Con tre sentenze depositate oggi, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sollevate su l'obbligo vaccinale, la mancata previsione del tampone come alternativa al trattamento e la sospensione dall'esercizio della professione sanitaria.
- Sentenza n.14/2023
-
Sentenza
n.15/2023
- Sentenza n.16/2023
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 22 marzo 2022, iscritta al n. 38 del registro ordinanze 2022, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76, nella parte in cui prevede, da un lato, l’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 per il personale sanitario e, dall’altro lato, per effetto dell’inadempimento dello stesso, la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie, per contrasto con gli artt. 3, 4, 32, 33, 34 e 97 della Costituzione; nonché dell’art. 1 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), nella parte in cui non prevede l’espressa esclusione dalla sottoscrizione del consenso informato delle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori, e dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui non esclude l’onere di sottoscrizione del consenso informato nel caso di vaccinazione obbligatoria, per contrasto con gli artt. 3 e 21 Cost.
1.1.– Nell’ambito del contenzioso tra uno studente iscritto al terzo anno del corso di laurea in Infermieristica e l’Università degli studi di Palermo, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana veniva adito per la riforma dell’ordinanza cautelare del TAR Sicilia, che aveva negato la sospensione dell’efficacia del provvedimento del 27 aprile 2021 con il quale il Rettore e il Direttore generale dell’Università disponevano che i tirocini di area medico-sanitaria «potranno proseguire in presenza all’interno delle strutture sanitarie a seguito della somministrazione vaccinale anti Covid-19».
Il giudice a quo, con ordinanza del 17 gennaio 2022, n. 38, disponeva approfondimenti istruttori affidati ad un collegio, composto dal Segretario generale del Ministero della salute, dal Presidente del Consiglio superiore di sanità operante presso il Ministero della salute e dal Direttore generale di prevenzione sanitaria. Il Collegio, in data 25 febbraio 2022, depositava una relazione, corredata da documentazione illustrativa, rendendo i chiarimenti richiesti.
Nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo – premessa la non fondatezza di talune eccezioni preliminari sollevate dall’appellante – si sofferma sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, ritenendo di non condividere l’asserita inapplicabilità agli studenti tirocinanti dell’obbligo vaccinale per la prevenzione da SARS-CoV-2 introdotto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in considerazione sia dell’ampiezza della previsione («riferita alla categoria degli operatori sanitari» destinatari dell’obbligo vaccinale) della normativa applicabile ratione temporis alla data di adozione dell’atto impugnato, sia della ratio della stessa, identificabile nella finalità di proteggere la salute di chi frequenta i luoghi di cura, in particolare dei pazienti, che spesso si trovano in condizione di fragilità e sono esposti a gravi pericoli di contagio.
In particolare, il giudice rimettente rileva che, alla luce di tali considerazioni, l’impugnato provvedimento, adottato il 27 aprile 2021, cioè nel vigore dell’originaria formulazione dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, deve considerarsi legittimo, senza che a tale conclusione ostino le sopravvenienze normative che hanno, di volta in volta, riformulato la disposizione, fino a pervenire al testo, dalla cui lettura sembrerebbe desumersi che il legislatore abbia inteso introdurre l’obbligo vaccinale per gli studenti tirocinanti solo in sede di conversione del decreto-legge 26 novembre 2021, n. 172 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19 e per lo svolgimento in sicurezza delle attività economiche e sociali), convertito, con modificazioni, nella legge 21 gennaio 2022, n. 3. Tale interpretazione, infatti, non era enucleabile dal testo originario della norma.
Tanto premesso, e confutate una serie di osservazioni esposte dall’appellante, il giudice a quo rimettente passa a trattare il profilo della non manifesta infondatezza.
1.2.– Con riferimento al primo gruppo di questioni, il giudice a quo parte dalla giurisprudenza costituzionale in materia di vaccinazioni obbligatorie, secondo la quale l’art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute della singola persona (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto delle altre persone e con l’interesse della collettività. In particolare viene ricordato come questa Corte (con le sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990) abbia precisato che – ferma la necessità che l’obbligo vaccinale sia imposto con legge – la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost. alle seguenti condizioni: a) se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; b) se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze «che appaiano normali e, pertanto, tollerabili»; c) se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.
Il rimettente sottolinea, quindi, di doversi rifare alla richiamata giurisprudenza per valutare l’attuale piano vaccinale obbligatorio, pure nella dichiarata consapevolezza di confrontarsi «con i principi affermati dalla Corte, in riferimento, va sottolineato, a situazioni per così dire ordinarie, non ravvisandosi precedenti riferiti a situazioni emergenziali ingenerate da una grave pandemia».
Tanto premesso, afferma che, nel caso in esame, può dirsi soddisfatto – oltre che il presupposto sub c), stante la riconducibilità, ex art. 20 del decreto-legge 27 gennaio 2022, n. 4 (Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19, nonché per il contenimento degli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2022, n. 25, dell’obbligo vaccinale in esame alla disciplina di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati) – il presupposto sub a).
In particolare, il Collegio rimettente sostiene la natura non sperimentale dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2. Per essi – viene ricordato – non è stata omessa alcuna delle tradizionali fasi di sperimentazione; semplicemente, data l’impellenza della situazione pandemica, dette fasi sono state condotte in parallelo, in sovrapposizione parziale, il che ha consentito di accelerare l’immissione in commercio dei farmaci.
Viene dunque rammentato che – come evincibile dalla relazione trasmessa a seguito della propria ordinanza istruttoria – l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata è lo strumento che permette alle autorità regolatorie di approvare un farmaco rapidamente in presenza di una necessità urgente, garantendo, comunque, che il vaccino approvato soddisfi i rigorosi standard dell’Unione europea quanto a sicurezza, efficacia e qualità, ma senza considerare concluso il processo di valutazione al momento dell’immissione in commercio, in quanto si prevede che gli sviluppatori presentino dati supplementari sul vaccino anche successivamente.
Il Collegio rimettente ammette altresì la persistenza della validità dell’approccio vaccinale che, sebbene introdotto in una fase emergenziale, mantiene «la propria legittimità (o meglio, necessità) anche nell’attuale fase, nonostante l’intervenuta approvazione di alcuni farmaci che consentono la terapia dei soggetti contagiati». E ciò in quanto l’efficacia delle terapie in questione dipende dalla tempestività nella somministrazione, non agevole da assicurare in considerazione dell’esordio della patologia da SARS-CoV-2 (che perlopiù presenta una sintomatologia simil-influenzale) e della durata del cosiddetto periodo finestra (allorquando il test presenta un risultato falso-negativo).
Il giudice a quo, inoltre, pur partendo dalla constatazione che soggetti vaccinati sono in grado di infettarsi e infettare, sostiene che tale dato è inidoneo a scardinare la razionalità complessiva della campagna di vaccinazione. Essa, pur se concepita con l’obiettivo di conseguire una rarefazione dei contagi e della circolazione del virus, era tesa anche allo scopo di evitare il decorso ingravescente della patologia verso forme severe necessitanti di ricovero in ospedale, obiettivo tuttora conseguito dal sistema preventivo in atto. Il profilo della tutela della collettività si ravviserebbe, in sostanza, nella minore pressione sulle strutture di ricovero e di terapia intensiva derivante dalla maggiore estensione della platea dei vaccinati.
Sul punto, vengono condivise – secondo considerazioni già offerte dal medesimo rimettente nella propria precedente ordinanza istruttoria – le valutazioni espresse nella decisione del Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 20 ottobre 2021, n. 7045, secondo cui, in applicazione del principio costituzionale di solidarietà, in fase emergenziale, il principio di precauzione, che trova applicazione anche in ambito sanitario, opera in modo inverso rispetto all’ordinario. Esso, infatti, richiede al decisore pubblico di consentire o, addirittura, imporre l’utilizzo di terapie che, pur sulla base di dati non completi (come è nella procedura di autorizzazione condizionata), assicurino più benefici che rischi, in quanto il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l’utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore al reale nocumento per una intera società, senza l’utilizzo di quel farmaco.
Viene altresì ricordato che, con la successiva sentenza della medesima terza sezione, 28 febbraio 2022, n. 1381, il giudice amministrativo indicato ha sottolineato come i monitoraggi dell’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) e dell’Istituto superiore di sanità (ISS), abbiano evidenziato l’elevata efficacia vaccinale nel prevenire l’ospedalizzazione, il ricovero in terapia intensiva e il decesso. Proprio la minore pressione sulle strutture sanitarie comporterebbe un vantaggio per la tutela della collettività, le cui necessità di assistenza sanitaria non potrebbero essere adeguatamente soddisfatte in situazioni di costante emergenza (tanto per esigenze legate all’infezione da SARS-CoV-2, quanto per esigenze legate ad altre patologie).
1.2.1.– Così concluso con riferimento al parametro sub a), il giudice rimettente ravvisa insuperabili elementi di criticità con riferimento al profilo sub b), relativamente ai cosiddetti eventi avversi, sotto i seguenti aspetti.
Il Collegio rimettente premette di doversi discostare dai precedenti del Consiglio di Stato (sentenze n. 1381 del 2022 e n. 7045 del 2021), i quali avevano escluso la ricorrenza di profili di dubbio in ordine alla proporzionalità dell’obbligo vaccinale, in quanto, all’epoca, non risultava (e non era stato dimostrato in giudizio) che il rischio degli effetti avversi non rientrasse «nella media, tollerabile, degli eventi avversi già registrati per le vaccinazioni obbligatorie in uso da anni». E ciò in quanto tale conclusione viene ritenuta fondata su dati successivamente revisionati – essendo stato pubblicato dall’AIFA il rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 nel febbraio 2022 – e, comunque, superata dalle emergenze istruttorie.
Il Collegio rimettente segnala che dai nuovi dati risulta che il numero di eventi avversi da vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 è superiore alla «media […] degli eventi avversi già registrati per le vaccinazioni obbligatorie in uso da anni», e, per di più, lo è di diversi ordini di grandezza. Sulla base di tali dati conclude per una necessaria «rivisitazione degli orientamenti giurisprudenziali fin qui espressi sulla base di dati ormai superati», nel senso che il vaccino incide negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato a vaccinarsi, oltre quelle conseguenze «che appaiano normali e, pertanto, tollerabili».
Per giungere a tale conclusione il giudice a quo sostiene, innanzitutto, che il sistema di raccolta dei dati in ordine agli effetti collaterali – limitato, allo stato, alla sola farmacovigilanza passiva – condurrebbe a una sottostima (e comunque a un’incertezza sull’entità) degli eventi avversi da vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2. Rileva, poi, quanto segue: «[v]ero è che le reazioni gravi costituiscono una minima parte degli eventi avversi complessivamente segnalati; ma il criterio posto dalla Corte costituzionale in tema di trattamento sanitario obbligatorio non pare lasciare spazio ad una valutazione di tipo quantitativo, escludendosi la legittimità dell’imposizione di obbligo vaccinale mediante preparati i cui effetti sullo stato di salute dei vaccinati superino la soglia della normale tollerabilità, il che non pare lasciare spazio all’ammissione di eventi avversi gravi e fatali, purché pochi in rapporto alla popolazione vaccinata, criterio che, oltretutto, implicherebbe delicati profili etici (ad esempio, a chi spetti individuare la percentuale di cittadini “sacrificabili”). Pare quindi che, non potendosi, in generale, mai escludere la possibilità di reazioni avverse a qualunque tipologia di farmaco, il discrimen, alla stregua dei criteri rinvenibili dalla richiamata giurisprudenza costituzionale, vada ravvisato nelle ipotesi del caso fortuito e imprevedibilità della reazione individuale. Ma nel caso in questione, l’esame dei dati pubblicati nel sito EudraVigilance disaggregati per Stato segnalatore evidenzia una certa omogeneità nella tipologia di eventi avversi segnalati dai vari Paesi (in disparte il maggiore o minore afflusso di dati, evidenziato dai Consulenti della parte appellante), il che lascia poco spazio all’opzione caso fortuito/reazione imprevedibile».
1.2.2.– Il Collegio rimettente, infine, si sofferma sull’inadeguatezza del triage pre-vaccinale. Per giungere a tale conclusione – pur dicendosi consapevole della insostenibilità logistica e finanziaria, in una situazione di vaccinazione di massa, di uno screening anch’esso di massa – valorizza fondamentalmente tre aspetti: 1) il difetto di coinvolgimento del medico di base, unico detentore di un’approfondita conoscenza dei propri assistiti; 2) l’assenza di previsione di esami di laboratorio, quali accertamenti diagnostici da eseguire prima della vaccinazione, o test, inclusi quelli di carattere genetico; 3) la mancanza di un test per la rilevazione dell’infezione da SARS-CoV-2, idoneo a evidenziare una condizione di infezione in atto.
