Pertanto, esso entra a far parte del patrimonio della società, non determinando la nascita di un credito del socio verso la stessa.
La vicenda trae origine dalla cessione di un credito a titolo di finanziamento soci verso una società con espressa garanzia di esistenza del credito stesso. Dinanzi al Tribunale veniva chiesto l'accertamento dell'inesistenza di detto credito e di conseguenza l'accertamento della nullità o dell'inefficacia ovvero la risoluzione del contratto di cessione del credito. Il...
Svolgimento del processo
1. Dal contenuto della sentenza impugnata e degli atti di parte (ricorso e controricorso) risulta che: a mezzo di scrittura privata, non autenticata, del 21 giugno 2006, la C. R. s.p.a. (di seguito indicata come "C."), al tempo socia della R. S. s.r.l. in quanto proprietaria di quota di partecipazione al relativo capitale pari alla metà dell'intero, cedette a G. M. (che all'epoca era anche amministratore unico di R. S.), al prezzo di euro 140.734,51, credito verso R.S., "a titolo di finanziamento soci", pari a euro 140.734,51, prestando espressa garanzia di esistenza del credito medesimo;
F. B. garantì espressamente a C. il pagamento del prezzo di cessione da parte del cessionario M., prestando fideiussione;
in calce alla scrittura figura anche la seguente dichiarazione, sottoscritta da M. "quale Amministratore Unico e Legale Rappresentante Della R. S. S.r.l.": "per accettazione della cessione e riconoscimento dell'esistenza del credito Di C. oggetto della cessione";
con separata scrittura privata, non autenticata, del 21 giugno 2006, C. vendette a F. B. la proprietà della quota di partecipazione al capitale di R. S. (pari alla metà dell'intero) di cui essa era al tempo titolare.
2. G. M. e F. B. convennero la C. avanti il Tribunale di Rimini chiedendo: l'accertamento di inesistenza (ovvero la "incedibilità") del credito oggetto della sopra indicata cessione a titolo oneroso; di conseguenza, l'accertamento della nullità ovvero l'inefficacia ovvero la risoluzione di tale contratto di cessione di credito; in ogni caso, l'accertamento di insussistenza di debiti verso C., rispettivamente, derivanti dalla cessione e dalla fideiussione.
2.1 Costituitasi, C. chiese: il rigetto delle domande degli attori; in via riconvenzionale, sul presupposto che il prezzo pattuito per la cessione del credito non era stato pagato dal cessionario M. e neppure dal fideiussore B., la condanna di costoro (in quanto, rispettivamente, debitore principale e fideiussore) al pagamento, con il vincolo della solidarietà passiva, di euro 140.734,51, oltre interessi e, in subordine, nel caso di accertata invalidità del contratto di cessione di credito, la condanna del cessionario M. al risarcimento del danno ex art. 1388 cod. civ., avendo costui taciuto l'esistenza, a lui nota, della causa di invalidità del contratto.
2.3 Nel corso del processo: in conseguenza del decesso di F. B. venne dichiarata l'interruzione del processo che venne da C. riassunto nei confronti dei relativi eredi che non si costituirono; la società C. venne incorporata nella G. A. s.p.a.; intervenne la S. s.p.a. (poi trasformatasi in società a responsabilità limitata) quale cessionaria del credito fatto valere nel processo da C., che chiese che la domanda riconvenzionale di questa fosse accolta nei confronti di essa intervenuta.
2.4 Con sentenza emessa il 11 agosto 2009 il Tribunale di Rimini: rigettò le domande proposte dagli attori; accolse la domanda riconvenzionale principale e condannò M. e gli eredi di B. a pagare, col vincolo della solidarietà passiva, alla S. s.p.a. euro 140.734,51, aumentati di interessi in misura legale.
3. Adita da M. e da U. A., quali eredi di F. B., e da M. anche in proprio, la Corte di appello di Bologna, con sentenza emessa il 24 agosto 2015, in riforma della sentenza di primo grado: accertò la nullità, per inesistenza del relativo oggetto, del contratto di cessione di credito sopra indicato; condannò S. a restituire a M. euro 160.057,24, da costui pagati alla prima in esecuzione della sentenza di primo grado, aumentati di interessi in misura legale decorrenti dal 3 novembre 2010.
