Così come non è richiesto che l'azione maltrattante sia tale da rendere la vittima succube dell'agente. Elemento costitutivo del reato è infatti una condotta, composta da continui atti di vessazione, oggettivamente idonea a ledere la persona nella sua integrità psico-fisica.
Svolgimento del processo
l. La Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza di condanna messa all'esito di giudizio abbreviato, assolveva l'imputato dai reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale consumata e tentata, nonché tentata violenza privata, commessi, durante la convivenza more uxorio, ai danni di M. H..
Per quanto in questa sede di rilievo, la Corte di appello operava una completa ricostruzione del quadro probatorio, ritenendo che, in relazione al reato di maltrattamenti in famiglia, risultava provata la reiterazione abituale di atti offensivi commessi ai danni della persona offesa, condotte sorrette dal dolo generico consistito nella consapevolezza e volontà della condotta nella sua unitarietà. Nella sentenza, in particolare, veniva ricostruita la serie di offese e minacce che l'imputato rivolgeva nei confronti della convivente, anche alla presenza di figli minori giungendo, in più occasioni, ad istigare i figli a rivolgersi alla madre con appellativi gravemente offensivi.
Nonostante il quadro complessivamente accertato, la Corte di appello escludeva la sussistenza del reato di cui all'art. 572 cod. proc. pen., sul presupposto che la persona offesa non era rimasta succube delle vessazioni subite; in particolare, si afferma che tra i conviventi non si sarebbe creato quel rapporto "aguzzino-vittima" ritenuto necessario al fine della configurabilità del reato.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello, nonché la parte civile.
Con unico motivo di ricorso, il Procuratore generale ha dedotto l'erronea applicazione degli artt. 572 e 61, comma 11-quinquies cod. pen., nonché vizio di motivazione, evidenziando come la Corte di appello, pur ritenendo provati i fatti integranti il reato di maltrattamenti in famiglia,. ne avrebbe escluso la ricorrenza sulla base di valutazioni circa le ragioni della condotta lesiva e, soprattutto, escludendo che la persona offesa avrebbe percepito di essere sottoposta ad una condizione di vita umiliante e vessatoria.
3. Con il primo motivo di ricorso proposto dalla parte civile, si propongono doglianze del tutto sovrapponibili a quelle sollevate dalla parte pubblica, sottolineando come la Corte di appello avrebbe preved
Con il secondo motivo, inoltre, la parte civile deduce il vizio di motivazione in relazione alla mancata valutazione dell'aggravante di cui all'art. 61, n.11- quinquies, cod. pen., nonostante fosse emerso che i figli dei conviventi avevano assistito alle quotidiane aggressioni verbali e materiali subite dalla madre.
4. L'imputato ha depositato memoria difensiva con la quale ha chiesto che i ricorsi siano rigettati e, comunque, in caso di accoglimento, la rideterminazione della pena nel minimo di legge, con applicazione delle generiche e della sospensione condizionale della pena.
5. Il procedimento è stato trattato in forma cartolare, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d. I. n. 137 del 2020 e art.7 d .I. 23 luglio 2021, n.105.
Motivi della decisione
1. I ricorsi sono fondati.
2. Occorre premettere che l'impugnazione verte esclusivamente sull'imputazione relativa ai maltrattamenti in famiglia, sicché la sentenza assolutoria emessa in relazione alle restanti contestazioni è divenuta definitiva.
Con riguardo alla sola fattispecie di cui all'art. 572 cod. pen., la Corte di appello ha espressamente riconosciuto la sussistenza dei fatti contestati, pertanto la materialità della condotta non è suscettibile di ulteriore esame.
2.1. La Corte di appello, invero con motivazione non immune da censure, ha sottoposto a vaglio critico la versione dei fatti resa dalla persona offesa, riscontrando alcune incoerenze, nonché la strumentalità delle denunce dalla medesima presentate. È stato altresì stigmatizzato come alcuni dei messaggi inviati dall'imputato denotavano la fondata gelosia per le relazioni con altri uomini della persona offesa, giungendo ad affermare che l'imputato appariva come "un uomo rassegnato e mortificato dal disinteresse fisico della compagna piuttosto che di un predatore incurante del dissenso della donna".
Anche le testimonianze della vicina di casa e del medico curante della persona offesa, pur offrendo elementi di riscontro, sono state sminuite nella loro portata, avendo la Corte di appello ritenuto di evidenziare incongruenze rispetto alla versione offerta dalla persona offesa.
La Corte di appello, pur avendo reso una lettura riduttiva degli elementi a carico dell'imputato, non è giunta, tuttavia, ad escludere il dato obiettivo, costituito da una relazione interpersonale improntata a continue condotte offensive e denigratorie, che si sostanziavano nell'abituale aggressività verbale dell'imputato ai danni della convivente.