1.3.– In ordine al secondo gruppo di questioni, relativo alla mancata esclusione dell’onere di sottoscrizione del consenso informato nel caso di trattamenti sanitari obbligatori e, in particolare, di vaccinazione obbligatoria, il giudice a quo espone che, per quanto emerge dall’istruttoria effettuata, al momento dell’anamnesi pre-vaccinale, in conformità alla normativa in questione, viene effettivamente raccolto il consenso informato.
Il rimettente si confronta con la posizione dell’organismo incaricato dell’istruttoria – a parere del quale, nel caso di vaccinazione obbligatoria, il consenso andrebbe inteso quale presa visione da parte del cittadino delle informazioni fornite – ma la reputa non condivisibile in quanto, da un punto di vista letterale, logico e giuridico, il consenso dovrebbe essere espresso a valle di una libera autodeterminazione volitiva, inconciliabile con l’adempimento di un obbligo previsto dalla legge.
Da ciò deriverebbe, dunque, l’intrinseca irrazionalità del dettato normativo, in quanto sarebbe richiesta la sottoscrizione di tale manifestazione di volontà all’atto della sottoposizione ad una vaccinazione indispensabile ai fini dell’esplicazione di un diritto costituzionalmente tutelato quale il diritto al lavoro.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi le questioni di legittimità costituzionale inammissibili e, nel merito, non fondate.
2.1.– In via preliminare vengono sollevate diverse eccezioni di inammissibilità con riferimento al primo gruppo di questioni.
2.1.1.– Viene, innanzitutto, eccepita l’erronea identificazione delle disposizioni denunciate. E ciò in quanto l’art. 4 è censurato limitatamente ai suoi commi 1 e 2, espressamente nella parte in cui prevede, da un lato, l’obbligo vaccinale per il personale sanitario «e, dall’altro lato, per effetto dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale, la sospensione dell’esercizio delle professioni sanitarie».
La difesa dello Stato sostiene però che la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie sarebbe prevista quale conseguenza determinata dall’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale al comma 4, disposizione non altrimenti denunciata nell’ordinanza di rimessione.
2.1.2.– Le questioni sarebbero inammissibili anche per difetto assoluto di motivazione con riferimento agli artt. 3, 4, 33 e 34 Cost.
La motivazione riferita alle richiamate disposizioni costituzionali si sostanzierebbe in una mera enunciazione dei diritti che queste riconoscono, supportata da un semplice rimando per relationem a «tutte le motivazioni sopra articolate», le quali, tuttavia, sono illustrate con esclusivo riferimento alla verifica di conformità della previsione dell’obbligo vaccinale per i sanitari rispetto al solo art. 32 Cost.
2.1.3.– Ulteriori profili di inammissibilità deriverebbero dal fatto che il giudice rimettente avrebbe «erroneamente elevato a condizione di compatibilità costituzionale della legge impositiva dell’obbligo vaccinale elementi operanti su altro piano di rilevanza giuridica».
Il giudice a quo, nell’evocare la sentenza n. 307 del 1990 per valorizzare il richiamo alle «cautele o condotte secondo le modalità che lo stato delle conoscenze scientifiche e l’arte prescrivono in relazione alla sua natura», trascurerebbe di considerare che questa Corte tratta di circostanze con specifico riferimento alla sfera risarcitoria, e cioè alla verifica dei presupposti per il rimedio risarcitorio, e non già reputandole condizione di legittimità costituzionale di una legge impositiva dell’obbligo vaccinale.
2.1.4.– Infine, viene eccepito che il rimettente avrebbe affermato l’insussistenza della condizione di compatibilità costituzionale «relativa alla non eccedenza la normale tollerabilità degli effetti avversi» della vaccinazione tramite l’espressione di un «giudizio di rilevanza (e prognosi) del numero e della tipologia degli eventi avversi al vaccino sindacando elementi di valutazione regolati nel sistema da disposizioni generali non altrimenti impugnati».
Sotto tale profilo, il giudice a quo avrebbe omesso di considerare come il sistema generale della farmacovigilanza e quello specifico sulle vaccinazioni siano regolati non dal censurato art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, ma da disposizioni generali, non sottoposte al giudizio di legittimità costituzionale, e da fonti di normazione secondaria.
2.2.– Quanto al merito, l’Avvocatura generale dello Stato – con riferimento al primo gruppo di questioni – ricorda che questa Corte ha fissato con chiarezza le condizioni in presenza delle quali la legge impositiva di un trattamento sanitario può ritenersi conforme al parametro costituzionale di cui all’art. 32 Cost., richiamate anche dal giudice rimettente.
La difesa dello Stato – premesso il mero richiamo alla condizione legata alla previsione dell’indennizzo, stante la pacifica riconducibilità della vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 obbligatoria per gli esercenti le professioni sanitarie all’art. 1 della legge n. 210 del 1992 – svolge una serie di argomentazioni tese a comprovare che il trattamento vaccinale è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri (condizione sulla quale lo stesso rimettente concorda).
2.2.1.– Si sofferma, dunque, sulla circostanza che l’obbligo vaccinale «non incid[e] negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili», oggetto di contestazione da parte del rimettente sotto diversi profili: numero di eventi avversi, inadeguatezza della farmacovigilanza passiva e attiva, inadeguatezza del triage pre-vaccinale per il mancato coinvolgimento dei medici di famiglia, assenza di approfonditi accertamenti (esami di laboratorio o accertamenti diagnostici) e di test di positività/negatività all’infezione da SARS-CoV-2.
In risposta alle specifiche argomentazioni – sempre con il necessario conforto dei dati tecnico-scientifici offerti dalle autorità ed organismi competenti (con relativa allegazione della documentazione dell’AIFA, dell’ISS e del Ministero della salute) – l’Avvocatura generale dello Stato sostiene che il sistema assicurava (e assicura) il rispetto del parametro costituzionale della non eccedenza la normale tollerabilità dell’evento avverso, correttamente inteso.
Per giungere a tale conclusione ricostruisce la procedura di autorizzazione dei vaccini e sostiene il carattere «non sperimentale» del vaccino per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2; espone le modalità di realizzazione dell’attività di farmacovigilanza attiva e passiva, affermando l’attendibilità dei dati raccolti sull’incidenza di eventi avversi conseguenti alla vaccinazione; sostiene l’irrilevanza – ai fini della verifica del rispetto dell’art. 32 Cost. e comunque di qualsiasi altro parametro costituzionale – del mancato coinvolgimento dei medici di famiglia nel triage pre-vaccinale, nonché della mancanza nella fase di triage di approfonditi accertamenti e di test di positività/negatività all’infezione da SARS-CoV-2.
2.2.2.– In chiusura della trattazione del primo gruppo di questioni, la difesa dello Stato, tirando le fila di quanto esposto, affronta le argomentazioni svolte dal giudice rimettente.
Innanzitutto sostiene che vi sarebbe la prova del vantaggio per la salute dei singoli e della collettività, ribadendo l’attendibilità dei dati scientifici utilizzati a tal fine.
In secondo luogo, in ordine alla non eccedenza la normale tollerabilità delle conseguenze avverse sullo stato di salute di chi vi è assoggettato, sostiene che tale condizione sarebbe stata erroneamente applicata dal rimettente. E ciò in quanto – secondo quanto attestato dalle autorità e dagli organismi competenti – non sarebbero state identificate reazioni avverse o rischi specifici tali da inficiare significativamente per gravità o frequenza i benefici della vaccinazione. Come riportato nel contributo offerto dall’AIFA, il numero complessivo di eventi avversi post-vaccinazione segnalati ai sistemi di farmacovigilanza nazionali (come la Rete nazionale di farmacovigilanza in Italia) o sovranazionali (come EudraVigilance in Europa) non potrebbe essere considerato un indicatore dei rischi connessi alla specifica vaccinazione: un elevato numero di segnalazioni di eventi avversi a seguito dell’inoculazione di vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 non sarebbe indicativo di maggiori rischi ad essi correlati, quanto piuttosto di una maggiore attenzione da parte di operatori sanitari e cittadini alla sicurezza di questi vaccini e di un maggior funzionamento dei sistemi di farmacovigilanza passiva.
La difesa dello Stato valorizza il fatto che le condizioni di efficacia, di sicurezza e di qualità del farmaco sarebbero state comunque vagliate dall’AIFA (già il nono Rapporto dell’AIFA sulla sorveglianza dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 illustrava chiaramente l’affidabilità delle autorizzazioni concesse) e la permanenza stessa delle condizioni di sicurezza del farmaco sarebbe assicurata dalla stessa Agenzia nell’esercizio dell’attività di farmacovigilanza che ex lege le compete.
Infine, sostiene la non veridicità dell’affermazione del giudice a quo relativa all’aumento dei casi avversi. Sul punto viene segnalato che, anche in base ai dati rinvenibili nell’ultimo Rapporto dell’AIFA sulla sorveglianza dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, l’andamento nel tempo delle segnalazioni rispetto al numero di dosi somministrate, con riferimento al primo trimestre 2022, sarebbe stabile per tutti i vaccini, dunque sovrapponibile a quello riportato nei precedenti rapporti e proporzionale alle somministrazioni effettuate, come evidenziato in modo particolare dal trend osservato per le somministrazioni e le segnalazioni di sospetta reazione avversa al booster vaccinale, sebbene su scale con ordini di grandezza assai diversi.
In chiusura, segnala la mancata ponderazione, da parte del rimettente, del fatto che la disposizione censurata ha introdotto un obbligo vaccinale settoriale e non generalizzato, che sarebbe del tutto coerente con la tutela della salute dei pazienti e con l’affidamento che gli stessi ripongono nella somministrazione delle cure in condizioni di massima sicurezza. La prospettiva del Collegio rimettente, dunque, non considererebbe la peculiare posizione dei sanitari e la specifica ratio dell’obbligo vaccinale loro imposto, mentre proprio quest’ultima farebbe comprendere il punto di equilibrio che il legislatore ha individuato nel bilanciamento tra la libertà di autodeterminazione del singolo e le esigenze di interesse pubblico, e tra queste, in primis, quelle concernenti la tenuta dei presidi ospedalieri e la garanzia, per chi necessita di cura e assistenza, di poterle ricevere in condizioni di massima sicurezza e di minor rischio di contagio possibile.
2.3.– Con riferimento al secondo gruppo di questioni, infine, l’Avvocatura generale dello Stato ne sostiene l’irrilevanza, l’inammissibilità e la manifesta infondatezza.
2.3.1.– Le questioni vengono reputate, innanzitutto, irrilevanti, perché si baserebbero su un’interpretazione errata delle disposizioni censurate. Ci si troverebbe, infatti, di fronte non a un’ipotesi di consenso informato ex art. 1 della legge n. 219 del 2017, ma a una mera informativa, come segnalato dall’organismo incaricato dell’istruttoria nel giudizio a quo.
Tale considerazione condurrebbe altresì all’inammissibilità della questione per aberratio ictus.
2.3.2.– Le questioni sarebbero, comunque, manifestamente infondate.
E ciò in quanto si potrebbe parlare di consenso solo laddove esso fosse esercitabile, con la conseguente possibilità di rifiutare il trattamento sanitario, circostanza esclusa ex lege nelle ipotesi di vaccinazione obbligatoria. Questa considerazione, dunque avrebbe dovuto far comprendere al Collegio rimettente che la disposizione censurata, per evidenti ragioni logiche, non può che essere interpretata nel senso che essa già determina l’esclusione dalla sottoscrizione del consenso informato nelle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori.
2.4.– In data 9 novembre 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria nella quale si dà atto della recente evoluzione normativa, relativa all’art. 7 del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162 (Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di obblighi di vaccinazione anti SARS-CoV-2 e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali), convertito, con modificazioni, nella legge 30 dicembre 2022, n. 199, che ha apportato alcune modifiche alla disposizione censurata, anticipando al 1° novembre 2022 il termine finale di scadenza dell’obbligo vaccinale (comma 1), il termine finale di efficacia della sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie per il caso di accertato suo inadempimento (comma 5) e il termine finale di requisito ai fini dell’iscrizione all’albo degli ordini professionali del suo adempimento (comma 6), termini tutti sino ad allora (nell’ultima versione dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito) fissati al 31 dicembre 2022.
Viene sostenuto che la norma sopravvenuta si porrebbe in piena continuità e coerenza con la pregressa normativa. Essa rappresenterebbe, infatti, un adeguamento dell’originaria previsione alla valutazione attuale della situazione pandemica, la quale avrebbe reso congruente e ragionevole anticipare la cessazione dell’obbligo vaccinale e delle conseguenze del suo inadempimento rispetto al termine precedentemente individuato, in considerazione della diminuzione dell’incidenza dei casi di contagio da SARS-CoV-2 e della stabilizzazione della trasmissibilità.
