle di manutenzione ordinaria, straordinaria e, entro certi limiti, di restauro conservativo (art. 17 del PUT), ai cui paradigmi non può in alcun modo essere ricondotta un’attività di demolizione totale e successiva ricostruzione in muratura con conseguente cambio di destinazione d’uso da agricola a residenziale.
9. L’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 disciplina il procedimento di autorizzazione degli interventi di trasformazione del territorio aventi l’attitudine ad incidere permanentemente sui valori paesaggistici, la cui rilevanza assume una valenza superiore a quella meramente estetica, tradizionalmente limitata alla visione panoramica e alla percezione “empirica” delle opere. Rispetto alla previgente disciplina, contenuta nell’art. 7 della legge n. 1497 del 1939, si riconosce che la norma persegue una protezione più ampia, non riferibile ai soli singoli immobili dotati di particolare pregio o rilevanza estetica, approntando una strumentazione giuridica finalizzata alla salvaguardia del complesso di interessi che sono considerati manifestazione di valore identitario, di sedimentazione culturale, attrattività turistica e riferimento di un territorio, derivanti da interventi antropici e naturali, nonché dalla loro interazione.
Sotto tale profilo non può non condividersi la enfatizzata autonomia, da parte dell’appellante, del titolo paesaggistico rispetto a quello edilizio, anche nella parte in cui quest’ultimo esprime i valori di ordinato sviluppo del territorio sottesi alle scelte urbanistiche attuate nei singoli provvedimenti di pianificazione; il che del resto ha trovato pieno conforto nella giurisprudenza, secondo cui l’autorizzazione paesaggistica non deve indulgere alla valutazione della compresenza di qualsiasi altro interesse pubblico, anche di analoga valenza, quale la tutela dell’ambiente (v. Cons. Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640).
9.1. Sull’istanza di autorizzazione paesaggistica è competente la Regione, ovvero l’ente dalla stessa delegato, vale a dire, nella maggior parte dei casi, i Comuni. Essa deve previamente acquisire il parere vincolante del Soprintendente, il quale si pronuncia entro un termine indicato, diverso per estensione e significatività laddove si tratti di autorizzazioni c.d. “semplificate”, ovvero riferibili agli interventi minori oggetto del d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31 (cui l’appellante, come già ricordato, pretende di ricondurre anche quello di cui è causa).
10. Esula dalla presente controversia ogni indagine sulla natura co-gestoria del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (questione che ha dato adito a significativi dibattiti, anche in ragione della recente novella costituzionale, circa gli effetti del silenzio o del tardivo esercizio del potere della Soprintendenza, nonché in ordine all’an e al quomodo dell’applicazione degli istituti di cui agli artt. 17-bis e 2, comma 8-bis, della legge n. 241 del 1990, quest’ultimo introdotto dalla l. n. 120 del 2020), giacchè le relative problematiche attengono al piano del perfezionamento e sviluppo del procedimento, non a quello del momento del suo avvio, che costituisce l’oggetto della fattispecie.
10.1. Ciò posto, si osserva che il procedimento diretto al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica comporta che l’amministrazione competente, una volta ricevuta l’istanza, verifichi preliminarmente la necessità del titolo, accertando che non si versi in quelle tipologie di interventi per i quali l’art. 149, comma 1, la esclude. Il controllo, sotto il profilo formale, che la documentazione allegata all’istanza sia conforme a quanto prescritto dal comma 3 dell’art. 146 (e quindi dal d.P.C.M. 12 dicembre 2005, attuativo della norma primaria), sopraggiunge in una fase successiva e può comportare la richiesta all’interessato, in caso di rilevata carenza e/o insufficienza di quanto prodotto, delle opportune integrazioni utili al fine dell’effettuazione degli «accertamenti del caso». In concreto quindi l’amministrazione è chiamata a verificare «la conformità dell’intervento proposto con le prescrizioni contenute nei provvedimenti di dichiarazione di interesse pubblico e nei piani paesaggistici».
Non può ragionevolmente negarsi che laddove l’intervento per il quale è richiesto il titolo sia precluso in assoluto nell’area di riferimento, il procedimento debba arrestarsi ad una fase preliminare rispetto al vero e proprio giudizio di compatibilità paesaggistica. Invero il senso fatto proprio dal tenore letterale delle parole, che impone «gli accertamenti del caso» in funzione del rispetto della regolamentazione vincolistica, implica innanzitutto uno screening preventivo destinato a sfociare in un immediato rigetto laddove più approfondite valutazioni di merito si palesino del tutto superflue, per la radicale inammissibilità tipologica dell’attività edilizia: ciò del resto risponde a elementari ragioni di economia procedimentale che impongono di non onerare inutilmente la Soprintendenza di un’attività priva di qualsiasi utilità, allorquando non sussista alcuna possibilità di realizzare alcunché.
