Va risarcito il danno non patrimoniale in quanto le immissioni sopra la soglia di tollerabilità ledono il diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione.
Svolgimento del processo
1. S. B., D. A., L. G., M. R., A. M., M. M. e N. M., premesso di essere proprietari delle abitazioni site in (omissis), via (omissis), confinanti con un fabbricato ad annesso appezzamento di terreno di proprietà degli eredi T., con ricorso ex articolo 700 c.p.c. lamentavano la sussistenza di rumori e di cattivi odori provenienti da tale fabbricato dovuti alla presenza di un numero considerevole di cani e gatti che gli eredi T. ivi custodivano.
2. Il Tribunale di Nola accoglieva il ricorso e ordinava agli eredi T. di allontanare i cani da tale abitazione, riducendone il numero a non più di quattro unità, ordinando di provvedere alla bonifica del giardino.
3. A seguito di reclamo la suddetta ordinanza veniva dichiarata nulla.
4. Veniva proposto un nuovo ricorso ex articolo 700 c.p.c. nuovamente accolto dal Tribunale che ordinava alla signora T. di ridurre ad un massimo di sei unità il numero dei cani ospitati nel fabbricato.
5. Il conseguente reclamo veniva rigettato.
6. I medesimi attori citavano in giudizio F. T. chiedendo la conferma di quanto disposto in sede cautelare e la condanna al risarcimento dei danni alla salute e morali patiti dagli attori.
7. F. T. si costituiva in giudizio ed eccepiva il difetto di competenza del Tribunale in favore del giudice di pace e concludeva per il rigetto della domanda.
8. Il Tribunale accoglieva le domande attoree e condannava la convenuta a ridurre il numero dei cani custoditi a non più di sei e al pagamento in favore di ciascun attore della somma di euro 2000 a titolo di risarcimento del danno.
9. F. T. proponeva appello ed eccepiva in primo luogo il difetto di competenza del Tribunale in favore del giudice di pace e, nel merito, l’erroneità della sentenza complessivamente considerata.
10. Si costituivano in giudizio gli appellati chiedendo la conferma della sentenza.
11. La Corte d’Appello di Napoli rigettava l’appello e confermava la sentenza del Tribunale di Nola. In primo luogo, rigettava l’eccezione di incompetenza per materia già eccepita in primo grado e ritualmente riproposta in appello quale motivo di impugnazione. Infatti, secondo la Corte d’Appello, come correttamente dedotto dal giudice di primo grado, la domanda giudiziale aveva ad oggetto un’immissione che non poteva dirsi generata da un ordinario uso per civile abitazione dell’immobile, essendo lo stesso adibito a ricovero per cani visto il considerevole numero di cani custoditi. Tale destinazione dell’immobile, consistendo in un’attività di custodia e cura degli animali era idonea a radicare la competenza del Tribunale, essendo estranea alla competenza stabilita dall’articolo 7, terzo comma, n. 3, c.p.c. a nulla rilevando il carattere non commerciale dell’attività, desumibile dall’assenza dello scopo di lucro e dal fatto che la proprietà della totalità degli animali era della convenuta e poi appellante F. T..
La Corte d’Appello confermava poi la statuizione circa il superamento della tollerabilità delle immissioni del giudice di primo grado fondata sulle caratteristiche dei luoghi, sui fatti di causa e sulle nozioni di comune esperienza avvalorate dalle deposizioni dei testi escussi che avevano riferito di un continuo e assordante latrare proveniente dal fondo. Le perizie eseguite non erano tali da scalfire il quadro probatorio, sia perché i valori-soglia predisposti dall’autorità non escludevano l’intollerabilità anche al di sotto degli stessi, sia perché la seconda consulenza era stata effettuata in presenza di un quadro fattuale completamente diverso da quello controverso, essendovi sul fondo meno della metà dei cani originari.
La Corte d’Appello rigettava anche il gravame circa la non risarcibilità del danno non patrimoniale consistente nella modifica delle abitudini di vita dei danneggiati in quanto il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite doveva ritenersi risarcibile indipendentemente dallo sussistenza di un danno biologico documentato, essendo riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita personale e familiare all’interno di un’abitazione e, comunque, del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita. Quanto alla contestazione dell’entità del risarcimento non vi era motivo d’appello sul punto e la contestazione era avvenuta solo con comparsa conclusionale, dunque tardivamente. Infine, la limitazione a un numero di cani pari a sei era ragionevole considerato il bilanciamento degli opposti interessi delle parti.