Ulteriori osservazioni sulle questioni di legittimità costituzionale in esame riguardano, in particolare, gli sviluppi relativi alle autorizzazioni all’immissione in commercio di alcuni vaccini. Si segnala infatti che, in data 16 settembre 2022, il Comitato per i medicinali ad uso umano (CHMP) dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA) ha raccomandato di convertire le autorizzazioni all’immissione in commercio subordinate a condizioni dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 Comirnaty (vaccino di BioNTech/Pfizer) e Spikevax (vaccino di Moderna) in autorizzazioni all’immissione in commercio standard, che non dovranno più essere rinnovate annualmente. Precisamente, il Comitato ha ritenuto che il corpus di letteratura scientifica prodotto dopo l’autorizzazione, inclusi sperimentazioni e studi aggiuntivi, compresi gli studi osservazionali, ha fornito dati rassicuranti su aspetti chiave come la capacità dei vaccini di prevenire la forma severa dell’infezione da SARS-CoV-2. La raccomandazione riguarda i vaccini Comirnaty e Spikevax già autorizzati e le relative versioni adattate, presenti e future, compresi i vaccini Comirnaty Original/Omicron BA.1, Comirnaty Original/Omicron BA.4/5 e Spikevax bivalent Original/Omicron BA.1.
3.– Con atto depositato il 17 maggio 2022, si è costituito G. G., appellante nel giudizio principale, chiedendo di dichiarare costituzionalmente illegittime le disposizioni censurate.
3.1.– Egli parte dal carattere di novità proprio del virus SARS-CoV-2, evidenziando che l’intrinseca diversità del fenomeno sul piano medico-sanitario impedirebbe, in radice, di attingere a decisioni di questa Corte su precedenti fenomeni e campagne vaccinali per rinvenire un valido criterio orientativo delle scelte da compiere e valutativo di quelle già compiute.
Premessa la assoluta novità del virus in esame e della tecnica vaccinale cosiddetta a mRNA, mai utilizzata prima sul piano vaccinale, sostiene il carattere «sperimentale» del trattamento e la conseguente sua esclusione dall’alveo dell’art. 32 Cost., in quanto quest’ultimo si riferirebbe unicamente ai trattamenti sanitari accreditati.
4.– In data 9 novembre 2022 la parte ha depositato una «memoria illustrativa su taluni profili di carattere scientifico» (con allegata documentazione), nella quale, in sostanza, ribadisce di ritenere sussistente la violazione dell’art. 32 Cost. sotto il profilo dell’ingiustificata compressione del diritto all’autodeterminazione terapeutica in assenza di beneficio per la collettività, sulla base delle seguenti considerazioni: inidoneità dei farmaci genici ad evitare le ospedalizzazioni ed i decessi; efficacia delle cure domiciliari; non bilanciabilità del diritto alla salute allo stato attuale delle conoscenze scientifiche.
5.– Nel presente giudizio sono state presentate numerose opiniones (Droit uniforme ASBL, Associazione ContiamoCI e Fondazione Centro studi allineare sanità e salute, Comitato per il diritto alla cura domiciliare nell’epidemia di COVID-19, Associazione umanità e ragione, Noi avvocati per la libertà_NAL, Dr. S. S. ( Presidente commissione albo degli odontoiatri di La Spezia, Corvelva APS, Coordinamento nazionale danneggiati da vaccino ( ONDAV, Comitato radicale scienza è coscienza, Confederazione legale per i diritti dell’uomo, Associazione CoScienze critiche, Associazione coordinamento del movimento italiano per la libertà di vaccinazione ( COMILVA ODV, Associazione libera scelta Campania, Comitato immuni per sempre, Avvocati liberi e Organizzazione mondiale per la vita ( OMV) ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, nonché depositati numerosi atti di intervento.
Alcuni di questi ultimi sono stati presentati con l’indicazione in epigrafe di “intervento/opinione”, accompagnati dalla richiesta che venga esaminata la possibilità di considerare il proprio atto alla stregua di opinio, formulando un’istanza del seguente tenore: «in via subordinata, tenersi in considerazione, per quanto ritualmente possibile, la presente manifestazione della opinione giuridica di un comune e concorde consesso di Amici Curiae aderenti, anche in quanto comunque rappresentativa del comune sentire di quanti hanno rifiutato il trattamento».
5.1.– Tutti gli interventi e le opinioni presentano un contenuto omogeneo.
Alcuni sono presentati da esercenti professioni sanitarie non vaccinati, destinatari della sospensione ex art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito. Altri, invece, sono presentati da ultracinquantenni (e, in alcuni casi, prossimi al compimento dei 50 anni), destinatari dell’obbligo vaccinale ex art. 1 del decreto-legge 7 gennaio 2022, n. 1 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza COVID-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti della formazione superiore), convertito, con modificazioni, nella legge 4 marzo 2022, n. 18.
Sotto il profilo della legittimazione, tutti gli intervenienti assumono di rivestire la «medesima condizione di diritto sostanziale dell’impugnante incidentale di cui all’ordinanza» di rimessione o «posizioni giuridiche sostanziali individuali identiche o comunque direttamente connesse per strettissima dipendenza rispetto alla parte privata principale e quindi accomunate dal concreto esito del presente giudizio, stante il carattere trasversale della questione incidentale sollevata su uno dei generali e preliminari presupposti di ammissibilità costituzionale dello stesso an dell’imposizione di un qualsiasi obbligo vaccinale».
Quanto al merito della questione in esame, viene sostenuta l’illegittimità costituzionale dell’imposizione dell’obbligo vaccinale, contestando, in sintesi, la sicurezza e l’efficacia dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 oggetto del predetto obbligo, nonché la criticità del sistema di farmacovigilanza passiva, oltreché l’irragionevolezza dell’imposizione dell’obbligo vaccinale alle persone dotate di immunità naturale.
Motivi della decisione
1.– Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, con ordinanza del 22 marzo 2022, iscritta al n. 38 del registro ordinanze 2022, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 4, 32, 33, 34 e 97 Cost., dell’art. 4, commi 1 e 2, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui prevede, da un lato, l’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 per il personale sanitario e, dall’altro lato, per effetto dell’inadempimento dello stesso, la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie.
Ha sollevato altresì questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 21 Cost., dell’art. 1 della legge n. 219 del 2017, e dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui tali disposizioni non escludono espressamente l’onere di sottoscrizione del consenso informato nei casi, rispettivamente, di trattamenti sanitari obbligatori e di vaccinazione obbligatoria.
2.– Va preliminarmente confermata l’inammissibilità degli interventi ad adiuvandum spiegati nel presente giudizio, per le ragioni indicate nell’ordinanza letta all’udienza del 30 novembre 2022, allegata alla presente sentenza.
Né è ipotizzabile una sorta di conversione dell’atto di intervento inammissibile in una manifestazione dell’opinio di amicus curiae, come richiesto da alcuni intervenienti, sia pure «in via subordinata». Le significative differenze tra i due istituti, quanto a presupposti e modalità processuali, non ne consentono la compresenza nello stesso atto, in via alternativa o subordinata.
3.– Nell’esporre il primo gruppo di questioni di legittimità costituzionale, che hanno ad oggetto l’imposizione dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 per il personale sanitario, con la correlata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie nell’ipotesi di inadempimento a esso, il giudice a quo muove dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di vaccinazioni obbligatorie, rilevando come, in riferimento all’art. 32 Cost., un trattamento sanitario obbligatorio, disposto ex lege, sia ammissibile alle seguenti condizioni: a) se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; b) se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze «che appaiano normali e, pertanto, tollerabili»; c) se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (tra le altre, sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990).
Il giudice rimettente si dichiara consapevole di confrontarsi «con i principi affermati dalla Corte, in riferimento […] a situazioni per così dire ordinarie, non ravvisandosi precedenti riferiti a situazioni emergenziali ingenerate da una grave pandemia». Conviene, in punto di fatto e alla luce degli esiti dell’istruttoria disposta nel giudizio principale, in contrapposizione con le doglianze dell’appellante, che non possono essere contestate la metodologia di conteggio dei decessi e il correlato dato ufficiale relativo alla mortalità, nonché la gravità della patologia SARS-CoV-2; condivide le risultanze istruttorie sulla natura non sperimentale dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, oggetto per contro di autorizzazione all’immissione in commercio condizionata.
3.1.– Passando al merito delle censure, il giudice a quo, pur riconoscendo la sussistenza delle condizioni sub a) e c) elaborate dalla richiamata giurisprudenza costituzionale, ravvisa insuperabili elementi di criticità con riferimento alla residua condizione sub b), concernente il profilo delle conseguenze, sullo stato di salute di colui che è obbligato, oltre la normale tollerabilità (cosiddetti eventi avversi).
Partendo dalla considerazione che, dai dati più recenti, risulterebbe che il numero di eventi avversi da vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 sia superiore alla «media […] degli eventi avversi già registrati per le vaccinazioni obbligatorie in uso da anni», e, per di più, «lo è di diversi ordini di grandezza», il rimettente ritiene necessaria una «rivisitazione degli orientamenti giurisprudenziali fin qui espressi sulla base di dati ormai superati», nel senso che il vaccino inciderebbe negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato a vaccinarsi, oltre quelle conseguenze «che appaiano normali e, pertanto, tollerabili».
Il Consiglio di giustizia amministrativa esprime al riguardo dubbi «circa l’adeguatezza del sistema di monitoraggio fin qui posto in essere», limitato, allo stato, alla sola farmacovigilanza passiva, e lamenta una sottostima (e comunque un’incertezza sull’entità) degli eventi avversi da vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2. Sostiene poi, come meglio si dirà, che dalla giurisprudenza costituzionale emergerebbe un orientamento che esclude «la legittimità dell’imposizione di obbligo vaccinale mediante preparati i cui effetti sullo stato di salute dei vaccinati superino la soglia della normale tollerabilità, il che non pare lasciare spazio all’ammissione di eventi avversi gravi e fatali».
3.2.– Il Collegio rimettente, infine, lamenta l’inadeguatezza del triage pre-vaccinale.
Per giungere a tale conclusione il giudice a quo – pur dicendosi consapevole della insostenibilità logistica e finanziaria, in una situazione di vaccinazione di massa, di uno screening anch’esso di massa – valorizza fondamentalmente tre aspetti: 1) il mancato coinvolgimento del medico di base – che normalmente ha un’approfondita conoscenza dei propri assistiti – nel triage pre-vaccinale, che viene demandato al personale sanitario che esegue la vaccinazione; questo, a sua volta, deve affidarsi alle capacità (inevitabilmente variabili) del soggetto avviato alla vaccinazione di rappresentare (nella ristretta tempistica a ciò destinata) fatti e circostanze rilevanti circa le proprie condizioni generali di salute; 2) la mancata previsione della presentazione di esami di laboratorio, quali accertamenti diagnostici da eseguire prima della vaccinazione, o test, inclusi quelli di carattere genetico, al fine di esentare dalla vaccinazione o sottoporre preventivamente a idonea terapia farmacologica soggetti che evidenzino specifici profili di rischio; 3) la mancata previsione dell’esecuzione di un test per la rilevazione di SARS-CoV-2, idoneo a evidenziare una condizione di infezione in atto, che – secondo il rimettente – sconsiglierebbe la somministrazione del vaccino, avuto riguardo al rischio di reazione anomala del sistema immunitario.
4.– Tanto premesso, è preliminarmente necessario esaminare le eccezioni di inammissibilità, tutte relative al primo gruppo di questioni, sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri.
4.1.– L’eccezione di aberratio ictus non è fondata.
L’Avvocatura generale dello Stato sostiene, innanzitutto, che siano state erroneamente identificate le disposizioni denunciate nel sollevare le questioni. E ciò in quanto l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, è censurato limitatamente ai commi 1 e 2, nella parte in cui – secondo quanto asserito dal Collegio rimettente – prevede, da un lato, l’obbligo vaccinale per il personale sanitario «e, dall’altro lato, per effetto dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale, la sospensione dell’esercizio delle professioni sanitarie». In realtà la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie sarebbe prevista quale conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale dal successivo comma 4 (recte, nella versione censurata dal rimettente e applicabile ratione temporis: comma 6, identificabile come comma 4 nella successiva versione derivante dalle modifiche apportate all’art. 4 dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito), disposizione non altrimenti denunciata nell’ordinanza di rimessione.
La tesi non può essere condivisa, in quanto il vulnus lamentato dal giudice rimettente – identificato, per come si evince chiaramente dall’apparato motivazionale e dalla prospettazione della questione di legittimità costituzionale, nell’imposizione dell’obbligo vaccinale – deriva direttamente dalle disposizioni censurate. Infatti, il comma 1 prevede espressamente che la vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 costituisce «requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati». I commi successivi del censurato art. 4 si limitano a disciplinare le modalità operative di accertamento dell’inadempimento, disponendo, infine, che l’«adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2» (comma 6) e le conseguenze operative a specificare quale sia la conseguenza, e cioè la sospensione, e non, ad esempio, la cessazione del rapporto lavorativo.
L’eccezione deve essere pertanto rigettata.
4.2.– Va invece accolta l’eccezione di inammissibilità per difetto assoluto di motivazione con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 4, 33 e 34 Cost.