In tal senso depone quanto osservato dalla Corte di appello lì dove riconosce espressamente la sussistenza di atti offensivi connotati dal requisito dell'abitualità e sorretti dal dolo unitario proprio del reato di cui all'art. 572 cod. pen. (si veda pg.12 sentenza di appello).
Tale conclusione viene ribadita lì dove si afferma che «non si discute né della valenza offensiva e umiliante delle ingiurie dirette da Vultaggio alla compagna da maggio 2017 a dicembre 2017, né della loro abitualità» (p.25).
Quanto detto consente di affermare che il dato fattuale definitivamente accertato è che Vultaggio si è reso responsabile di condotte offensive e umilianti, commesse nei confronti della compagna e che - per come descritte nelle sentenze di merito - sono state poste in essere anche alla presenza dei figli minori.
3. L'oggetto del ricorso, pertanto, si riduce essenzialmente nel verificare la correttezza, sul piano prettamente giuridico, della tesi sostenuta dalla Corte di appello, secondo cui il reato di maltrattamenti presupporrebbe l'instaurazione di un rapporto "aguzzino-vittima", incompatibile con condotte della persona offesa che dimostrino come questa conservi la capacità di reagire, sia sul piano della risposta verbale, che comportamentale.
Sostiene, infatti, la Corte di appello, che la persona offesa non sarebbe divenuta succube del convivente, tant'è che nei messaggi di risposta inviati al convivente (in gran parte contenenti offese di vario genere) mostrava "solidità emotiva", rispondendo quasi con noncuranza alle accuse di infedeltà, mentre in alcuni casi ometteva qualsivoglia risposta.
In definitiva, si ritiene che la H. non sarebbe stata lesa dalle condotte poste in essere dal convivente, come dimostrato anche dal fatto che la stessa avrebbe scelto di proseguire la convivenza per convenienza propria ed interrompendola solo quando ha ritenuto opportuno farlo, senza preavvertire il compagno (pg.26).
Tutto ciò dimostrerebbe che la H. non si sia sentita sottoposta ad un regime di vita umiliante e intollerabile e non sia "rimasta succube" del convivente, con conseguente esclusione della sussistenza del reato di cui all'art. 572 cod. pen.
4. Le conclusioni cui giunge la sentenza impugnata confliggono con la consolidata giurisprudenza di questa Corte.
Il reato di cui all'art. 572 cod. proc. pen. richiede, quale elemento costitutivo, una condotta oggettivamente idonea a ledere la persona nella sua integrità psico fisica, consistente nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita (Sez.6, n.7192 del 04/12/2003, dep. 2004. Rv. 228461).
L'abitualità della condotta, pertanto, deve essere idonea a determinare uno stato di sofferenza e di umiliazione nella vittima senza che, tuttavia, ciò debba necessariamente comportare la riduzione della stessa in uno stato di sudditanza psicologica, come sembrerebbe intendere la Corte di appello.
A ben vedere, l'art. 572 cod. pen. - a differenza di quanto invece previsto nell'art. 612-bis cod. pen. - non richiede affatto un'indagine circa le conseguenze determinate sul piano strettamente interiore della persona offesa, indicando quale elemento costitutivo del reato la sola condotta oggettivamente maltrattante, posta in essere in maniera abituale.
Rispetto alla struttura del reato, pertanto, non è consentito introdurre un ulteriore elemento costitutivo rappresentato dall'instaurazione di un rapporto di soggezione della persona offesa, proprio perché la norma richiede esclusivamente che siano poste in essere atti idonei a "maltrattare" e, quindi, a provocare una sofferenza morale o psichica che, tuttavia, non deve necessariamente comportare che la vittima risulti soggiogata dall'autore del reato.
È del tutto irrilevante, pertanto, che la persona offesa dimostri una maggiore o minore capacità di resistenza, come pure il mantenimento di un'autonomia decisionale, posto che tali dati attengono essenzialmente ad un profilo strettamente soggettivo che, tuttavia, non inficiano l'idoneità della condotta illecita a determinare uno stato di sofferenza nella persona che la subisce.
Del resto, ove si ritenesse che i maltrattamenti integrino il reato di cui all'art. 572 cod. pen. solo in presenza della soggettiva percezione della loro offensività, si introdurrebbe un parametro confliggente con il principio di tipicità dell'illecito penale e, peraltro, si farebbe dipendere la configurabilità del reato da un elemento estraneo alla condotta dell'agente e ricollegato alla maggiore o minore sensibilità e capacità di resistenza della persona offesa.