10.2. Il che è quanto si è verificato nel caso di specie e di cui era ben consapevole anche l’appellante, stante che le osservazioni inoltrate dal progettista in riscontro al preavviso di diniego non lambiscono in alcun modo l’ambito paesaggistico, ma si dilungano piuttosto sulla assentibilità urbanistica dell’opera, in ragione della rivendicata consistenza di “edificio” preesistente della baracca oggetto del condono.
11. Il cambio di destinazione d’uso “strutturale” o con opere è stato peraltro richiesto non avanzando istanza di permesso di costruire, nella evidente consapevolezza che non ne era possibile il rilascio, bensì in variante al “progetto” migliorativo costituente il presupposto di assenso della sanatoria e dunque in variante rispetto alla stessa.
11.1. E’ appena il caso di sottolineare al riguardo che in linea generale l’apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio è ammissibile soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o di regolamento. Non è invece possibile laddove si intenda con le stesse perseguire finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato – legato allo svolgimento dell’attività edificatoria – così da funzionalizzarlo ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore.
11.2. A ben diverse conclusioni si deve invece giungere con riferimento alla apponibilità di “prescrizioni” al titolo edilizio rilasciato in sanatoria.
Va al riguardo ricordato che col termine “sanatoria” vengono tradizionalmente intesi due istituti completamente diversi per presupposti e finalità, il cui unico tratto comune è dato dalla circostanza che entrambi si risolvono nella legittimazione di un intervento successiva alla sua realizzazione. L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria”, consiste nella regolarizzazione di abusi “formali”, in quanto l’opera è stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dallo stesso, ma senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda (c.d. “doppia conformità”). La genesi dell’istituto risale alla legge 28 febbraio 1985, n. 47 (art. 13), che ha ripreso, ampliandone la portata, la limitata previsione già contenuta nella l. 28 gennaio 1977, n.10, ed è oggi trasfusa nell’articolo 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (T.U.E.), che prevede un procedimento a domanda, sostituito in alcune Regioni dalla presentazione di una s.c.i.a. La parola “condono” invece, seppure entrata nell’uso comune, a stretto rigore non figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia linguistica ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie penale identificabile nella relativa costruzione.
11.3. Con riferimento all’accertamento di conformità o sanatoria ordinaria, per come oggi definita dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, la tesi ostativa alla apposizione di condizioni muove dall’assunto che il presupposto espressamente richiesto dalla norma è che l’intervento da sanare risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda. Il divieto di contenere prescrizioni è diretto corollario di tale cornice giuridica, poiché altrimenti si finirebbe per postulare non già la “doppia conformità” delle opere abusive richiesta dalla norma, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente né al momento della realizzazione delle opere, né al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, bensì – eventualmente – solo alla data futura e incerta in cui il ricorrente abbia ottemperato alle stesse (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 8 settembre 2015, n. 4176, secondo cui «alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità», atteso che «contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica»).
12. Il Comune di Massa Lubrense, che ha evaso solo nel 2017 l’istanza del 1986 ai sensi della l. n. 47 del 1985, ha finito per richiamare nelle premesse della sanatoria del 2017 tutte le normative relative (anche) ai successivi condoni del 1994 e del 2003: ma sempre di condono e non di accertamento di conformità si tratta.
Pur non potendo estendere al caso di specie le considerazioni ostative connesse al requisito della doppia conformità, in quanto non operante, l’approccio alla facoltà di apporre condizioni ad una sanatoria non può non essere egualmente cauto, in quanto esse comunque accedono ad un titolo che presuppone l’avvenuta ultimazione dell’opera. Il condono, cioè, al pari di qualsivoglia sanatoria e proprio in quanto tale, non può essere utilizzato per legittimare attività edilizia nuova ed ulteriore rispetto a quella oggetto della richiesta, da porre in essere in epoca successiva al limite temporale che la legge prende di volta in volta in considerazione quale precondizione perché possa farsi in concreto applicazione dell’istituto clemenziale. Esso va a sanare sul piano giuridico (nel concorso delle condizioni previste) una situazione di fatto costituita dalla presenza di opere edilizie già realizzate sine titulo ovvero con variazioni essenziali rispetto allo stesso, che altrimenti non potrebbero essere utilizzate, e costituisce la soluzione alternativa rispetto alla demolizione in funzione del ripristino dell’ordine urbanistico-edilizio violato.