E anzi, tale vizio è ravvisabile con riferimento a tutti i parametri diversi dall’art. 32 Cost.
Invero, essi vengono evocati esclusivamente al punto 19.b.6) dell’ordinanza di rimessione, ove il CGARS si limita, però, alla mera enunciazione degli articoli con l’esplicitazione dei diritti che questi riconoscono, rimandando a tutte le motivazioni «sopra articolate». Queste ultime sono quelle illustrate al precedente punto 18 della medesima ordinanza, le quali, tuttavia, si concentrano esclusivamente sulla verifica della conformità della previsione dell’obbligo vaccinale per il gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l’istituzione dei relativi ordini professionali), rispetto al (solo) art. 32 Cost. e sulla base della giurisprudenza costituzionale a esso riferita.
Deve quindi dichiararsi la manifesta inammissibilità per difetto di motivazione delle censure con riferimento ai parametri diversi dall’art. 32 Cost.
4.3.– Altri profili di inammissibilità eccepiti dall’Avvocatura generale dello Stato impingono il merito delle questioni sollevate e vanno pertanto esaminati in quella sede.
La difesa erariale eccepisce, in primo luogo, che il rimettente – nel valorizzare il passo della sentenza di questa Corte n. 307 del 1990 in cui si fa riferimento alle «cautele o condotte secondo le modalità che lo stato delle conoscenze scientifiche e l’arte prescrivono in relazione alla sua natura» – avrebbe «erroneamente elevato a condizione di compatibilità costituzionale della legge impositiva dell’obbligo vaccinale elementi operanti su altro piano di rilevanza giuridica», ovverosia la verifica dei presupposti per il rimedio risarcitorio. Ma tali considerazioni non attengono a profili di ammissibilità.
Ad analoghe conclusioni si deve giungere con riferimento all’eccezione per omessa censura delle disposizioni generali che disciplinano il sistema della farmacovigilanza e quello specifico sulle vaccinazioni.
Invero, i dubbi e le criticità sostenute dal giudice rimettente, in ordine al sistema della farmacovigilanza e al sistema di raccolta dei dati relativi alle conseguenze delle vaccinazioni, rappresentano una mera argomentazione posta a supporto delle censure, mentre oggetto del dubbio di legittimità costituzionale è solo la previsione dell’obbligo vaccinale (e della correlata sospensione dall’esercizio della professione). La disposizione censurata è quella che impone l’obbligo vaccinale ed è stata correttamente individuata.
4.4.- Né sussistono dubbi sulla giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto nel giudizio a quo è impugnato il provvedimento del Rettore e del Direttore generale dell’università con il quale si subordinava alla somministrazione vaccinale anti COVID-19 la prosecuzione dei tirocini di area medico-sanitaria in presenza all’interno delle strutture sanitarie.
5.– Nel merito, per la trattazione della prima questione sollevata in riferimento all’art. 32 Cost., occorre partire dalla ricostruzione dei criteri, ricordati dallo stesso giudice rimettente, alla luce dei quali questa Corte ha valutato la compatibilità con l’art. 32 Cost. di una legge impositiva di un trattamento sanitario.
Essi, già elencati nella sentenza n. 258 del 1994, sono indicati come segue: «a) “se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale” (cfr. sentenza 1990 n. 307); b) se vi sia “la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili” (ivi); c) se nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica – sia prevista comunque la corresponsione di una “equa indennità” in favore del danneggiato (cfr. sentenza 307 cit. e v. ora legge n. 210/1992)». Da una lettura complessiva degli indicati criteri si evince che il rischio di insorgenza di un evento avverso, anche grave, non rende di per sé costituzionalmente illegittima la previsione di un obbligo vaccinale, costituendo una tale evenienza titolo per l’indennizzabilità.
Questa Corte ha affermato con chiarezza che l’art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto negativo di non assoggettabilità a trattamenti sanitari non richiesti o non accettati) con il coesistente diritto degli altri e quindi con l’interesse della collettività (sentenze n. 5 del 2018, n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990).
Come efficacemente espresso nella sentenza n. 218 del 1994, la tutela della salute implica anche il «dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri. Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, posti in essere anche nell’interesse della persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri particolari».
5.1.– Nell’ambito di questo contemperamento tra le due declinazioni, individuale e collettiva, del diritto alla salute, l’imposizione di un trattamento sanitario obbligatorio trova giustificazione in quel principio di solidarietà che rappresenta «la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente» (sentenza n. 75 del 1992).
È costante, nella giurisprudenza costituzionale, l’affermazione della centralità di tale principio, soprattutto in ambito sanitario, in considerazione del «rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività» (sentenza n. 307 del 1990): «in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno p[uò] essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico» (ancora sentenza n. 307 del 1990, richiamata anche dalla sentenza n. 107 del 2012).
5.2.– Sotto quest’ultimo profilo, questa Corte è sempre partita dalla consapevolezza che esiste un rischio di evento avverso anche grave con riferimento ai vaccini e, ancor prima, a tutti i trattamenti sanitari (sentenze n. 268 del 2017, n. 118 del 1996 e n. 307 del 1990). E ha, pertanto, sostenuto che, fino a quando lo sviluppo della scienza e della tecnologia mediche non consentirà la totale eliminazione di tale rischio, la decisione di imporre un determinato trattamento sanitario attiene alla sfera della discrezionalità del legislatore, da esercitare in maniera non irragionevole (sentenza n. 118 del 1996).
È stato, infatti, precisato che, «poiché tale rischio non sempre è evitabile, è allora che la dimensione individuale e quella collettiva entrano in conflitto» (sentenza n. 118 del 1996). Ci si trova di fronte a un rischio, «preventivabile in astratto – perché statisticamente rilevato – ancorché in concreto non siano prevedibili i soggetti che saranno colpiti dall’evento dannoso. In questa situazione, la legge che impone l’obbligo della vaccinazione […] compie deliberatamente una valutazione degli interessi collettivi ed individuali in questione, al limite di quelle che sono state denominate “scelte tragiche” del diritto […]» (sentenza n. 118 del 1996).
Da tale consapevolezza nasce, del resto, l’affermazione, costante da parte di questa Corte, in ordine all’indefettibilità del riconoscimento dell’indennizzo estesa anche in relazione alle vaccinazioni raccomandate (tra le tante, sentenze n. 118 del 2020 e n. 268 del 2017).
5.3.– Alla luce di quanto sin qui esposto, innanzitutto, non può essere condiviso l’argomento svolto in via principale dal giudice rimettente.
Questi, sul punto, rileva – come si è accennato – quanto segue: «[v]ero è che le reazioni gravi costituiscono una minima parte degli eventi avversi complessivamente segnalati; ma il criterio posto dalla Corte costituzionale in tema di trattamento sanitario obbligatorio non pare lasciare spazio ad una valutazione di tipo quantitativo, escludendosi la legittimità dell’imposizione di obbligo vaccinale mediante preparati i cui effetti sullo stato di salute dei vaccinati superino la soglia della normale tollerabilità, il che non pare lasciare spazio all’ammissione di eventi avversi gravi e fatali, purché pochi in rapporto alla popolazione vaccinata, criterio che, oltretutto, implicherebbe delicati profili etici (ad esempio, a chi spetti individuare la percentuale di cittadini “sacrificabili”). Pare quindi che, non potendosi, in generale, mai escludere la possibilità di reazioni avverse a qualunque tipologia di farmaco, il discrimen, alla stregua dei criteri rinvenibili dalla richiamata giurisprudenza costituzionale, vada ravvisato nelle ipotesi del caso fortuito e imprevedibilità della reazione individuale. Ma nel caso in questione, l’esame dei dati pubblicati nel sito EudraVigilance disaggregati per Stato segnalatore evidenzia una certa omogeneità nella tipologia di eventi avversi segnalati dai vari Paesi (in disparte il maggiore o minore afflusso di dati, evidenziato dai Consulenti della parte appellante), il che lascia poco spazio all’opzione caso fortuito/reazione imprevedibile» (punto 18.4. dell’ordinanza di rimessione).
Il passaggio argomentativo si presta, per la verità, a una qualche incertezza interpretativa, dovuta al fatto che non emerge con chiarezza se il rimettente deduca l’illegittimità costituzionale dell’imposizione del trattamento sanitario dalla semplice possibilità della verificazione di eventi avversi gravi che, in quanto tali, sarebbero «non tollerabili», oppure, se, consapevole della difficoltà di «escludere la possibilità di reazioni avverse a qualunque tipologia di farmaco», reputi determinante che le reazioni avverse gravi siano riconducibili a ipotesi di caso fortuito e di imprevedibilità della reazione individuale, solo in tale ultimo caso potendo essere «tollerabili».
A prescindere da tale incertezza, peraltro, va osservato che il giudice a quo sembra non considerare che la giurisprudenza costituzionale ha affermato con chiarezza (sulla base dei ricordati criteri) che il rischio remoto di eventi avversi anche gravi non possa, in quanto tale, reputarsi non tollerabile, costituendo piuttosto - come si è detto - titolo per l'indennizzo. Non può, pertanto, condividersi la lettura che il Collegio rimettente dà della giurisprudenza di questa Corte, la quale ha, per contro, affermato che devono ritenersi leciti i trattamenti sanitari, e tra questi le vaccinazioni obbligatorie, che, al fine di tutelare la salute collettiva, possano comportare il rischio di «conseguenze indesiderate, pregiudizievole oltre il limite del normalmente tollerabile» (sentenza n. 118 del 1996).
Ugualmente priva di riscontro nella giurisprudenza di questa Corte è l’affermazione che sarebbero tollerabili le reazioni avverse (unicamente) «nelle ipotesi del caso fortuito e imprevedibilità della reazione individuale». Il rimettente, partendo da ciò, esclude la ricorrenza di tali ipotesi nelle vaccinazioni in esame, in nome di «una certa omogeneità nella tipologia di eventi avversi segnalati dai vari Paesi». Invero – al di là della natura del tutto apodittica di tale ultimo assunto, privo di dati posti a suo supporto – questa Corte, nell’esaminare le leggi impositive di obblighi vaccinali, non ha mai introdotto questa sorta di “filtro”, ma si è sempre attenuta ai dati scientifici relativi alla sicurezza del vaccino, rispetto ai quali non conta in sé l’omogeneità della tipologia di eventi avversi, quanto piuttosto l’incidenza a livello generale del loro manifestarsi anche in relazione alla loro gravità.
Del resto, proprio l’eventualità che si manifesti un evento avverso è la ragione della previsione dell’indennizzo che, a differenza del risarcimento del danno, spetta anche in presenza di un rischio imprevedibile rispetto al suo ricadere sulla specifica persona (sentenze n. 5 del 2018, n. 268 del 2017, n. 107 del 2012, n. 118 del 1996 e n. 307 del 1990).
Va quindi ribadito che tale conclusione non è scalfita dalla ravvisabilità del rischio di evento avverso, anche grave. Come già sopra ricordato, questa Corte ha sempre preso le mosse dalla consapevolezza che esiste e non è evitabile un rischio di evento avverso (anche grave) con riferimento ai vaccini e, ancor prima, a tutti i trattamenti sanitari (sentenze n. 5 del 2018, n. 268 del 2017, n. 118 del 1996 e n. 307 del 1990).
6.– Ciò premesso, la soluzione della questione sottoposta a questa Corte deve muovere da un suo corretto inquadramento e, in particolare, dalla individuazione della risposta che la Costituzione fornisce per le ipotesi in cui entrino in conflitto le due dimensioni, individuale e collettiva, della salute, contemplate dal ricordato art. 32 Cost.
Come anticipato, talora il conflitto tra le due dimensioni può perfino condurre a che «il perseguimento dell’interesse alla salute della collettività, attraverso trattamenti sanitari, come le vaccinazioni obbligatorie, pregiudichi il diritto individuale alla salute, quando tali trattamenti comportino, per la salute di quanti ad essi devono sottostare, conseguenze indesiderate, pregiudizievoli oltre il limite del normalmente tollerabile» (sentenza n. 118 del 1996). È stato affermato espressamente che «[t]ali trattamenti sono leciti, per testuale previsione dell’art. 32, secondo comma, della Costituzione, il quale li assoggetta ad una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana e ulteriormente specificata da questa Corte, nella sentenza n. 258 del 1994, con l’esigenza che si prevedano ad opera del legislatore tutte le cautele preventive possibili, atte a evitare il rischio di complicanze. Ma poiché tale rischio non sempre è evitabile, è allora che la dimensione individuale e quella collettiva entrano in conflitto» (ancora sentenza n. 118 del 1996).