A tal proposito basti considerare le più diversificate percezioni che la vittima di maltrattamenti può avere rispetto a tale condotta a seconda di qualità personali o condizionamenti socio-culturali che, ove ritenuti rilevanti, introdurrebbero un grado di assoluto relativismo nell'individuazione del reato, evidentemente incompatibile con la necessaria oggettività della tipizzazione dell'illecito.
In buona sostanza, il reato in esame presuppone l'accertamento di condotte oggettivamente lesive della sfera psico-fisica del convivente, a fronte delle quali il grado di sofferenza in concreto indotto non costituisce un elemento costitutivo del reato.
Sulla base di tali coordinate, non è condivisibile l'affermazione sulla quale la Corte di appello incentra l'esito assolutorio e, cioè, sull'assenza di un "rapporto aguzzino-vittima" che, nel caso di specie, non ricorrerebbe in quanto si è ritenuto
che la persona offesa "non solo risponde a tono all'imputato in svariate occasioni, ma mostra di non averne alcun timore e, soprattutto, di non sentirsi sottoposta ad un regime di vita umiliante e intollerabile tanto che non accenna mai a volersi separare" (p.26).
È bene precisare che la Corte di appello, nell'esprimere tale giudizio, premette che nel caso di specie non si verte nell'ipotesi di reciproche condotte maltrattanti, sicché l'intero ragionamento è basato essenzialmente sulla esclusione della sofferenza morale da parte della vittima, che non sarebbe rimasta succube del convivente.
Tale impostazione non trova alcun effettivo conforto nella consolidata giurisprudenza di questa {orte, se non in una risalente pronuncia secondo cui per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia sarebbe necessario che l'autore abbia posto in essere un complesso di attività rivolte, sia oggettivamente sia nella rappresentazione dello stesso soggetto, all'avvilimento o alla durevole oppressione della vittima (Sez.2, n. 1719 del 1/12/1965, dep. 1966, Baldacci, Rv.100792).
Invero, si tratta di un principio non condivisibile, dovendosi per converso ritenere che la condotta maltrattante deve essere oggettivamente idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, ma ciò non implica anche che la persona offesa debba essere necessariamente succube, intendendosi con tale locuzione una sostanziale incapacità di reazione. Il fatto che la persona offesa sia totalmente succube del soggetto maltrattante può rilevare, ma solo in senso dimostrativo dell'intensità e dell'effetto conseguente al reato, ma non può attribuirsi a tale condizione soggettiva il ruolo di elemento costitutivo del reato.
In altri termini, per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima perché la norma, nel reprimere l'abituale attentato alla dignità della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza (Sez. 6, n. 4015 del 04/03/1996, Gazzetta, Rv. 204653).
Per le ragioni in precedenza esposte, ciò che rileva è l'oggettiva idoneità della condotta ad imporre condizioni di vita umilianti e vessatorie, mentre il variabile grado di reazione e di sopportazione da parte della persona offesa rimane estranea alla tipicità del fatto.
Del resto, le ragioni per cui la persona offesa può ritenere di tollerare i maltrattamenti, di non darvi peso, come addirittura di fingere una normalità di vita familiare, possono essere le più svariate ed attengono essenzialmente a valutazioni di tipo personale, non incidenti sull'oggettiva configurabilità del reato. Altrettando irrilevante è il fatto che la persona offesa possa decidere di tollerare determinate condotte per poi interrompere, anche senza preavviso, la relazione sentimentale. Si tratta di dati comportamentali legati alle più svariate esigenze personali che, tuttavia, non sono idonei a sminuire l'obbiettiva e certa offensività della condotta maltrattante realizzata a monte.
In conclusione, deve affermarsi il principio - cui dovrà attenersi il giudice di rinvio - secondo cui il reato di cui all'art. 572 cod. proc. pen. richiede, quale elemento costitutivo, una condotta oggettivamente idonea a ledere la persona nella sua integrità psico-fisica, consistente nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da risultare concretamente idonei a cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni. A fronte dell'oggettiva ricorrenza di tali presupposti, il reato non è escluso per effetto della minore o maggior capacità di resistenza dimostrata dalla persona offesa, come pure non è richiesto che la condotta maltrattante sia tale da rendere la vittima succube dell'autore del reato.
5. Alla luce di tali considerazioni, la sentenza impugnata va annullata con rinvio, dovendosi precisare che il motivo concernente la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61 n.11 cod. pen. è assorbito nell'annullamento disposto in relazione al reato di maltrattamenti, sicchè la Corte di appello, qualora ritenga la sussistenza del reato di cui all'art. 572 cod. pen., provvederà anche a valutare la configurabilità dell'aggravante.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio a altra sezione della Corte di appello di Milano.