12. F. T. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di otto motivi.
13. S. B., D. A., L. G., M. R., A. M., M. M. e N. M. sono rimasti intimati.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione dell’articolo 7 c.p.c. per essere la causa di competenza del giudice di pace.
Secondo la ricorrente la competenza della causa era del giudice di pace ex articolo 7 c.p.c. non potendo intendersi alla stregua di un’attività commerciale o professionale la detenzione dei cani, tutti di proprietà della ricorrente, iscritti all’anagrafe canina e muniti di microchips identificativi. Infatti, la competenza del Tribunale sussisterebbe solo per le emissioni provenienti da locali utilizzati per attività industriale, commerciale, artigianale o turistica, dovendosi contemperare le ragioni della produzione con quelle della proprietà. Peraltro, nessuna norma imporrebbe un limite numerico agli animali da affezione da possedere da parte del privato sicché non dovrebbe ritenersi, come invece ha fatto la Corte d’Appello, che il numero degli animali d’affezione detenuto dalla ricorrente si possa tradurre in un’attività di custodia e cura degli animali tipica dei centri di ricovero autorizzati.
1.2 Il primo motivo di ricorso è infondato.
L'art. 7, comma terzo, n. 3 c.p.c. attribuisce alla competenza del giudice di pace le controversie relative a rapporti tra proprietari e detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità. La competenza ex art. 7 c.p.c. è tassativamente circoscritta alle cause tra proprietari e detentori di immobili ad uso abitativo, rivivendo, al di fuori di tali ipotesi, i criteri ordinari di competenza. Come, difatti, sottolineato in dottrina, la norma processuale non copre l'intero ambito applicativo dell'art. 844 c.c. e, in particolare, non comprende le controversie relative ad immissioni provenienti da impianti industriali, agricoli o destinati ad uso commerciale, essendo devoluta al giudice di pace la cognizione delle controversie relative ai rapporti di vicinato (Cass. s.u. 21582/2011), con esclusione - quindi - delle liti che, data la complessità delle questioni, esigano un bilanciamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà (art. 844, comma secondo c.c.). Se, dunque, sul piano oggettivo, è decisiva la provenienza delle immissioni dall'utilizzo, in tutte le sue potenziali esplicazioni, di immobili destinati ad abitazione civile, occorre tuttavia tener conto della natura delle attività concretamente svolte e della particolare fonte da cui promanano i disturbi. Qualora l'immobile, seppure a prevalente destinazione abitativa, sia utilizzato anche per scopi diversi e le relative attività siano all'origine delle immissioni illecite, deve conferirsi rilievo alla destinazione prevalente dell’immobile e alla fonte dei fenomeni denunciati, nel senso che se questi siano dedotti come effetto di attività non connesse all'utilizzo dell'immobile come abitazione civile da parte degli occupanti (proprietari o detentori), è esclusa l'applicazione dell'art. 7, comma terzo, n. 3 c.p.c..
1.3 Nel caso di specie la Corte d’Appello - e prima ancora il giudice di primo grado - ha ampiamente motivato circa il fatto che la domanda giudiziale aveva ad oggetto un’immissione che non poteva dirsi generata da un ordinario uso per civile abitazione dell’immobile, essendo lo stesso adibito a ricovero per cani, tenuto conto del considerevole numero di esemplari custoditi. Tale destinazione dell’immobile, consistendo in un’attività di custodia e cura degli animali, era idonea a radicare la competenza del Tribunale, essendo estranea alla competenza stabilita dall’articolo 7, terzo comma, n. 3, c.p.c., a nulla rilevando il carattere non commerciale dell’attività, desumibile dall’assenza dello scopo di lucro e dal fatto che la proprietà della totalità degli animali era della convenuta, poi appellante, F. T..