In ipotesi di ineliminabile conflitto, si è affermato nella medesima pronuncia, la legge che impone l’obbligo della vaccinazione – come già ricordato – «compie deliberatamente una valutazione degli interessi collettivi e individuali in questione, al limite di quelle che sono state denominate “scelte tragiche” del diritto: le scelte che una società ritiene di assumere in vista di un bene (nel nostro caso, l’eliminazione della poliomielite) che comporta il rischio di un male (nel nostro caso, l’infezione che, seppur rarissimamente, colpisce qualcuno dei suoi componenti). L’elemento tragico sta in ciò, che sofferenza e benessere non sono equamente ripartiti tra tutti, ma stanno integralmente a danno degli uni o a vantaggio degli altri. Finché ogni rischio di complicanze non sarà completamente eliminato attraverso lo sviluppo della scienza e della tecnologia mediche […] la decisione in ordine alla sua imposizione obbligatoria apparterrà a questo genere di scelte pubbliche».
È innegabile come tale (potenziale) conflitto tra il diritto alla salute del singolo e quello della collettività sia divenuto attuale in tutta la sua drammaticità di fronte al deflagrare di «un’emergenza sanitaria dai tratti del tutto peculiari» (sentenza n. 37 del 2021). L’Organizzazione mondiale della sanità, con la dichiarazione del 30 gennaio 2020, ha valutato l’epidemia da COVID-19 come un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale; successivamente, in considerazione dei livelli di diffusività e gravità raggiunti a livello globale, con la dichiarazione dell’11 marzo 2020, è stata valutata come «pandemia». La delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, dal canto suo, ha dichiarato, per sei mesi, lo stato di emergenza sul territorio nazionale relativo al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, successivamente più volte prorogato sino alla cessazione disposta con il decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 (Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza), convertito, con modificazioni, nella legge 19 maggio 2022, n. 52.
A questa Corte spetta vagliare se, a fronte del rilevato conflitto, il legislatore abbia esercitato la propria discrezionalità nel rispetto dell’art. 32 Cost., e cioè operando un bilanciamento tra le suddette dimensioni del diritto alla salute non irragionevole e non sproporzionato rispetto alla finalità perseguita. In altri termini deve valutare se, in quella situazione data, la scelta del legislatore sia stata adottata, nell’esercizio di discrezionalità politica, in modo compatibile con i princìpi costituzionali.
Tale sindacato, dunque, essendo riferito alle scelte del legislatore, deve muoversi lungo due direttrici principali: la valutazione della situazione di fatto, cioè, nel caso in esame, della pandemia e l’adeguata considerazione delle risultanze scientifiche disponibili in merito all’efficacia e alla sicurezza dei vaccini.
7.– Quanto alla situazione di fatto, va osservato che le peculiarità delle condizioni epidemiologiche esistenti al momento dell’introduzione dell’obbligo vaccinale – e, cioè, la loro gravità e l’imprevedibilità del decorso (attestate dalla dichiarazione dell’Organizzazione mondiale della sanità dell’11 marzo 2020, sopra ricordata) – comportano diverse conseguenze.
Innanzi tutto, la compresenza di diritti e doveri – alla base del fondamento solidaristico della nostra Costituzione già in via generale e in periodi ordinari – trova una sua concreta esplicitazione in materia di salute, all’art. 32 Cost.; tale disposizione, infatti, si muove tra le due dimensioni del «fondamentale diritto dell’individuo» e dell’«interesse della collettività», imponendo espressamente il loro contemperamento. E l’interesse della collettività di cui all’art. 32 Cost. costituisce la declinazione, nel campo della tutela alla salute, dei doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. Dunque, tutte le volte in cui le due dimensioni entrano in conflitto, secondo la giurisprudenza sopra ricordata, il diritto alla salute individuale può trovare una limitazione in nome dell’interesse della collettività, nel quale trova considerazione il diritto (individuale) degli altri in nome di quella solidarietà “orizzontale”, che lega ciascun membro della comunità agli altri consociati (sentenza n. 288 del 2019). I doveri inderogabili, a carico di ciascuno, sono infatti posti a salvaguardia e a garanzia dei diritti degli altri, che costituiscono lo specchio dei diritti propri: al legislatore tocca bilanciare queste situazioni soggettive e a questa Corte assicurare che il bilanciamento sia stato effettuato correttamente.
Su altro versante, più generale, va considerato che il sindacato sulla non irragionevolezza della scelta del legislatore di incidere sul diritto fondamentale alla salute, anche sotto il profilo della libertà di autodeterminazione, va effettuato alla luce della concreta situazione sanitaria ed epidemiologica in atto. La giurisprudenza costituzionale ha infatti chiarito che, nelle ipotesi di conflitto tra i diritti contemplati dall’art. 32 Cost., la discrezionalità del legislatore «deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte (sentenza n. 268 del 2017)» (sentenza n. 5 del 2018).
8.– A ciò va aggiunto – come anticipato – che tale discrezionalità deve essere esercitata dal legislatore alla luce «delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia (così, la giurisprudenza costante di questa Corte sin dalla fondamentale sentenza n. 282 del 2002)» (sentenza n. 5 del 2018).
Difatti, un intervento in tali ambiti «non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso legislatore, bensì dovrebbe prevedere l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali o sovranazionali – a ciò deputati, dato l’“essenziale rilievo” che, a questi fini, rivestono “gli organi tecnico-scientifici” (cfr. sentenza n. 185 del 1998); o comunque dovrebbe costituire il risultato di una siffatta verifica» (sentenza n. 282 del 2002). Si tratta, pertanto, pur sempre di esercizio di discrezionalità politica, ancorché fondata (necessariamente) su evidenze scientifiche.
8.1.– Non va dimenticato che la connotazione medico-scientifica degli elementi in base ai quali il legislatore deve operare le proprie scelte non esclude la sindacabilità delle stesse da parte di questa Corte (sentenza n. 282 del 2002), ma il sindacato riguarda, in tal caso, la coerenza della disciplina con il dato scientifico posto a disposizione, oltre che la non irragionevolezza e la proporzionalità della disciplina medesima.
8.2.- Questa Corte accerta, innanzitutto, se il legislatore, nell’esercizio del suo potere discrezionale, si sia tenuto all’interno di un’area di attendibilità scientifica, alla luce delle migliori conoscenze raggiunte in quel momento storico, quali definite dalle autorità medico-scientifiche istituzionalmente preposte.
Ciò che la Corte può e deve verificare, pertanto, è, innanzitutto, se la scelta del legislatore di introdurre l’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della legge n. 43 del 2006, anche alla luce della situazione pandemica esistente, sia suffragata e coerente, o meno, rispetto alle conoscenze medico-scientifiche del momento (sentenza n. 5 del 2018), quali tratte dagli organismi nazionali e sovranazionali istituzionalmente preposti al settore.
E in questa scelta, come già affermato da questa Corte, «la tempestività della risposta all’evoluzione della curva epidemiologica è fattore decisivo ai fini della sua efficacia» (sentenza n. 37 del 2021). Dover effettuare una scelta tempestiva comporta che essa venga fatta, necessariamente, allo stato delle conoscenze scientifiche del momento e nella consapevolezza della loro fisiologica provvisorietà. Del resto, tutte le volte che una decisione implichi valutazioni tecnico-scientifiche, il legislatore sceglie tra le possibili opzioni che la scienza offre in quel momento storico. E la scelta tra le possibili opzioni, che inevitabilmente racchiudono una intensità diversa e quindi un diverso grado di limitazione dei diritti, è esercizio di discrezionalità politica che, nei limiti della sua ragionevolezza e proporzionalità, non può essere sostituita da una diversa scelta di questa Corte.
D’altro canto, è innegabile che ogni legge elaborata sulla base di conoscenze medico-scientifiche è per sua natura transitoria, perché adottata allo stato delle conoscenze del momento e destinata ad essere superata a seguito dell’evoluzione medico-scientifica.
E però, di contro, proprio perché il legislatore deve esercitare la propria discrezionalità sulla base delle conoscenze medico-scientifiche fornite dalle autorità di settore al momento dell’assunzione della decisione, è fondamentale una piena valorizzazione della «dinamica evolutiva propria delle conoscenze medico-scientifiche che debbono sorreggere le scelte normative in campo sanitario» (sentenza n. 5 del 2018). Come chiarito già in passato da questa Corte, un intervento non irragionevole alla luce delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche in atto non esclude, e anzi impone, che, mutate le condizioni, la scelta possa (e debba) essere rivalutata e riconsiderata.
La disciplina, dunque, può e deve mutare in base all’evoluzione della situazione sanitaria che si fronteggia e delle conoscenze scientifiche acquisite.
La genetica e originaria transitorietà della disciplina, così come la previsione di elementi di flessibilizzazione e monitoraggi che consentano l’adeguamento delle misure all’evoluzione della situazione di fatto che è destinata a fronteggiare, sono elementi che incidono sulla verifica della legittimità costituzionale della normativa (sentenza n. 5 del 2018).
Sul punto, si evidenzia sin d’ora che l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, ha subíto nel tempo diverse modifiche, in relazione tanto alle conseguenze legate all’inadempimento dell’obbligo vaccinale, quanto, soprattutto, all’individuazione della durata dell’obbligo.
E anzi, è l’intera disciplina relativa alla gestione della pandemia ad aver subito continue modifiche in risposta all’evoluzione della situazione sanitaria nonché delle conoscenze mediche. Basti pensare alle limitazioni imposte alla libertà di circolazione, al diritto allo studio e all’esercizio delle attività produttive e lavorative, che sono state nel tempo modificate e infine revocate, sempre sulla base dell’andamento della situazione epidemiologico-sanitaria e dell’evoluzione degli strumenti offerti dalla scienza medica per fronteggiarla.
In particolare, per quanto qui di più stretto interesse, la disposizione censurata, nella sua versione originaria (oggetto della questione in esame), prevedeva una precisa scadenza dell’obbligo vaccinale, fissata al 31 dicembre 2021. Tale termine è stato più volte modificato, proprio in base all’andamento dei contagi e all’evoluzione della pandemia, subendo diverse proroghe fino al 31 dicembre 2022, per poi essere infine anticipato (rispetto a quest’ultima data) al 1° novembre 2022.
Siffatta anticipazione è stata disposta con il d.l. n. 162 del 2022, come convertito, in considerazione, per quanto si legge nel preambolo dello stesso, «dell’andamento della situazione epidemiologica che registra una diminuzione dell’incidenza dei casi di contagio da COVID-19 e una stabilizzazione della trasmissibilità sebbene al di sopra della soglia epidemica [e della] necessità di riavviare un progressivo ritorno alla normalità nell’attuale fase post pandemica, nella quale l’obiettivo da perseguire è il controllo efficace dell’endemia».
A ciò si aggiunga che, con specifico riferimento al sistema di monitoraggio per le reazioni conseguenti ai vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, da un lato sono stati predisposti specifici monitoraggi sull’andamento epidemiologico da parte del Ministero della salute (secondo quanto previsto dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 26 aprile 2020, recante «Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale», rispetto al quale si segnala in particolare il decreto del Ministro della salute 30 aprile 2020, recante «Adozione dei criteri relativi alle attività di monitoraggio del rischio sanitario di cui all’allegato 10 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 aprile 2020»; dall’altro, sono state attuate le relative attività di sorveglianza da parte dell’AIFA con cadenza trimestrale, che confluiscono in rapporti concernenti tutti i dati sulle reazioni determinate dalla somministrazione dei vaccini.
9.– Tanto premesso, dunque, sul costante adeguamento della disciplina in esame all’andamento della situazione epidemiologico-sanitaria e all’evoluzione delle conoscenze medico-scientifiche, è opportuno procedere a un’analisi, sia pur di tipo sintetico, di queste ultime.
Infatti, come detto, il sindacato richiesto a questa Corte presuppone di verificare se il legislatore – utilizzando il dato medico-scientifico posto a disposizione dalle autorità di settore – si sia mantenuto in un’area di “attendibilità scientifica” e se abbia assunto una decisione non irragionevole nonché idonea e non sproporzionata rispetto alla finalità perseguita.
10.– Per far ciò occorre confrontarsi, innanzitutto, con i contributi elaborati dall’AIFA, dall’ISS, dal Segretariato generale del Ministero della salute, dalla Direzione generale della programmazione sanitaria del Ministero della salute e dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria, tutti depositati dall’Avvocatura generale dello Stato in allegato all’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.
10.1.– Il principale dato medico-scientifico garantito dalle autorità istituzionali nazionali ed europee, preposte al settore, è costituito, fin dal momento dell’adozione della disposizione censurata e a tutt’oggi, dalla natura non sperimentale del vaccino e dalla sua efficacia, oltre che dalla sua sicurezza.
10.2.– Relativamente ai primi due profili – che lo stesso giudice rimettente sostanzialmente non contesta – convergono le conclusioni dell’AIFA, dell’ISS e del Segretariato generale del Ministero della salute.
Viene innanzitutto attestato che i «vaccini anti COVID-19 non possono in alcun modo considerarsi sperimentali», poiché «[i] vaccini attualmente in uso nella campagna vaccinale in Italia […] sono vaccini regolarmente immessi in commercio dopo aver completato l’iter per determinarne qualità, sicurezza ed efficacia» (così, testualmente, la nota dell’ISS sopra menzionata, pagina 2).