3.1 I motivi di tale decisione possono così sintetizzarsi:
al contrario di quanto affermato dalla sentenza appellata, la dichiarazione apposta da M., quale amministratore unico di R. S., "di riconoscimento dell'esistenza del credito di C. oggetto di cessione", non costituisce confessione stragiudiziale di esistenza del credito (art. 2730 cod. civ.) in quanto proveniente da R. S., estranea al giudizio, e non avente per oggetto fatti;
in esecuzione della deliberazione assunta dall'assemblea dei soci di R. S. il 11 marzo 1998, con cui venne chiesto ai soci "un versamento in conto capitale, quindi infruttifero, (....) in proporzione alle quote possedute", di f. 370.000.000, C. versò nelle casse di R. S. una somma di danaro pari a euro 140.734,51; dai bilanci relativi agli esercizi compresi fra il 1997 e il 2005, approvati dal socio C., risulta che il danaro versato dai soci in esecuzione della delibera non venne iscritto fra i debiti della società, bensì tra le "altre riserve", concorrenti alla formazione del patrimonio netto; infine, l'amministratore unico di R. S. registrò presso l'amministrazione finanziaria dello Stato i versamenti di danaro come conferimenti, con pagamento della relativa imposta, senza che il socio C. abbia sollevato obiezioni di sorta; si trattò dunque di un versamento in conto capitale alla società e non di un finanziamento in suo favore; il contratto di cessione di credito è quindi nullo per inesistenza del credito;
da rigettare è la domanda, subordinata, delle società appellate di condanna di M. al risarcimento del danno subito dalla cedente C. ex art. 1388 cod. civ., risultando quest'ultima a conoscenza della natura del versamento da essa eseguito nella casse della società partecipata alla luce del contenuto delle deliberazioni dell'assemblea di R.S. del 16 settembre 1997 e del 11 marzo 1998, assunte col voto favorevole della stessa C..
4. Per la cassazione di tale sentenza le società G. A. e S. hanno proposto ricorso contenente cinque motivi di impugnazione, assistiti da memoria.
5. Resiste con controricorso il solo G. M. che non dichiara di costituirsi anche quale coerede di F. B..
6. L'intimato U. A. (costituito nel giudizio di appello quale coerede di F. B.) non si è costituito.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo le ricorrenti deducono che la sentenza è caratterizzata da violazione ovvero falsa applicazione delle norme contenute negli artt. 1266, 1325, n. 3), 1418, secondo comma, cod. civ., in quanto: anche a voler qualificare il versamento di danaro fatto da C. a R. S. quale conferimento di capitale, il contratto di cessione di tale, in tesi inesistente, credito non è nullo, costituendo il precetto sulla garanzia di esistenza del credito di cui all'art. 1266 cod. civ. eccezione alla regola generale secondo cui l'inesistenza dell'oggetto dell'obbligazione dedotta in contratto ne determina la nullità (a sostegno dell'affermazione viene citata Cass. 29 luglio 2015, n. 16049).
Secondo le ricorrenti, dunque, la domanda di accertamento della nullità del contratto non avrebbe potuto essere accolta, al pari di quelle di accertamento negativo proposte dalle controparti, dal momento che costoro: non hanno mai esercitato l'azione di garanzia di cui all'art. 1266 cod. civ.; al momento della conclusione del contratto il cessionario M. era in malafede, avendo egli, quale amministratore unico di R. S., espressamente dichiarato, in calce al contratto, che il credito che ne costituiva l'oggetto era esistente.
2. La sentenza impugnata accerta la nullità, per inesistenza del relativo oggetto (artt. 1325, n. 3), 1346 e 1418, secondo comma, cod. civ.), del contratto di cessione, contro prezzo, del credito a suo tempo stipulato fra C. e M., sul rilievo secondo cui: il credito ceduto era quello di C. verso R. S. costituito da versamenti di danaro a tale società fatti dalla socia C. in attuazione delle deliberazioni assunte dall'assemblea di R.S. il 16 settembre 1997 e il 11 marzo 1998, con cui venne richiesto ai relativi soci due versamenti di danaro "in conto capitale", quindi non fruttiferi; tali versamenti di danaro non determinavano diritto della socia alla loro restituzione essendo stati eseguiti "in conto capitale"; tale qualificazione è fatta essenzialmente discendere dall'appostazione, nei bilanci di R. S. relativi agli esercizi degli anni compresi fra il 1997 e il 2005, approvati col voto favorevole della socia C., del danaro alla società versato da tale socia fra le "altre riserve".