Tuttavia, proprio in ragione di tale finalità, che implica l’ “accettazione” di un’opera, la cui compatibilità col contesto non è stata previamente vagliata, non si è mai radicalmente escluso che il provvedimento di sanatoria possa congiuntamente abilitare l’interessato alla realizzazione di interventi di mero completamento del fabbricato abusivo, inteso esso in accezione rigorosamente restrittiva, ovvero senza incrementi volumetrici o di superfici, al solo fine di rendere possibile l’ordinaria utilizzazione, conformemente alla sua destinazione d’uso, ovvero per mitigarne l’impatto paesaggistico, rendendolo maggiormente coerente con il contesto ambientale. Tale genere di interventi (normalmente di natura edilizia, ma non solo, ove si pensi, ad esempio, alla semplice piantumazione di nuove essenze arboree) non potrebbero essere scissi, già sul piano logico-funzionale, dal titolo in sanatoria, che anzi viene rilasciato solo a condizione che essi siano realizzati, conformemente al progetto presentato. La nozione di completamento funzionale implica tuttavia uno stato di avanzamento nella realizzazione dell’immobile tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione; in altri termini l’organismo edilizio, non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planivolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tamponatura), ma anche una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso (Cons. di Stato, Sez. VI, 20 febbraio 2019, n. 1190).
13. A tali evenienze sono state così ricondotte le condizioni miranti a migliorare -recte, più semplicemente a rendere “accettabile” – l’impatto visivo di manufatti che per la loro risalenza nel tempo, la tipologia di materiali utilizzati, la totale incuria manutentiva, avrebbero finito per cristallizzare, ove mantenuti nel loro status quo ante, situazioni di vero e proprio degrado urbano. Da qui le “condizioni” di “ricostruire” l’immobile sanato utilizzando materiali più consoni, o diverse rifiniture o semplicemente tinteggiature, indebitamente assorbendo, in verità, nel titolo la parte ad esso intrinsecamente consona di “congelamento” dello stato di fatto preesistente, con un’attività di sostanziale riedificazione, la cui legittimazione ex ante è tutt’affatto scontata non foss’altro che per la possibile sopravvenienza di vincoli. Il tutto, evidentemente, purché il volume da condonare non sia riferibile ad una struttura la cui fatiscenza o livello di ammaloramento o finanche consistenza originaria è tale da non consentirne neppure la qualificazione come “immobile”, e dunque, più in generale, quale “edificio” o “manufatto” che dir si voglia, valorizzandone la sostanziale precarietà ai fini di un ipotetico diniego del titolo.
13.1. E’ evidente pertanto che nell’utilizzare tali condizioni l’amministrazione deve ricercare con attenzione il giusto punto di equilibrio tra comprensibili esigenze di funzionalità e miglioramento estetico-qualitativo riconducibili al dato di fatto della conseguente legittimazione del mantenimento del manufatto in sito, e portata sanante del titolo, che proprio in quanto tale deve essere rivolta esclusivamente al passato, pena la compromissione dei più elementari principi di certezza del diritto, che non consentono “fluttuazioni” dello stato di fatto ad esso sotteso.
13.2. Ben diversa è la disciplina del “completamento funzionale” di un intervento abusivo espressamente previsto del legislatore, che all’art. 43, comma 5, della l. n. 47 del 1985, consente appunto la sanatoria di un’opera che non si è potuto completare «per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità». Non avendo la norma utilizzato il consueto riferimento alla “ultimazione” delle opere, ne è evidente l’applicabilità anche a manufatti non completi al rustico ovvero mancanti delle sole finiture, purché più genericamente “realizzati”. «Il che può dirsi anche se difettano le tamponature esterne, nei termini in cui questo risultato consenta comunque di percepire la concreta fisionomia del manufatto e la sua destinazione, cioè di identificare nei tratti essenziali l’opera da sanare e completare» (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16 maggio 2022, n. 3806; id., 9 gennaio 2014, n. 39). Va peraltro ricordato come essa trovi applicazione anche nel caso in cui esistano provvedimenti sanzionatori, non ancora eseguiti, adottati a seguito di giudizio di ottemperanza (art. 12-bis del d.l. 12 gennaio 1988, n. 2, convertito, con modificazioni dalla l. 13 marzo 1988, n. 68).