Come attestato più dettagliatamente dall’AIFA, tali vaccini sono oggetto di autorizzazioni all’immissione in commercio condizionate (CMA), sulla base di un protocollo preesistente e già utilizzato in passato in ambito europeo per una serie di medicinali destinati a soddisfare un elevato bisogno terapeutico insoddisfatto (così la nota dell’AIFA sopra menzionata, pagina 9).
Ciò posto, l’Unione europea ha quindi ritenuto che, a fronte di minacce gravi per la salute pubblica, quale è senz’altro la pandemia, la scelta tecnica di ricorrere alla CMA rappresentasse la scelta migliore al fine di garantire la tutela della salute. E ciò in quanto «questa autorizzazione certifica che la sicurezza, l’efficacia e la qualità dei medicinali autorizzati, nel caso specifico del vaccino, sono comprovate e che i benefici sono superiori ai rischi» (pagina 8 della nota dell’AIFA). Sempre secondo quanto attestato dall’AIFA, nessuna delle fasi dello sviluppo pre-clinico e clinico (test di qualità, valutazione dell’efficacia e del profilo di sicurezza) dei vaccini è stata omessa e il numero dei pazienti coinvolti negli studi clinici è lo stesso di quello relativo a vaccini sviluppati con tempistiche standard. È stato infatti possibile «affiancare temporalmente le diverse fasi di sviluppo clinico e di arruolare negli studi di fase 3 un numero molto elevato (decine di migliaia) di partecipanti» (pagina 10 della nota dell’AIFA).
Sull’efficacia della vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 si sofferma l’ISS, esponendo che «[l]a vaccinazione anti-COVID-19 costituisce una misura di prevenzione fondamentale per contenere la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2. Numerose evidenze scientifiche internazionali hanno dimostrato l’elevata efficacia dei vaccini anti-COVlD-19 disponibili ad oggi, sia nella popolazione generale sia in specifici sottogruppi di categorie a rischio, inclusi gli operatori sanitari» (pagine 2 e 3 della nota dell’ISS). Al di là della fisiologica eterogeneità delle risposte immunitarie dei singoli individui e della maggiore capacità della variante Omicron di eludere l’immunità rispetto alle varianti precedenti, viene attestato che «la protezione rimane elevata specialmente nei confronti della malattia severa o peggior esito» (pagina 3 della nota dell’ISS). L’ISS chiarisce, inoltre, che «anche se l’efficacia vaccinale non è pari al l00%, ma del resto nessun vaccino ha una tale efficacia, l’elevata circolazione del virus SARS-CoV-2 rende comunque rilevante la quota di casi prevenibile» (pagina 5 della nota dell’ISS).
10.3.– Quanto al profilo della sicurezza, l’AIFA, come sopra riportato, sostiene con chiarezza che la CMA «certifica che la sicurezza, l’efficacia e la qualità dei medicinali autorizzati, nel caso specifico del vaccino, sono comprovate e che i benefici sono superiori ai rischi».
Inoltre – affrontando specificamente le criticità segnalate dal Collegio rimettente – l’Agenzia attesta l’assoluta attendibilità del sistema di raccolta dati, basato sulla farmacovigilanza passiva (pagine da 16 a 23 della nota dell’AIFA), e, soprattutto, evidenzia la differenza tra «segnalazioni di eventi avversi dopo vaccini anti-COVID-19» e «analisi del segnale» (pagine da 23 a 25 della nota dell’AIFA). Alla base della segnalazione dell’evento avverso vi è infatti il solo criterio temporale, il quale, tuttavia, è condizione necessaria ma non sufficiente a stabilire un nesso causale fra vaccinazione ed evento (pagine da 23 a 25 della nota dell’AIFA).
Secondo le conclusioni esposte, «la maggior parte delle reazioni avverse ai vaccini sono non gravi e con esito in risoluzione completa. Le reazioni avverse gravi hanno una frequenza da rara a molto rara e non configurano un rischio tale da superare i benefici della vaccinazione. Non è stato inoltre osservato alcun eccesso di decessi a seguito di vaccinazione e il numero di casi in cui la vaccinazione può aver contribuito all’esito fatale dell’evento avverso è estremamente esiguo e comunque non tale da inficiare il beneficio di tali medicinali» (pagine 26 e 27 della nota dell’AIFA).
Sempre relativamente al profilo della sicurezza, l’ISS, a sua volta, attesta che «[a]d oggi miliardi di persone nel mondo sono state vaccinate contro COVID-19. I vaccini anti SARS-CoV-2 approvati sono stati attentamente testati e continuano ad essere monitorati costantemente. Numerose evidenze scientifiche internazionali hanno confermato la sicurezza dei vaccini anti-COVID-19» (pagina 6 della nota dell’ISS). Si segnala, infine, la mole di dati di sicurezza relativi ai soggetti che hanno ricevuto un vaccino per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, posto che, secondo l’EMA, fino all’inizio di aprile 2022 sono state più di 868 milioni le dosi di vaccini somministrate alle persone nell’UE e nello Spazio economico europeo (SEE), concludendo nel senso che «[d]ai dati emerge che la stragrande maggioranza degli effetti collaterali noti dei vaccini COVID-19 sono lievi e di breve durata. Problemi di sicurezza classificabili come gravi sono estremamente rari» (pagina 8 della nota dell’ISS).
11.– Alla luce dei dati sin qui ripercorsi, deve ritenersi che le autorità scientifiche attestino concordemente la sicurezza dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 oggetto di CMA e la loro efficacia nella riduzione della circolazione del virus (come emerge dalla diminuzione del numero dei contagi, nonché del numero di casi ricoverati, in area medica e in terapia intensiva, e dall’entità dei decessi associati al SARS-CoV-2 relativi al periodo che parte dall’inizio della campagna di vaccinazione di massa risalente a marzo-aprile 2021).
Ed è su questi dati scientifici – forniti dalle autorità di settore e che non possono perciò essere sostituiti con dati provenienti da fonti diverse, ancorché riferibili a “esperti” del settore – che si è basata la scelta politica del legislatore; legislatore che altrimenti, anziché alle autorità istituzionali, avrebbe dovuto affidarsi a “esperti” non è dato vedere con quali criteri scelti.
Appare evidente, dunque, in coerenza con il dato medico-scientifico che attesta la piena efficacia del vaccino e l’idoneità dell’obbligo vaccinale rispetto allo scopo di ridurre la circolazione del virus, la non irragionevolezza del ricorso ad esso, «[a] fronte di “un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque” (sentenza n. 127 del 2022)» (sentenza n. 171 del 2022), caratterizzato da rapidità e imprevedibilità del contagio.
12.– Tale valutazione di non irragionevolezza e idoneità allo scopo vale con particolare riferimento agli esercenti le professioni sanitarie e operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della legge n. 43 del 2006.
E infatti, l’obbligo vaccinale per tali soggetti consente di perseguire, oltre che la tutela della salute di una delle categorie più esposte al contagio, «il duplice scopo di proteggere quanti entrano con loro in contatto e di evitare l’interruzione di servizi essenziali per la collettività» (sentenza n. 268 del 2017).
12.1.– Quest’ultima finalità era particolarmente avvertita in un momento in cui, da un lato, il sistema sanitario nel suo complesso era sottoposto ad un gravissimo stress, dovendo affrontare – oltre a crescenti richieste di assistenza domiciliare – un enorme e incessante incremento di ricoveri per i pazienti affetti da patologia da SARS-CoV-2, con conseguente congestione delle strutture ospedaliere e dei reparti intensivi, e, dall’altro lato, si assisteva a una crescente diffusione del contagio tra il personale sanitario.
Sotto quest’ultimo profilo, basti ricordare che l’ISS, nella menzionata nota, sostiene espressamente che «gli operatori sanitari sono tra le categorie ad alto rischio di contrarre l’infezione da SARS-CoV-2 potendosi infettare più facilmente prendendosi cura dei pazienti e/o interagendo con altro personale sanitario» (pagina 5 della nota dell’ISS).
D’altro canto, il Segretariato generale del Ministero della salute attesta con nettezza il significativo impatto della campagna vaccinale sulla circolazione del SARS-CoV-2 tra gli operatori sanitari: «a seguito dell’avvio della campagna vaccinale c’è stata una netta riduzione della percentuale dei casi tra gli operatori sanitari rispetto al resto della popolazione: a fine dicembre 2020 la percentuale dei casi tra gli operatori sanitari rispetto al resto della popolazione si attestava a circa il 6%, mentre a fine febbraio 2021, in concomitanza con il completamento del ciclo vaccinale e il conseguente sviluppo dell’immunità, risultava poco al di sopra dell’1,5%» (pagina 28 della nota del Segretariato generale del Ministero della salute).
Su altro versante, la predetta situazione di congestionamento si rivelava ancor più allarmante in quanto, in un sistema sanitario prevalentemente proiettato sulla gestione della pandemia, determinava un’estrema difficoltà di disporre cure e ricoveri per i pazienti non affetti da patologia SARS-CoV-2. Sul punto basti segnalare le osservazioni della Direzione generale della programmazione sanitaria del Ministero della salute, la quale, sulla base di una lettura comparativa dei volumi dei ricoveri ospedalieri degli anni 2019-2020, attesta una netta flessione dell’erogazione complessiva dei ricoveri del 2020 rispetto all’anno precedente con una perdita in termini di volumi di circa 1 milione e mezzo di ricoveri (pagina 2 della nota della Direzione generale della programmazione sanitaria del Ministero della salute), flessione «che ha con tutta probabilità determinato l’impossibilità di curarsi di pazienti affetti da patologie diverse dal COVID-19» (pagina 3 della medesima nota).
12.2.– Con specifico riferimento al – differente ma complementare – scopo di proteggere quanti entrano in contatto con gli esercenti le professioni sanitarie e operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della legge n. 43 del 2006, è opportuno ricordare che già in passato questa Corte – esaminando una legge regionale che prevede la facoltà della Giunta regionale di individuare i reparti dove consentire l’accesso ai soli operatori che si siano attenuti alle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente per i soggetti a rischio per esposizione professionale – ha avuto modo di valorizzare, con riferimento alla vaccinazione degli operatori sanitari, lo «scopo di prevenire e proteggere la salute di chi frequenta i luoghi di cura: anzitutto quella dei pazienti, che spesso si trovano in condizione di fragilità e sono esposti a gravi pericoli di contagio, quella dei loro familiari, degli altri operatori e, solo di riflesso, della collettività. Tale finalità […] è del resto oggetto di attenzione da parte delle società medico-scientifiche, che segnalano l’urgenza di mettere in atto prassi adeguate a prevenire le epidemie in ambito ospedaliero, sollecitando anzitutto un appropriato comportamento del personale sanitario, per garantire ai pazienti la sicurezza nelle cure» (sentenza n. 137 del 2019).
D’altronde, come segnalato anche dall’ISS nella sopra citata nota, «[l]e infezioni tra gli operatori sanitari hanno un impatto negativo sulla salute individuale e collettiva sia direttamente che indirettamente. Infatti non solo l’operatore sanitario può a sua volta trasmettere l’infezione più facilmente a pazienti tra cui soggetti fragili ad alto rischio di sviluppare forme gravi di malattia ma, indirettamente, le procedure di isolamento e quarantena che si renderebbero necessarie a seguito di un’eventuale infezione possono provocare danno al sistema sanitario nazionale in termini di garanzia e continuità nell’erogazione delle cure» (pagina 5 della nota ISS). Con ciò, peraltro, evidenziando, ancora una volta, la possibile ricaduta in termini di rischio di interruzione del servizio sanitario.
12.3.– Della convergenza, in capo agli esercenti le professioni sanitarie e operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della legge n. 43 del 2006, di queste plurime valutazioni - che giustificano un trattamento differenziato per tali soggetti -, vi è traccia anche nella Relazione illustrativa del d.l. n. 44 del 2021: «L’introduzione di un siffatto obbligo per le categorie professionali considerate nasce dalla constatazione che la vaccinazione degli operatori sanitari, unitamente alle altre misure di protezione collettiva e individuale per la prevenzione della trasmissione degli agenti infettivi nelle strutture sanitarie e negli studi professionali, ha valenza multipla: consente di salvaguardare l’operatore rispetto al rischio infettivo professionale, contribuisce a proteggere i pazienti dal contagio in ambiente assistenziale e serve a difendere l’operatività dei servizi sanitari, garantendo la qualità delle prestazioni erogate, e contribuisce a perseguire gli obiettivi di sanità pubblica».
12.4.– Fortemente significativa è, infine, sotto il profilo di diritto comparato, la tendenziale omogeneità della soluzione, adottata in altri Paesi, nel senso della obbligatorietà della vaccinazione legata a certe professioni, tra le quali spiccano, per tutte – pur nell’ambito di una certa variabilità delle altre categorie soggettive coinvolte e pur nella diversità degli approcci che emerge dal confronto tra i vari ordinamenti –, quelle sanitarie.