Ne consegue che la decisione della Corte d’Appello di Napoli che ha ritenuto che, a causa dell’elevato numero di esemplari, doveva ritenersi sussistere un ricovero per cani che, pur senza scopo imprenditoriale, esorbitava dal carattere domestico, è conforme al seguente principio di diritto, cui il collegio intende dare continuità: «In tema di immissioni, la competenza del giudice di pace ex art. 7, comma 3, n. 3, c.p.c. è tassativamente circoscritta alle cause tra proprietari e detentori di immobili ad uso abitativo, esulando da essa le controversie relative ad immissioni provenienti da impianti industriali, agricoli o destinati ad uso commerciale, giacché la norma processuale non copre l'intero ambito applicativo dell'art. 844 c.c.. Sicché, qualora l'immobile, seppure a prevalente destinazione abitativa, sia utilizzato anche per scopi diversi, ai fini della determinazione della competenza occorre dare rilievo non già alla destinazione prevalente, né alla classificazione catastale del bene, ma alla fonte dei fenomeni denunciati» (Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 19946 del 23/07/2019, Rv. 654988 - 01).
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: error in procedendo, violazione dell’articolo 112 c.p.c.
La censura attiene alla insussistenza e inidoneità dell’istruttoria espletata, alla eccepita inutilizzabilità della deposizione resa da G. R., genero dell’appellata, convivente nel medesimo fabbricato e dell’unica testimonianza del tutto insufficiente di A. G.. Il silenzio serbato dal giudice di appello rispetto alle eccezioni di violazione dell’articolo 246 c.p.c. e di insufficienza della deposizione del teste A. G. si tradurrebbe inevitabilmente in un vizio della nullità della sentenza per violazione dell’articolo 112 c.p.c.
3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: errore in procedendo violazione dell’articolo 112 c.p.c.
La motivazione della sentenza sarebbe insufficiente rispetto alla eccepita e palese inattendibilità di entrambe le deposizioni smentite dall’operato del Comune e dalla verifica della ASL e dell’ARPAC oltre che dalle perizie prodotte dalla ricorrente.
4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: omesso esame di fatti decisivi.
I fatti decisivi omessi sarebbero quelli alla base dell’eccezione di inutilizzabilità delle deposizioni rese dai due testi escussi e cioè la circostanza che il teste G. R. abitasse nello stesso fabbricato degli odierni resistenti e che il teste A. G. si fosse limitato a riportare quanto riferitogli dagli stessi resistenti. I fatti omessi renderebbero, ove valutati, inutilizzabili le deposizioni su cui si è fondata la condanna della ricorrente.
4.1 I motivi secondo, terzo e quarto, che possono essere trattati congiuntamente stante la loro evidente connessione, sono inammissibili.
Quanto alla violazione dell’art. 246 c.p.c. la ricorrente non riferisce di aver tempestivamente eccepito nel giudizio di primo grado l'incapacità del testimone sicché deve farsi applicazione del seguente principio di diritto stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte: «La nullità della testimonianza resa da persona incapace, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ., essendo posta a tutela dell'interesse delle parti, è configurabile come nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l'assunzione della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157, secondo comma, cod. proc. civ.; qualora detta eccezione venga respinta, l'interessato ha l'onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi altrimenti ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo» (ex plurimis Sez. U, Sentenza n. 21670 del 23/09/2013, Rv. 627450 - 01).
Quanto alla violazione dell'articolo 112 cpc deve ribadirsi l’inammissibilità della censura di omessa pronuncia rispetto a questioni processuali. Si è ripetutamente affermato, infatti, che: «Il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, ma può configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall'art. 112 c.p.c. se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte» (Sez. 6 - 2, Sentenza n. 321 del 12/01/2016, Rv. 638383 - 01).
In effetti la ricorrente, con la suddetta censura, tende ad affermare l’insufficienza della prova della continuità e intollerabilità delle immissioni, cosi mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dal giudice di appello non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa potessero ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità. Infatti, come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Corte di cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici del merito (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 3267 del 12/02/2008, Rv. 601665), dovendo invece la Corte di legittimità limitarsi a controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il ragionamento probatorio, da essi reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare.
Del pari inammissibile è la censura di omesso esame di un fatto storico decisivo oggetto di discussione tra le parti all'esito della preclusione sancita, in tema di cd. "doppia conforme", dall'art. 348 ter, comma 5, c.p.c. (applicabile al presente giudizio, essendo stato proposto l'appello in data successiva all'11.9.2012), non avendo dimostrato la ricorrente che le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell'appello, siano tra loro diverse (Sez. 2, n. 5528 del 2014; Sez. 3, n. 19001 del 2016).