14. La concessione in sanatoria della baracca di cui è causa è stata dunque “condizionata” sia alla (peraltro richiesta) sostituzione degli originari pannelli in lamiera metallica con tavolato ed assiti di legno e successiva copertura di tegole del tipo a coppi napoletane su struttura lignea e/o di ferro, sia imponendo una riduzione volumetrica. Il tutto sulla scorta anche dei pareri rilasciati dalla Soprintendenza per i beni ambientali di Napoli, il cui contenuto, richiamato per relationem, costituisce parte integrante della descrizione dell’intervento. Il Comune tuttavia ha inteso interpretare tali “condizioni” non come sostanzialmente contestuali al condono medesimo, in quanto diretto effetto dello stesso, bensì come indicazioni progettuali, richiamando perfino la tempistica di avvio e di successiva ultimazione dei lavori così da introdurre un’indebita promiscuità di regime giuridico rispetto ad un vero e proprio permesso ordinario. Da qui l’equivoco –recte, la strumentalizzazione – della prospettiva “aperta” del titolo da parte dell’appellante, che ne ha addirittura tentato la variante in corso d’opera.
15. L’avvenuto utilizzo di “condizioni” in un condono, peraltro, impone all’interprete la non facile ricerca delle possibili conseguenze della loro inosservanza, in assoluto (si pensi alla configurabilità o meno dell’ipotesi di illecito di cui all’art. 44, comma 1, lett. a), del T.u.e., riferito all’inosservanza, tra l’altro, anche delle prescrizioni contenute in un permesso di costruire, in verità ordinario), ma soprattutto in relazione alla originaria validità e efficacia del titolo cui esse accedono.
La natura sostanzialmente dovuta del condono a condizioni date, porterebbe a ritenere la condizione tamquam non esset, con conseguente efficacia della sanatoria nella sua funzione originaria di legittimazione postuma di quel che c’è, ove possibile per consistenza, e non di quello che sarebbe stato meglio realizzare. A diverse conclusioni deve tuttavia giungersi laddove il proprietario abbia spontaneamente deciso di dare avvio ai lavori di adeguamento alla condizione imposta, con ciò trasformando l’abuso in un “cantiere” e i lavori in “non ultimati”, sì da far venire meno, a maggior ragione laddove la situazione si protragga nel tempo, i presupposti dell’operatività del condono.
16. Nel caso in esame infatti, come già chiarito sopra, il Comune ha preteso dalla proprietà una modifica dei materiali (agevolmente comprensibile nella logica migliorativa poc’anzi esposta), nonché una (assai meno spiegabile) riduzione volumetrica del manufatto, ma ha inteso anche imporre una tempistica precisa di realizzazione dell’intervento, mutuata da quella del permesso di costruire ordinario, ovvero 12 mesi per avviare i lavori e tre anni per ultimarli. Per quanto anomala tuttavia si presenti la sanatoria condizionata rilasciata all’appellante dal Comune di Massa Lubrense, la sua immutata natura di titolo di legittimazione postumo si palesa ontologicamente incompatibile con l’ipotizzata variazione di una (inesistente) progettualità già assentita.
16.1. Ai fini della riconducibilità delle modifiche ad un progetto assentito a semplice s.c.i.a. in variante, la normativa (art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001) richiede espressamente che esse non abbiano inciso sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificato la destinazione d’uso e la categoria edilizia, alterato la sagoma dell’edificio, nonché che non siano state violate le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Requisiti tutti insussistenti nella fattispecie in esame, dichiaratamente volta ad una modifica di destinazione d’uso tra categorie di sicuro impatto urbanistico diversificato, per giunta “camuffando” quale “modifica” (variante, appunto) la sostanziale inosservanza delle prescrizioni costruttive imposte.