La sentenza non spiega per quale ragione tale qualificazione delle dazioni di danaro in discorso determina l'inesistenza del credito di C. verso R. S. e, dunque, l'inesistenza dell'oggetto del contratto di cessione stipulato fra C. e M..
La conseguenza implicitamente ritraibile dalla qualificazione è però conforme al diritto.
2.1 La giurisprudenza di legittimità ha da tempo avuto modo di occuparsi della qualificazione da dare ai versamenti di danaro a vario titolo eseguiti alle società di capitali dai relativi soci, con particolare riferimento ai più frequenti: i finanziamenti in senso stretto; i versamenti di danaro a fondo perduto (denominati anche "in conto capitale"; i versamenti di danaro finalizzati a un futuro aumento di capitale (al riguardo, cfr., fra le molte: Cass. n. 12003 del 2012; Cass., n. 2758 del 2012; Cass. n. 21563 del 2008; Cass. n. 16393 del 2007; Cass. n. 7980 del 2007; per uno sguardo sistematico in argomento, cfr. Cass. n. 16049 çlel 2015).
La stessa giurisprudenza ha inoltre più volte precisato che, in funzione della qualificazione della dazione di danaro dal socio alla società quale finanziamento o come versamento in conto capitale o in contro futuro aumento di capitale, ove manchi una chiara manifestazione di volontà della società e del socio al momento della dazione di danaro dal secondo alla prima, la relativa chiave di lettura debba essere ricavata nella terminologia adottata nel bilancio, soggetto all'approvazione dei soci e le qualificazioni che i versamenti hanno ricevuto nel bilancio diventano determinanti per stabilire se si tratta di finanziamento o di conferimento (in questo senso, cfr.: Cass. n. 12539 del 1998; Cass. n. 21563 del 2008; Cass. n. 7471 del 2017).
I finanziamenti in senso proprio sono contratti di mutuo (art. 1813 cod. civ.), a forma libera, fra società e socio e il danaro dalla società ricevuto viene nel relativo bilancio iscritto al passivo dello stato patrimoniale fra i debiti verso i soci e deve essere da costei restituito al socio che, se cede a terzi la propria quota di partecipazione, conserva, salvo patto contrario nel contratto di cessione della quota, il diritto a vedersi restituito dalla società il danaro da lui dato a mutuo a costei.
I versamenti "in conto capitale" non comportano il diritto del socio al rimborso, vengono iscritti nel passivo dello stato patrimoniale tra le riserve, che l'assemblea può discrezionalmente utilizzare per eliminare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale, imputandole a ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione al capitale sociale, senza che occorra tener conto del soggetto che abbia operato il versamento, proprio in ragione dell'inesistenza di diritto di credito alla restituzione del danaro versato.
Nel caso, dunque, di versamento di danaro in conto capitale quanto dato dal socio viene definitivamente acquisto al patrimonio della società, essendo lo stesso assimilabile al capitale di rischio, cui vanno equiparate agli effetti sostanziali. La riserva così formata, al pari delle riserve ordinarie o facoltative per la quota eccedente la riserva legale, ha dunque di regola carattere disponibile, ma la distribuzione non costituisce un diritto soggettivo del socio.
In considerazione del rilievo secondo cui non può sostenersi che con il contratto di società o col conferimento successivo di danaro a capitale nasca in capo a ciascun socio una posizione giuridica soggettiva qualificabile in termini di diritto di credito ed avente ad oggetto la restituzione del conferimento di cui è parola all'art. 2350 cod. civ. (cfr. Cass. S.U., n. 22659 del 2008), Cass. n. 16049 del 2015 precisa che, nel caso di versamento di danaro in conto capitale, affermare «che... il diritto alla restituzione sussiste all'esito della liquidazione sociale ove vi sia un residuo da distribuire fra i soci, all'esito del pagamento di tutti i creditori, significa, allora, null'altro che assimilare in pieno tali apporti ai conferimenti ed al capitale di rischio: anch'esso, invero, verrà restituito all'esito della liquidazione dell'impresa collettiva. Vi è, per essi, una postergazione della restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali, esattamente come avviene per i conferimenti operati dal socio: è mera eventualità, dipendente dalla condizione in cui verrà a trovarsi il patrimonio sociale al momento della liquidazione della società ed alla possibilità che in tale patrimonio residuino valori sufficienti al rimborso dopo l'integrale soddisfacimento dei creditori».