In particolare, va segnalato che l’obbligo vaccinale per gli esercenti attività in ambito sanitario è stato introdotto, tra l’altro, in Francia e in Germania, nonché nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America. E, come meglio esposto in seguito, le Corti, anche costituzionali, di alcuni Paesi hanno ritenuto la legittimità dell’obbligo, facendo ricorso ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità, utilizzati in modo non dissimile da come sviluppati nel nostro ordinamento.
13.– Verificata, dunque, in coerenza con il dato medico-scientifico che attesta la piena efficacia del vaccino nei sensi sopra esaminati, l’idoneità dell’obbligo vaccinale degli esercenti le professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della legge n. 43 del 2006, rispetto alla finalità di ridurre la circolazione del virus – funzionale al duplice scopo, sopra ricordato, di proteggere quanti entrano con loro in contatto e di evitare l’interruzione di servizi essenziali per la collettività –, e quindi la non irragionevolezza del ricorso ad esso, va ora valutato il profilo concernente l’osservanza del principio di proporzionalità rispetto alle finalità perseguite.
Come già affermato da questa Corte, quando si è in presenza di una questione concernente il bilanciamento tra due diritti, «il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del cosiddetto test di proporzionalità, che “richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi” (sentenza n. 1 del 2014, richiamata, da ultimo, dalle sentenze n. 137 del 2018, n. 10 del 2016, n. 272 e n. 23 del 2015 e n. 162 del 2014)» (sentenza n. 20 del 2019).
13.1.– Sotto tale aspetto, la misura deve ritenersi non sproporzionata, in primo luogo, perché non risultavano, a quel tempo, misure altrettanto adeguate rispetto allo scopo prefissato dal legislatore per fronteggiare la pandemia. E ciò vale, in particolare, per la soluzione alternativa prospettabile (utilizzata in ámbiti più generali, per l’accesso ai luoghi pubblici da parte di soggetti non appartenenti a categorie soggette a vaccinazione obbligatoria), rappresentata dall’effettuazione periodica di test diagnostici dell’infezione da SARS-CoV-2. Innanzitutto perché, dovendo essere effettuati con una cadenza particolarmente serrata (e cioè ogni due o tre giorni), avrebbero avuto costi insostenibili e avrebbero comportato un intollerabile sforzo per il sistema sanitario, già impegnato nella gestione della pandemia, tanto a livello logistico-organizzativo, quanto per l’impiego di personale. D’altro canto, l’esito del test non è immediatamente disponibile rispetto al momento della sua effettuazione: esso, pertanto, nasce già “obsoleto”, posto che l’esito può essere già stato superato da un contagio sopravvenuto nel frattempo, con il fisiologico rischio della presenza nei luoghi di cura di soggetti inconsapevolmente contagiati.
13.2.– Sempre con riferimento al rispetto della proporzionalità, va, altresì, rilevato che la conseguenza del mancato adempimento dell’obbligo è rappresentata dalla sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie, con reintegro al venir meno dell’inadempimento dell’obbligo e, comunque, dello stato di crisi epidemiologica.
La scelta – che non riveste natura sanzionatoria – si muove nell’ambito della responsabilità del legislatore di individuare una conseguenza calibrata, in termini di sacrificio dei diritti dell’operatore sanitario, che sia strettamente funzionale rispetto alla finalità perseguita di riduzione della circolazione del virus.
E ciò tanto in termini di durata, posto che, secondo quanto già sopra evidenziato, il legislatore ha introdotto, sin dall’inizio, una durata predeterminata dell’obbligo vaccinale, modificandola, costantemente, in base all’andamento della situazione sanitaria, giungendo ad anticiparla appena la situazione epidemiologica lo ha consentito; quanto in termini di intensità, trattandosi di una sospensione del rapporto lavorativo, senza alcuna conseguenza di tipo disciplinare, e non di una sua risoluzione.
13.3.– È interessante notare come in altri ordinamenti, e segnatamente in quello francese, la giurisprudenza, rigettando un’istanza che mirava alla presentazione di una question prioritaire de constitutionnalité degli artt. 12 e 14 della legge 5 agosto 2021, n. 1040, abbia sostenuto che il fatto che l’art. 14 – concernente le conseguenze dell’inadempimento degli obblighi vaccinali – non preveda la risoluzione del contratto di lavoro o la cessazione dalle funzioni delle persone interessate, bensì la sospensione del rapporto, fa propendere per «una conciliazione non manifestamente squilibrata fra le esigenze costituzionali discendenti dal diritto al lavoro e al diritto alla tutela della salute» (Conseil d’État, sezioni V e VI riunite, 28 gennaio 2022, n. 457879, paragrafo 12).
Diversamente, in altri ordinamenti, quali la Germania, il Regno Unito e gli Stati Uniti d’America, è stata introdotta la possibilità di ricorrere al licenziamento (indipendentemente dalla frequenza con cui, nella prassi, vi si sia fatto ricorso).
In particolare, in Germania, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che, sebbene la libertà di esercitare una professione tuteli anche la volontà del singolo di mantenere il posto di lavoro sì da non ammettere tutte quelle misure che sortiscono l’effetto di obbligare il singolo a rinunciare a un determinato posto di lavoro (Rn. 246), la previsione dell’obbligo vaccinale è tuttavia giustificata in quanto posta a tutela delle persone più vulnerabili (Rn. 254). In particolare, risulta: a) legittimo lo scopo perseguito (Rn. 256); b) adeguata la misura prescelta per il suo raggiungimento, non ravvisandosi misure alternative che comportino un minore sacrificio (Rn. 257, ma anche 189 e seguenti); c) adeguato il bilanciamento operato tra lo scopo perseguito e la gravità del sacrificio comportato (Rn. 258-266) (Tribunale costituzionale federale, ordinanza 27 aprile 2022, 1 BvR 2649/21).
14.– Non colgono nel segno, infine, le doglianze – che, peraltro, meritano attenta considerazione anche in sede legislativa – svolte dal giudice rimettente in ordine alla mancata adozione di «misure di mitigazione» e «misure di precauzione» ad accompagnamento dell’obbligo vaccinale, a suo parere rinvenibili in alcune carenze del triage pre-vaccinale: il mancato coinvolgimento dei medici di medicina generale e l’assenza, prima della inoculazione del vaccino, di adeguati accertamenti, analisi e test diagnostici, nonché dello stesso test sierologico.
14.1.– Quanto al primo profilo, di norma la pratica vaccinale in Italia non prevede un coinvolgimento nel triage del medico di medicina generale o del pediatra di libera scelta. Come esposto nella richiamata nota del Segretariato generale del Ministero della salute, le vaccinazioni previste dai calendari vaccinali regionali sono in genere eseguite, salvo talune eccezioni che qui non rilevano, presso i servizi di vaccinazione delle aziende sanitarie locali o provinciali delle varie regioni da parte degli operatori di sanità pubblica (medici igienisti, assistenti sanitari, infermieri).
Di norma, dunque, il medico di medicina generale non assolve un ruolo primario nella valutazione dell’eleggibilità di un assistito a una vaccinazione, anche in relazione alle vaccinazioni contemplate in via ordinaria nel Piano nazionale di prevenzione vaccinale. Questa valutazione compete, infatti, ai medici vaccinatori, che sono all’uopo adeguatamente formati e che assumono la decisione di procedere o meno con la vaccinazione dell’interessato.
Ciò non toglie, peraltro, che il medico di medicina generale, per espressa previsione del già ricordato comma 2 del censurato art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, ha affiancato i medici vaccinatori nella verifica della presenza delle cause di esenzione dalla vaccinazione e, pertanto, ha nei fatti assolto un ruolo tutt’altro che secondario nel percorso di accompagnamento dei relativi assistiti nell’ambito della campagna vaccinale, proprio in considerazione della conoscenza del paziente e della sua storia clinica.
14.2.– Nemmeno può convenirsi con l’assunto del giudice a quo secondo il quale non sono state predisposte adeguate «misure di precauzione» ad accompagnamento dell’obbligo vaccinale, quali adeguati accertamenti in fase di triage pre-vaccinale.
Nella pratica, l’anamnesi pre-vaccinale è una pratica standardizzata attraverso la quale è possibile stabilire la presenza di eventuali controindicazioni o di precauzioni rispetto alla vaccinazione, attraverso una serie di precise e semplici domande, a cui possono e devono seguire, se del caso, eventuali ulteriori approfondimenti, ivi inclusi, raramente, accertamenti diagnostici o consulti clinici con il medico di medicina generale o il medico specialista che assiste il soggetto. Il personale sanitario che esegue una vaccinazione deve infatti verificare la presenza di controindicazioni e/o di precauzioni in ogni persona prima di somministrare qualsiasi vaccino, secondo un consolidato protocollo.
Con riferimento al rilievo conferito dal rimettente alla mancata somministrazione di test pre-vaccinali, va considerato come normalmente per le vaccinazioni non sia prevista l’effettuazione di simili test per stabilire il profilo di sicurezza relazionato a un determinato individuo. Non sono richiesti esami di laboratorio o altri accertamenti diagnostici da eseguire di routine prima della vaccinazione, in quanto non esiste alcuna evidenza che supporti l’utilità di un loro utilizzo esteso, in maniera aprioristica, a tutti i soggetti candidati alla vaccinazione: non esistono test, inclusi quelli di carattere genetico, che vengano raccomandati come test pre-vaccinali (pagina 28 della nota del Segretariato generale del Ministero della salute).
Del resto, come il Presidente del Consiglio rammenta nel proprio atto di intervento, le principali autorità sanitarie in ambito internazionale, inclusi l’Organizzazione mondiale della sanità e i Centers for disease prevention and control statunitensi, non raccomandano l’esecuzione di alcun test pre-vaccinale per la vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2.
La considerazione che normalmente per le vaccinazioni non sia prevista l’effettuazione di un test in ordine alla patologia di riferimento vale anche con riguardo alla mancata effettuazione del test sierologico.
14.3.– Occorre, infine, soffermarsi anche sul profilo più generale delle cautele o condotte che lo stato delle conoscenze scientifiche e l’arte prescrivono in relazione alla attuazione ed esecuzione materiale del trattamento sanitario.
Impregiudicato il diritto a un indennizzo in caso di eventi avversi comunque riconducibili al vaccino, inerenti a quel rischio ineliminabile di cui si è già detto sopra, resta ferma la responsabilità civile di cui all’art. 2043 del codice civile per l’ipotesi in cui «il danno ulteriore sia imputabile a comportamenti colposi attinenti alle concrete misure di attuazione […] o addirittura alla materiale esecuzione del trattamento stesso» (sentenza n. 307 del 1990).
Questa Corte, infatti, facendo riferimento alla «necessità che il soggetto vaccinando sia messo quanto più possibile al riparo dai rischi di complicanze da vaccino», rimarca come tali «esigenze cautelative […] già trovino un primo livello di risposta nella doverosità dell’osservanza, in sede di attuazione ed esecuzione del trattamento obbligatorio, di quelle “cautele o […] modalità che lo stato delle conoscenze scientifiche e l’arte prescrivono in relazione alla sua natura”, e la cui violazione fonda […] la tutela aquiliana ex art. 2043 cit.» (sentenza n. 258 del 1994; ma anche, in termini, la sentenza n. 307 del 1990).
15.– Alla luce di tutte le considerazioni sin qui svolte deve quindi dichiararsi non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento all’art. 32 Cost., dell’art. 4, commi 1 e 2, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui prevede, da un lato, l’obbligo vaccinale per il personale sanitario e, dall’altro lato, per effetto dell’inadempimento dello stesso, la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie.
16.– Ugualmente non fondate sono le questioni sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 21 Cost., dell’art. 1 della legge n. 219 del 2017, nella parte in cui non prevede l’espressa esclusione dalla sottoscrizione del consenso informato nelle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori, e dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui non esclude l’onere di sottoscrizione del consenso informato nel caso di vaccinazione obbligatoria.
16.1.– Il consenso informato, quale condizione per la liceità di qualsivoglia trattamento sanitario, trova fondamento nell’autodeterminazione, nelle scelte che riguardano la propria salute, intesa come libertà di disporre del proprio corpo, diritti fondamentali della persona sanciti dagli artt. 2, 13, 32 Cost. e dagli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Secondo quanto disposto dall’art. 1 della legge n. 219 del 2017, «nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge». Più precisamente, il consenso del paziente deve essere libero e consapevole, preceduto da informazioni complete, aggiornate e comprensibili relative a diagnosi, prognosi, benefici e rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, possibili alternative e conseguenze dell’eventuale rifiuto al trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.
Orbene – premessa la rilevanza della raccolta del consenso anche ai fini di un’adeguata emersione dei dati essenziali per una completa e corretta anamnesi pre-vaccinale, destinata, tra l’altro, come sopra ricordato, a valutare l’eleggibilità del soggetto interessato alla vaccinazione – la natura obbligatoria del vaccino in esame non esclude la necessità di raccogliere il consenso informato, che viene meno solo nei casi espressamente previsti dalla legge, come disposto dal comma 1 dell’art. 1 della citata legge n. 219 del 2017.