L’intera operazione configurerebbe piuttosto, ove accessiva ad un permesso di costruire ordinario, una variazione essenziale dallo stesso, come tale necessitante di autonomo titolo edilizio, ovviamente non conseguibile nelle zone di cui è causa. Mentre le varianti in senso proprio, infatti, comportano modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto ad un progetto approvato, e sono per tale ragione soggette al rilascio di un titolo complementare e accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto a quello originario; le varianti essenziali si caratterizzano per l’incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall’art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, e pertanto per esse, soggette comunque al rilascio di permesso di costruire nuovo ed autonomo rispetto a quello originario, valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante (cfr. Cassazione penale, sez. III, 27 febbraio 2014, n. 34099). In base alla norma infatti, si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, ubicazione, nonché, per quanto di specifico interesse, destinazione. Il che è quanto si configura nel caso di specie, ove in luogo della baracca ad uso agricolo che si va a demolire si vorrebbe realizzare non un manufatto eguale per destinazione, ma migliorato per materiali (legname, anziché lamiere), ma addirittura una casa di abitazione, come tale necessariamente in muratura.
17. Tali considerazioni sono ben sintetizzate nel corpo del provvedimento impugnato, laddove si afferma che le opere che si vorrebbero realizzare, «sebbene richieste come variante alla concessione edilizia (condono) n. 58/17, di fatto, sono relative alla trasformazione di una baracca costituita da pannelli in lamierato metallico (lamiere zincate), sorrette da una struttura lignea in pali di castagno, di cui si prevede la totale demolizione con successiva ricostruzione di un manufatto in muratura, con cambio di destinazione d’uso in abitazione», senza che peraltro si sia neppure ipotizzato l’utilizzo di materiali lignei, dato che la variante, presentata a pochi giorni di distanza dalla comunicazione di inizio lavori, pare conseguire ad un disegno originario, piuttosto che porre rimedio a difficoltà esecutive o mutamenti di fatto sopravvenuti.
18. Quanto alla “modifica di destinazione d’uso” deve poi osservarsi come essa non costituisca una tipologia di intervento edilizio ex se, bensì piuttosto l’effetto dello stesso. Non a caso la relativa dizione non figura nell’elenco delle definizioni contenuto nell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma nelle singole declinazioni delle stesse, ora quale limite negativo (si pensi al concetto di manutenzione straordinaria di cui al comma 1, lettera b), che non può comportare «mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico», ovvero, più in generale, della destinazione d’uso originaria ove si concretizzi in frazionamenti o accorpamenti di unità immobiliari); ora, al contrario, come possibile esemplificazione contenutistica (come per il restauro e risanamento conservativo di cui alla successiva lettera c) che può determinare anche il mutamento delle destinazioni d’uso, purché compatibile con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso che i relativi interventi devono comunque rispettare). L’art. 10 del medesimo Testo unico a sua volta nel declinare gli interventi subordinati a permesso di costruire, demanda alle leggi regionali il compito di stabilire «quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività», con ciò conferendo dignità di autonomo intervento anche a quello meramente funzionale, o senza opere, quanto meno laddove si risolva comunque in un impatto sul carico urbanistico della zona.
18.1. Le categorie di destinazione urbanistica sono state introdotte a livello nazionale col c.d. decreto legge “Sblocca Italia” (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164) tramite l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo unico per l’edilizia, al preciso scopo di omogeneizzare le scelte di governo del territorio, evitando frammentazioni finanche terminologiche sicuramente contrarie ai più elementari principi di certezza del diritto e foriere di oneri aggiuntivi per i cittadini-utenti. La disposizione, che riduce a cinque le categorie previste (residenziale; turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale; rurale) individua, almeno in termini astratti e generali, raggruppamenti connotati da valutata similarità di carico urbanistico, tanto da qualificare “rilevante” il mutamento della destinazione d’uso dall’una all’altra, seppure non accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie (c.d. mutamento “funzionale”). All’interno di tali distinzioni generali l’identificazione delle categorie avviene ad opera della legislazione regionale e ancor più in dettaglio negli strumenti urbanistici comunali.
18.2. Il cambio di destinazione d’uso che consegue ad una demolizione integrale con successiva ricostruzione, configurando o una nuova costruzione o una ristrutturazione, necessita di titolo edilizio autonomo e non può in alcun modo essere assentito in variante, men che meno a concessione in sanatoria. Anche sotto tale profilo pertanto l’intervento di cui trattasi non era assentibile.