La conseguenza di quanto evidenziato è - secondo la pronuncia da ultimo indicata - che l'assimilazione al capitale di rischio dei versamenti di danaro in conto capitale «ne rende impredicabile la cessione separata dalla stessa vendita della quota».
La giurisprudenza di legittimità è, infine, costante nell'affermare il principio secondo cui nel caso di versamento di danaro alla società di capitali da parte dei relativi soci che sia finalizzato (diversamente da quello di specie) a un individuabile futuro aumento di capitale da avverarsi entro un determinato termine, in tanto è configurabile un diritto dei soci alla restituzione del danaro così dato (prima e al di fuori del procedimento di liquidazione della società), in quanto il programmato aumento del capitale non venga deliberato entro il termine fissato (in tesi, anche dal giudice) e, dunque, sia venuta meno la causa giustificativa delle attribuzioni patrimoniali dai soci eseguite in favore della società (in questo senso, cfr.: Cass. n. 31186 del 2018; Cass. n. 16049 del 2015; Cass. n. 2314 del 1996).
Quando però l'aumento intervenga nel termine fissato e ne sia disposta l'esecuzione mediante imputazione a capitale in aumento della quota di ciascun socio del danaro a suo tempo versato da assegnare a ciascun socio in proporzione della sua quota di partecipazione al capitale, non vi è alcun diritto alla restituzione da parte della società del danaro a suo tempo a lei dato da ciascun socio in funzione del futuro aumento di capitale al fuori del procedimento della liquidazione della stessa società.
In definitiva, dunque, da quanto fin qui osservato è conforme a diritto la prima conseguenza che la sentenza impugnata ha fatto derivare dalla qualificazione in termini di versamento in conto capitale del danaro a suo tempo dato da C. a R. S. in attuazione delle deliberazioni assembleari dalla stessa sentenza citate: id est, l'inesistenza di un credito di detta socia nei confronti della società, essendo eventuale la restituzione del danaro in questione quale ultimo adempimento del procedimento di liquidazione di tale società.
2.2 La seconda conseguenza di detta qualificazione, costituita dall'accertata nullità del contratto avente per oggetto tale credito inesistente, è invece contraria al diritto delle obbligazioni e dei contratti (in riferimento agli artt. 1266, 1348 e 1472 cod. civ.), per come interpretato dalla più volte citata Cass. n. 16049 del 2018, secondo cui, in continuità con precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità (il riferimento è a: Cass. n. 11516 del 1993; Cass, n. 4040 del 1990; Cass, n. 1257 del 1988), l'art. 1266 cod. civ., in deroga alla disciplina di cui agli artt. 1325, n. 3), 1346, 1418, secondo comma, cod. civ., l'art. 1266 cod. civ, pone a carico del cedente il credito una mera obbligazione di "garanzia" (con la precisazione che «non si tratta di una garanzia in senso tecnico, ma una tutela contro la perdita del prezzo della cessione allorché il credito fosse, già a tale momento, inesistente»):la conseguenza è che «la cessione di un credito inesistente è valida, onde il cessionario è tenuto al pagamento del prezzo, che non diviene indebito, nel contempo godendo della "garanzia" ex lege» che «è accessoria, costituisce un effetto naturale del contratto ed ha la funzione di assicurare comunque il ristoro dell'interesse positivo del cessionario alla cessione, nei casi in cui l'effetto traslativo del contratto manchi, totalmente o parzialmente, a causa dell'inesistenza, completa o in parte, del credito o per altro impedimento equipollente (es. mancanza di legittimazione del cedente o nullità del credito)».
A tali principi è d'uopo in questa sede dare continuità, con conseguente fondatezza della censura, per come espressa nella pag. 8 del ricorso, e cassazione della sentenza impugnata nella parte in cui dall'inesistenza del credito in discorso ha fatto derivare la nullità del contratto di cessione a titolo oneroso dello stesso.
2.3 Restano estranee all'esame in questa sede consentito dal motivo le considerazioni che si leggono nelle pagg. 10, 11 e 12 del ricorso, tutte volte a far derivare dal rigetto della domanda di accertamento della nullità anche quello del rigetto delle altre domande di M. e degli eredi di F. B. (lo stesso M. e U. A.); e ciò, sul semplice rilievo che su tali domande, subordinate, la sentenza impugnata non si è pronunciata, avendo accolto la domanda di accertamento della nullità del contratto di cessione, contro prezzo, di credito inesistente alla base delle contrapposte domande ed eccezioni delle parti; con conseguente non necessità di esaminare le domande al rigetto della prima subordinate.