Deve farsi applicazione del seguente principio di diritto: Nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 5528/2014), adempimento nella specie non svolto.
5. Il quinto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli articoli 115 c.p.c.
La continuità ed intollerabilità delle immissioni non poteva essere desunta attraverso il ricorso alle nozioni di comune esperienza.
La censura si basa sulla espletata istruttoria, sulla perizia, sull’attestazione del servizio veterinario e su tutti gli elementi diretti a smentire l’intollerabilità delle emissioni sonore cui non potrebbe contrapporsi la nozione di comune esperienza.
5.1 Il quinto motivo di ricorso è inammissibile.
Anche in questo caso la censura, sotto l’ombrello del vizio di violazione dell’art. 115 c.p.c., tende ad un’inammissibile rivalutazione in fatto della vicenda.
La doglianza proposta, infatti, si risolve espressamente nella richiesta di rivalutazione degli elementi istruttori, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell'art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell'art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla "valutazione delle prove" (Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Cass. n. 11892 del 2016, Cass. S.U. n. 16598/2016).
Infine - premesso che il giudice può porre a fondamento della decisione, senza bisogno di prova, le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, giudicando secondo il suo prudente apprezzamento - deve richiamarsi l’orientamento di questa Corte secondo il quale: In tema di immissioni (nella specie di rumori provocati dallo svolgimento di attività sportive), i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall'art. 844 cod. civ. non debbono essere necessariamente di natura tecnica, non venendo in rilievo l'osservanza dei limiti prescritti dalle leggi speciali (in particolare la legge n. 477 del 1995 sul cosiddetto inquinamento acustico) la cui finalità è quella di garantire la tutela di interessi collettivi e non di disciplinare i rapporti di vicinato. Pertanto, è ammissibile la prova testimoniale quando la stessa, avendo ad oggetto fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti, non può ritenersi espressione di giudizi valutativi (come tali vietati ai testi), e ciò tanto più nell'ipotesi in cui - trattandosi di emissioni rumorose discontinue e spontanee - le stesse difficilmente sarebbero riproducibili e verificabili su un piano sperimentale (Sez. 2, Sentenza n. 2166 del 31/01/2006, Rv. 587169 - 01).
6. Il sesto motivo di ricorso è così rubricato: error in giudicando per violazione dell’articolo 844 c.c.
La sentenza sarebbe erronea anche nella parte in cui ha confermato quella di primo grado nella limitazione a sei del numero massimo dei cani da detenere all’interno dell’abitazione della ricorrente e al fondo annesso di ben 3020 metri quadri.
La censura attiene alla parte della sentenza che ha confermato la limitazione dei cani detenibili nel numero di sei senza il ricorso ad altre misure o accorgimenti per assicurare un temperamento tra i diversi interessi e diritti e tenendo conto anche dello spazio a disposizione della ricorrente.
6.1 Il sesto motivo di ricorso è infondato.
In proposito è sufficiente richiamare l’orientamento consolidato di questa Corte secondo il quale: La domanda di cessazione delle immissioni che superino la normale tollerabilità non vincola necessariamente il giudice ad adottare una misura determinata, ben potendo egli ordinare l'attuazione di quegli accorgimenti che siano concretamente idonei a eliminare la situazione pregiudizievole (Sez. 2 - , Sentenza n. 21504 del 31/08/2018, Rv. 650317 - 01).
In altri termini, il limite di tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma è relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti; spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito della stessa (Sez. 2, Sent. n. 3438 del 2010).
7. Il settimo motivo di ricorso è così rubricato: violazione articolo 112 c.p.c.
La censura si appunta sulla mancata motivazione in ordine ai rilievi della ricorrente svolti con l’appello circa la mancanza di adeguata motivazione nella scelta del primo giudice di disporre l’allontanamento dei cani.
7.1 Il settimo motivo è manifestamente inammissibile.
In primo luogo, il ricorrente lamenta un omesso esame di un motivo di appello senza in alcun modo riportare il contenuto della censura proposta con il suddetto mezzo di gravame. In secondo luogo, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia (Sez. 2, n. 20718 del 13/08/2018, Rv. 650016 - 01; Sez. 5, n. 29191 del 06/12/2017, Rv. 646290 - 01; Sez. 1, n. 24155 del 13/10/2017, Rv. 645538 - 01); analogamente non si configura il vizio di omessa pronuncia, pur in difetto di un'espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, quando la decisione adottata comporta necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto (Sez. 6 - 1, n. 15255 del 04/06/2019, Rv. 654304 - 01).