19. Resta da dire della pretesa riconducibilità dell’intervento al già richiamato regime di favore contenuto nel c.d. “Piano casa”, ovvero la l.r. n. 19 del 2009, che consente il recupero del preesistente patrimonio immobiliare rurale a prescindere dal sopravvenuto regime di inedificabilità dei suoli. Al riguardo deve richiamarsi, in linea con la giurisprudenza che ha marcato una netta distinzione fra pianificazione urbanistica e paesaggistica, la derogabilità soltanto della prima da parte della legislazione regionale in materia di c.d. “Piano casa” (cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. III, 10 gennaio 2020, n. 14242, ove, nel richiamare la giurisprudenza amministrativa, si afferma che, in ragione della gerarchia esistente fra pianificazione paesaggistica e pianificazione urbanistica, l’intervento del piano-casa può in generale limitatamente incidere sul solo profilo urbanistico e non anche su quello paesaggistico). Secondo quanto precisato dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenze n. 51 del 2006 e n. 308 del 2013), nell’esercizio delle proprie competenze in tema di edilizia ed urbanistica le Regioni, finanche a statuto speciale, non possono travalicare i vincoli posti dal legislatore nazionale attraverso l’emanazione di leggi qualificabili come “riforme economico-sociali”, anche sulla base del titolo di competenza legislativa nella materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, ora ricondotta anche ai principi generali (art. 9, comma 3, recentemente novellato), di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali o culturali. A ciò consegue che le disposizioni della l.r. n. 19 del 2009 non possono essere lette nel senso di consentire di edificare in deroga al vincolo paesaggistico.
20. L’art. 6-bis, in particolare, specificamente invocato dall’appellante, nel disciplinare gli interventi edilizi in zona agricola, ammette i mutamenti di destinazione d’uso di immobili o di loro parti, purché «regolarmente assentiti», per uso residenziale del proprietario dell’immobile o di chi abbia titolo a richiederli. Nel caso di specie, ammesso e non concesso che alla luce delle considerazioni svolte l’immobile possa considerarsi ancora “regolare”, esso non esiste neppure sul piano fattuale, atteso che per realizzarlo si ipotizza la demolizione totale della preesistente baracca in lamiera, condonata (solo) purché realizzata in legno. In sintesi, sia perché la baracca non può, o non può più considerarsi «regolarmente assentita», come richiesto dalla norma, sia perché essa, proprio in quanto tale, non è assimilabile ad un edificio ad uso anche parzialmente residenziale, cui alludono gli artt. 4 e 5 della l.r. n. 19 del 2009, richiamati dall’art. 6-bis, non è in alcun modo ipotizzabile una preesistenza tale da consentirne il recupero in funzione abitativa.
21. Né può ritenersi tale ricostruzione estranea al contenuto motivazionale dell’atto impugnato, siccome affermato dal primo giudice, che ha inteso valorizzare al riguardo l’intervento chiarificatore della difesa civica. Lo stesso infatti reca un esplicito richiamo alla l.r. n. 19 del 2009, ritenendola inapplicabile «in quanto le caratteristiche costruttive e tipologiche della struttura oggetto di intervento (baracca costituita dall’assemblaggio di pannelli in lamiere di carattere su struttura in pali in legno), non sono riconducibili alla definizione di immobile con le caratteristiche di “edificio “ai sensi dell’art. 2 e succ. previste dalla richiamata legge R.C. n. 19/09». La Parte II del medesimo atto, dedicata alla confutazione delle controdeduzioni di parte, riportando testualmente il contenuto definitorio dell’art. 2, lett. b), della medesima legge regionale, ribadisce come una baracca non possa essere parificata ad un “edificio residenziale”, nella logica di recupero del patrimonio rurale preesistente, né in senso ancor più lato a qualsivoglia “edificio”, non attagliandosi alle sue modalità costruttive nessuno dei sistemi individuati dall’art. 54 del d.P.R. n. 380 del 2001. In che misura tale affermata sostanziale inconsistenza strutturale avrebbe dovuto impattare sulla valutabilità della stessa domanda di condono è questione che esula dal perimetro dell’odierna controversia.
22. Quanto da ultimo affermato rende superfluo scrutinare ulteriormente la correttezza del richiamo all’art. 21 octies dellla l. n. 241 del 1990, laddove consente comunque all’amministrazione di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, essendo la norma in verità riferita più propriamente a quella specifica violazione formale costituita dalla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento.
23. Alla luce di quanto sopra, l’appello deve essere respinto nei sensi e con le integrazioni indicate.
24. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
25. Nulla sulle spese, stante la mancata costituzione in giudizio del Comune di Massa Lubrense.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.