3. Con il secondo motivo le ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione ovvero falsa applicazione degli artt. 1939 e 1945 cod. civ. quanto alle azioni proseguite dagli eredi del fideiussore B., non potendo applicarsi al caso di specie il precetto contenuto nell'art. 1945 cod. civ. in ragione tanto della validità della cessione di credito che della non proposizione di azione ex art. 1622 cod. civ. e, in subordine, della non operatività di tale garanzia derivante dalla mala fede del contraente M..
4. Il motivo, per come formulato, è inammissibile in quanto: da un lato, non risulta che la sentenza impugnata contenga, in motivazione, una statuizione, esplicita ovvero implicita, di accertamento di nullità della fideiussione a suo tempo prestata da F. B. a garanzia dell'obbligazione di M. di pagamento del prezzo (di esplicita vi è solo, in motivazione e in dispositivo, la declaratoria di nullità del contratto di cessione del credito a suo tempo stipulato da C. e M.; non un rigo della motivazione è dedicato alla fideiussione), con conseguente mancanza di oggetto della censura; dall'altro, la sentenza impugnata, in ragione dell'accoglimento della domanda di accertamento della nullità del contratto di cessione di credito inesistente, ha ritenuto assorbite le domande subordinate proposte dal controricorrente; sì che è rimasta fuori dal perimetro della decisione la questione, inutilmente agitata dalle ricorrenti (pag. 13 del ricorso) relativa all'applicabilità della garanzia di cui all'art. 1266 cod. civ. che le ricorrenti affermano non essere stata sollevata neppure in via di eccezione di merito dalle controparti.
5. Con il terzo motivo le ricorrenti deducono che la sentenza impugnata è caratterizzata da violazione ovvero da falsa applicazione degli artt. 1362, 1391 e 2467 cod. civ., in quanto: nell'assimilare a conferimenti di capitale i versamenti di danaro a suo tempo fatti da C. a R. S., la sentenza ha violato il canone ermeneutico previsto dall'art. 1362 cod. civ., non avendo considerato il comportamento successivo da tali società rispettivamente tenuto dopo l'esecuzione dei versamenti medesimi; omettendo, in particolare, la Corte di appello di accertare che la volontà di C. era sempre stata quella di considerare tali versamenti come finanziamenti in favore della società di cui era socia e non quali versamenti in conto capitale e, soprattutto, che M., con la dichiarazione resa, quale amministratore unico di R.S., in calce all'atto di cessione di tali crediti, "esprimeva e identificava la volontà della società da lui rappresentata ... in ordine a tali finanziamenti".
6. Il motivo, per come formulato, è inammissibile in quanto: la censura si sostanzia in un omesso esame di fatti decisivi per il giudizio (i dedotti comportamenti successivi ai versamenti in danaro da C. eseguiti in favore di R. S. in attuazione delle deliberazioni assembleari nella sentenza di appello citate); tali comportamenti però (che le ricorrenti non indicano peraltro in cosa siano consistiti) le ricorrenti non deducono essere stati oggetto di discussione fra le parti (art. 360, n. 5), cod. proc. civ.) in funzione della ricostruzione della volontà negoziale espressa da socio (C.) e società (R. S.) di pattuire un finanziamento (id est, un mutuo) e non un versamento in conto capitale, come dalle ricorrenti stesse sostenuto.
Per debito di ragione è peraltro da evidenziare che, come rimarcato nel precedente § 2., è conforme ai principi più volte enunciati dalla giurisprudenza di legittimità la sentenza impugnata nella parte in cui ha valorizzato, in funzione della qualificazione dei versamenti di danaro in questione siccome eseguiti in conto capitale (non come finanziamenti), il contenuto dei bilanci di R. S. relativi agli esercizi degli anni compresi fra il 1997 e il 2005, approvati dalla socia C., da cui risultava che il danaro dato quest'ultima alla società in attuazione delle deliberazioni assembleari nella sentenza menzionate era stato appostato fra le "altre riserve" dello stato patrimoniale (pag. 7 sentenza).
7. Con il quarto motivo le ricorrenti affermano che la sentenza contiene violazione o falsa applicazione degli artt. 2730 e 2733 cod. civ. e omesso esame di fatto decisivo, avendo il giudice di appello escluso la natura sostanzialmente confessoria della dichiarazione resa da M., quale amministratore unico di R. S. di esistenza del credito oggetto di cessione, in calce al contratto di cessione da lui stesso sottoscritto.