Risulta evidente, pertanto, che la decisione della Corte d’Appello quand’anche non la si volesse considerare come rigetto esplicito della censura proposta dalla ricorrente, costituisce un rigetto implicito del motivo di appello sull’allontanamento dei cani.
8. L’ottavo motivo di ricorso è così rubricato: error in iudicando e in procedendo.
La censura attiene al risarcimento del danno non patrimoniale, riconosciuto nonostante che il motivo di appello contenesse implicitamente la contestazione anche del quantum.
In altri termini, secondo la ricorrente, la censura riguardante la condanna al risarcimento del danno in difetto di prova comprendeva anche la censura relativa alla quantificazione del danno.
8.1 L’ottavo motivo di ricorso è inammissibile.
La censura è del tutto generica senza alcun riferimento concreto alle contestazioni svolte nel giudizio di merito rispetto alla quantificazione del danno e alla motivazione del giudice di primo grado. Infatti, la ricorrente si limita ad indicare l’erroneo utilizzo del criterio equitativo ex art. 1226 c.c. rispetto alla liquidazione di € 2.000 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale in favore di ciascuno degli attori operata dal Tribunale e confermata dalla Corte d’Appello.
Nella sentenza impugnata, peraltro, si legge che il Tribunale aveva condannato la ricorrente a.l pagamento nei confronti di ciascun attore della somma di € 2000 a titolo di risarcimento del danno e delle spese processuali, anche relative alla fase cautelare (pag. 2 sentenza impugnata). La ricorrente non chiarisce neanche se la somma indicata nel motivo si riferisca solo al danno non patrimoniale o anche alla condanna al pagamento delle spese processuali.
In ogni caso, la contestazione sul quantum del risarcimento per aver fatto ricorso al criterio equitativo non può dirsi compresa nel motivo di appello con il quale si è contestata la non risarcibilità del danno non patrimoniale. L'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all'art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa; esso, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che per la parte interessata risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo ammontare, e dall'altro non ricomprende l'accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l'onere della parte di dimostrare la sussistenza e l'entità materiale del danno (Sez. 2, Sent. n. 4310 del 2018).
Infatti, il potere di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., costituisce espressione del più generale potere di cui all'art. 115 c.p.c. ed il suo esercizio rientra nella discrezionalità del giudice di merito, senza necessità della richiesta di parte, dando luogo ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, con l'unico limite di non potere surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza, dovendosi, peraltro, intendere l'impossibilità di provare l'ammontare preciso del danno in senso relativo e ritenendosi sufficiente anche una difficoltà solo di un certo rilievo. In tali casi, non è, invero, consentita al giudice del merito una decisione di "non liquet", risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto, invece, già definitivamente accertato in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità della relativa richiesta risarcitoria (Sez. 3, Ord. n. 13515 del 2022, Rv. 664639-01).
Deve infine evidenziarsi che la decisione della Corte d’Appello è conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale: «L'accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili può determinare una lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni, sulla base di nozioni di comune esperienza, senza che sia necessario dimostrare un effettivo mutamento delle proprie abitudini di vita» (Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 11930 del 13/04/2022, Rv. 664838 - 01).
Nello stesso senso questa sezione ha ribadito il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 2611 del 01/02/2017 secondo cui: «Pur quando non rimanga integrato un danno biologico, non risultando provato alcuno stato di malattia, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria casa di abitazione, tutelato anche dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, nonché del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, integra una lesione che non costituisce un danno "in re ipsa", bensì un danno conseguenza e comporta un pregiudizio ristorabile in termini di danno non patrimoniale. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto dovuta la riparazione del pregiudizio del diritto al riposo, sofferto dalle parti lese in conseguenza delle immissioni sonore - in particolare notturne - dipendenti dall'installazione di un nuovo bagno in un appartamento contiguo, siccome ridondante sulla qualità della vita e, conseguentemente, sul diritto alla salute costituzionalmente garantito)» (Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 21649 del 28/07/2021, Rv. 661953 - 01).
9. Il ricorso è rigettato.
10. Nulla sulle spese non essendosi costituite le parti intimate.
11. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.