8. La sentenza impugnata nega natura di confessione stragiudiziale alla dichiarazione, fatta da M., quale amministratore unico e, come tale, dotato dei poteri di rappresentanza sostanziale di R. S. (debitore ceduto), in calce al contratto di cessione, con cui costui affermò l'esistenza del credito di C. verso la società da lui rappresentata, in quanto: a) "ai sensi dell'art. 2370 c.c. la confessione, per definirsi tale, deve avere ad oggetto fatti e non opinioni o giudizi di carattere giuridico"; b) la dichiarazione in· discorso non proviene da una delle parti in giudizio (nella specie M.) ma è riferibile alla società R. S., avendo M. speso nel renderla il potere di rappresentanza sostanziale di tale società, estranea al giudizio.
La critica che le ricorrenti muovono all'affermazione sub a) è infondata, dal momento che l'affermazione di esistenza del credito di cui si discute costituisce conseguenza di una valutazione avente quale presupposto l'accertamento di un fatto (nella specie, costituito dalla dazione di danaro da C. eseguita in favore di R.S. in conto capitale) e un giudizio su tale fatto (la qualificazione di tale versamento di danaro in termini di credito di C. verso la società beneficiaria dell'attribuzione patrimoniale).
Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata afferma che la dichiarazione in discorso si colloca al fuori dell'ambito di applicabilità dell'art. 2730 cod. civ. e tale affermazione è sufficiente alla conferma della sentenza impugnata sul punto.
9. Con il quinto motivo, espressamente formulato per il caso di mancato accoglimento degli altri motivi, le ricorrenti censurano la sentenza anche per violazione o falsa applicazione dell'art. 1338 cod. civ. e omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in quanto: M., quale amministratore unico di R. S., non solo era a conoscenza della causa di invalidità del contratto di cessione, ma creò, con dolo, "l'apparenza della cessione di credito dichiarando espressamente, con affermazione in calce alla cessione, che il credito era esistente" e, come emerso nel corso del giudizio sottoscrisse l'atto "con la riserva mentale di impugnarlo immediatamente dopo al fine di non pagare il dovuto e venendo contra factum proprium"; l'invalidità del contratto deriva non da violazione di norma di legge, bensì dalla prevalenza di una interpretazione che le parti danno in merito alla qualificazione dell'oggetto dello stesso.
10. Non vi è obbligo per la Corte di esaminare tale censura in quanto sono le ricorrenti a condizionare tale esame al mancato accoglimento delle altre quattro censure. L'accoglimento del primo motivo determina dunque l'assorbimento del quinto.
11. In conclusione, in accoglimento de primo motivo, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di appello di Bologna che, in diversa composizione, dovrà pronunciarsi sulle contrapposte domande ed eccezioni delle parti (per come in appello dedotte) relative al, controverso, contratto di cessione di credito, osservando il seguente principio di diritto: "Il versamento di danaro fatto a società di capitali dal suo socio "in conto capitale" è assimilabile ai conferimenti e al capitale di rischio della società ed entra a far parte del suo patrimonio, sì che esso non determina la nascita di un credito del socio verso la società, essendo la sua restituzione al conferente meramente eventuale, in quanto dipendente dalla condizione in cui verrà a trovarsi il patrimonio sociale al momento della liquidazione della società e alla possibilità che in tale patrimonio residuino valori sufficienti al rimborso dopo l'integrale soddisfacimento dei creditori sociali. Il contratto che ha per oggetto la cessione, a titolo oneroso, di tale inesistente credito verso la società, dal suo socio stipulato con un terzo, non è però nullo per mancanza del relativo oggetto, bensì determina l'attribuzione al cessionario della garanzia prevista dall'art. 1266, primo comma, cod. civ., recante disposizione di diritto speciale, derogatoria della disciplina legale della nullità del contratto per inesistenza del relativo oggetto; con la conseguenza che la cessione è valida, sì che il cessionario è tenuto al pagamento del prezzo che non diviene indebito ed è, al contempo, attributario della garanzia di cui al citato articolo del codice civile".
Al giudice di rinvio è demandata la decisione relativa alla ripartizione fra le parti delle spese relative al presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara inammissibili il secondo e il terzo motivo; rigetta il quarto motivo; dichiara assorbito il quinto motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, cui demanda la decisione relativa alla ripartizione fra le parti delle spese del presente giudizio di cassazione.