L’obbligatorietà del vaccino lascia comunque al singolo la possibilità di scegliere se adempiere o sottrarsi all’obbligo, assumendosi responsabilmente, in questo secondo caso, le conseguenze previste dalla legge.
Qualora, invece, il singolo adempia all’obbligo vaccinale, il consenso, pur a fronte dell’obbligo, è rivolto, proprio nel rispetto dell'intangibilità della persona, ad autorizzare la materiale inoculazione del vaccino.
17.– In conclusione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate vanno dichiarate in parte manifestamente inammissibili e in parte non fondate.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76, nella parte in cui prevede, da un lato, l’obbligo vaccinale per il personale sanitario e, dall’altro lato, per effetto dell’inadempimento stesso, la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 33, 34 e 97 della Costituzione, dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 2, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, sollevata, in riferimento all’art. 32 Cost., dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), nella parte in cui non prevede l’espressa esclusione della sottoscrizione del consenso informato nelle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori, e dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui non esclude l’onere di sottoscrizione del consenso informato nel caso di vaccinazione obbligatoria, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 21 Cost., dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Allegato:
Ordinanza Letta All'udienza Del 30 Novembre 2022
ORDINANZA
Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44 (Misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76, nonché degli artt. 1 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) e 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, promosso dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con ordinanza del 22 marzo 2022, iscritta al n. 38 registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2022.
Rilevato che, nel giudizio sono intervenuti, con atti depositati il 16 maggio 2022, D. D.P. e altri nove, R. S. e G. V., M. A. e altri dodici, A. C. e S. M.; con atti depositati il 17 maggio 2022, V. B. e altri sedici, G. L. e altri quattro, L. B., M. D.M., S. P. e altri quattro, A. B., P. C.;
che alcuni di essi (D. D.P. e altri nove, R. S. e G. V., M. A. e altri dodici, A. C. e S. M., L. B.), in quanto esercenti le professioni sanitarie e operatori di interesse sanitario e, pertanto, destinatari dell'obbligo vaccinale ai sensi dell'art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, sostengono di trovarsi nella medesima condizione di diritto sostanziale dell'appellante di cui all'ordinanza di rimessione indicata;
che altri (M. D.M., A. B., P. C.) sono cittadini ultracinquantenni destinatari dell'obbligo vaccinale ex art. 1 del decreto-legge 7 gennaio 2022, n. 1 (Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza COVID-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti della formazione superiore), convertito, con modificazioni, nella legge 4 marzo 2022, n. 18, oppure (V. B. e altri sedici, G. L. e altri quattro, S. P. e altri quattro) «privati cittadini italiani [...], lavoratori, medici e non, over 50 (e qualcuno prossimo), che hanno deciso di non "vaccinarsi covid" per proprie motivazioni personali», che assumono essere titolari di una posizione suscettibile di restare incisa dall'esito del giudizio di questa Corte.
Considerato che, ai sensi dell'art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, nel giudizio in via incidentale possono intervenire «i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio»;
che la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è, infatti, circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo e che «non è sufficiente, al fine di rendere ammissibile l'intervento, la circostanza che il soggetto sia titolare di interessi analoghi a quelli dedotti nel giudizio principale, o che sia parte in un giudizio analogo, ma diverso dal giudizio a quo, sul quale la decisione di questa Corte possa influire» (ordinanza n. 191 del 2021);
che, nel caso in esame, i soggetti intervenuti nel presente giudizio, in quanto destinatari dell'obbligo vaccinale ex art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, sono titolari di un interesse meramente indiretto all'accoglimento della questione di legittimità costituzionale, interesse che ancora meno è possibile apprezzare con riferimento ai soggetti ultracinquantenni o ai soggetti appartenenti a categorie professionali (non meglio precisate nei rispettivi atti di intervento) diverse da quelle di cui al citato art. 4;
che, pertanto, gli interventi devono essere dichiarati inammissibili.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili gli interventi di D. D.P. e altri nove, R. S. e G. V., M. A. e altri dodici, A. C. e S. M., V. B. e altri sedici, G. L. e altri quattro, L. B., M. D.M., S.P. e altri quattro, A. B., P. C.
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 22 marzo 2022, iscritta al n. 47 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dell’art. 4-ter, comma 3, del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76, nella parte in cui, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», esclude, nel periodo di prescritta sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per inadempimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, in relazione al personale di cui alla lettera a) della citata disposizione, l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dall’art. 500 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado).
1.1.– Il Tribunale di Brescia espone che le parti ricorrenti nel giudizio a quo, tutte dipendenti del Ministero dell’istruzione quali docenti, destinatari di provvedimenti di sospensione dal lavoro, adottati fra il mese di dicembre 2021 ed il mese di gennaio 2022, per mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, dichiaratisi, peraltro, disponibili a sottoporsi a test mediante tampone ogni 48 ore, hanno chiesto in via di urgenza di essere reintegrati nel posto di lavoro e nella retribuzione o, quantomeno, di poter ottenere l’assegno alimentare, deducendo l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito.
Il Tribunale di Brescia, ritenuta la specialità di tale disposizione rispetto alla previsione dell’art. 500 del d.lgs. n. 297 del 1994, e dunque l’impossibilità di pervenire in via interpretativa al riconoscimento in favore dei ricorrenti dell’assegno alimentare, ed evidenziata la natura assistenziale di un simile emolumento, ha ravvisato la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale del citato art. 4-ter, comma 3, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
La norma censurata, secondo il rimettente, risulterebbe lesiva della dignità della persona, in quanto, per un periodo temporalmente rilevante, priva i docenti scolastici, che non abbiano voluto vaccinarsi, di ogni forma di sostentamento per far fronte ai bisogni primari della vita. Inoltre, in presenza di una condotta non integrante illecito né disciplinare né penale, e in rapporto ad una fattispecie introdotta in una fase emergenziale e in un contesto del tutto eccezionale, il medesimo art. 4-ter, comma 3, nega ai docenti non vaccinati la corresponsione di una indennità, quale è l’assegno alimentare, generalmente riconosciuta dall’ordinamento per sopperire alle esigenze del lavoratore sospeso anche laddove quest’ultimo sia coinvolto in procedimenti penali e disciplinari per fatti di oggettiva gravità, ciò generando un’irragionevole disparità di trattamento.
1.2.– I lavoratori ricorrenti nel giudizio a quo hanno depositato memoria di costituzione, condividendo le argomentazioni del giudice a quo e chiedendo, quindi, l’accoglimento delle questioni.
1.3.– Ha depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, comunque non fondate.
Le questioni sarebbero inammissibili per inadeguata o carente motivazione sulla non manifesta infondatezza, essendosi il rimettente limitato a una sostanziale riproduzione delle deduzioni delle parti interessate. L’ordinanza di rimessione sarebbe inoltre carente di motivazione circa l’assenza di interpretazioni costituzionalmente orientate delle norme censurate. Infine, sempre in punto di inammissibilità, il Presidente del Consiglio dei ministri obietta che il giudice a quo invoca un intervento di questa Corte in una materia riservata alla discrezionalità del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata.
Le questioni, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, sarebbero comunque non fondate. La norma censurata trae origine dall’esigenza, avvertita dal legislatore, di adottare in ambito scolastico misure gradualmente sempre più cogenti e restrittive per contenere la pandemia da COVID-19, al fine di tutelare il diritto alla salute e quello all’istruzione. Solo, invero, l’avvio della campagna vaccinale ha consentito la piena ripresa dell’attività didattica in presenza. L’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, era stato preceduto dalle misure che regolavano l’impiego delle certificazioni verdi Covid-19 in ambito scolastico e ha provveduto ad estendere l’obbligo vaccinale (già previsto per alcune categorie di lavoratori, come ad esempio il personale sanitario) anche ad una serie di ulteriori categorie (tra cui il personale scolastico). Stante la preminenza accordata al diritto alla salute, la legge avrebbe disposto l’estensione dell’obbligo vaccinale al personale scolastico optando per una soluzione intermedia, rappresentata dall’isolamento dalla comunità lavorativa di riferimento, con sospensione dalla prestazione lavorativa e (conseguentemente) della retribuzione. La difesa statale contesta l’equiparabilità della sospensione dal servizio per pendenza di un procedimento disciplinare, prevista dell’art. 500 del d.lgs. n. 297 del 1994, e la sospensione di cui all’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, essendo quest’ultima giustificata dalla carenza di un «requisito essenziale per lo svolgimento delle attività lavorative dei soggetti obbligati», qual è il vaccino per le categorie previste dalla legge, di tal che la contestuale sospensione dalla retribuzione e da ogni altro compenso o emolumento costituirebbe una conseguenza naturale, in termini sinallagmatici, della mancata erogazione della prestazione. La situazione in cui versa il lavoratore che, per sua scelta volontaria, non sia vaccinato, sarebbe comunque sempre reversibile, giacché, procedendo alla vaccinazione, egli può in ogni momento essere reintegrato in servizio, con conseguente ripristino immediato della corresponsione dello stipendio.
Proprio dalla natura intrinsecamente autonoma della determinazione di non vaccinarsi, e quindi, di non svolgere la prestazione lavorativa, discenderebbe la ragionevolezza della scelta normativa di escludere il diritto alla corresponsione di qualsiasi forma di “retribuzione”, anche sub specie di assegno alimentare, per coloro che «volontariamente» si sottraggono all’obbligo vaccinale, prevedendosi, viceversa, che la sospensione della retribuzione (e di qualsiasi altro emolumento) non si applichi a coloro che, per «accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate», sono esentati da tale obbligo. La scelta del dipendente di non vaccinarsi non è, ad avviso dello stesso Presidente del Consiglio dei ministri, foriera di conseguenze pregiudizievoli irreparabili, giacché non viene avviato alcun procedimento disciplinare e non è prevista la risoluzione del rapporto di lavoro, correlandosi ad essa un effetto che appare ragionevole e proporzionato, orientato dalla ricerca di un contemperamento fra il preminente interesse pubblico al contenimento della diffusione del contagio pandemico e la tutela delle singole posizioni, ferma la delimitazione temporale dell’obbligo vaccinale.
L’effetto della sospensione dal servizio e dalla retribuzione non si connota, pertanto, come una «sanzione», quanto come una misura di sanità pubblica ispirata alla tutela di fondamentali diritti costituzionali, quali la tutela della salute collettiva, il diritto all’istruzione, nonché il diritto all’insegnamento e alla sicurezza sul luogo di lavoro degli studenti e di tutto il personale scolastico. D’altro canto, evidenzia il Presidente del Consiglio dei ministri, l’interesse pubblico al contenimento della pandemia risulta senza dubbio prevalente rispetto all’interesse individuale allo svolgimento della prestazione lavorativa. La norma in esame sarebbe, dunque, pienamente rispettosa dei principi di idoneità, necessarietà e proporzionalità, visto che la pubblica amministrazione, che non possa contare sulla prestazione lavorativa del dipendente inadempiente all’obbligo di vaccinazione, deve comunque provvedere alla sua sostituzione. La difesa statale contesta altresì l’equiparabilità della norma censurata sia a quella dettata dall’art. 82 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), la quale è inquadrata, piuttosto, nel Capo dedicato alle «infrazioni e sanzioni disciplinari», sia a quella prevista dall’art. 500 del d.lgs. n. 297 del 1994, anch’essa inquadrata nella Sezione dedicata alle «[s]anzioni disciplinari», trattandosi nei casi indicati a comparazione di procedimenti il cui svolgimento prescinde dalla volontà del lavoratore.
1.4.– L’Associazione nazionale insegnanti e formatori (ANIEF), organizzazione sindacale del personale docente, ha depositato opinione scritta ex art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis, chiedendo di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-ter del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, ovvero, in via di estensione o previa autoremissione, dell’art. 4-ter.2, introdotto dal decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 (Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza, e altre disposizioni in materia sanitaria), convertito, con modificazioni, nella legge 19 maggio 2022, n. 52, nella parte in cui impone di applicare ai docenti non vaccinati il regime stabilito per i docenti dichiarati inidonei alle proprie funzioni per motivi di salute, per contrasto con gli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, domandando altresì di procedere a rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e rimarcando che la discriminazione operata dal legislatore italiano rileva anche sotto il piano dei diritti garantiti dalla direttiva 2000/78/CE, del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e dalla CDFUE, nonché dei principi euro-unitari di necessarietà, adeguatezza e proporzionalità.
1.5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022, ribadendo le considerazioni svolte nell’atto di intervento in punto di inammissibilità o, in subordine, di non fondatezza delle questioni.
2.– Con ordinanza del 14 marzo 2022, iscritta al n. 70 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32, secondo comma, Cost., dell’art. 4, comma 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», esclude, in relazione agli esercenti le professioni sanitarie e agli operatori di interesse sanitario, l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dalla legge ovvero dalla contrattazione collettiva di categoria nel periodo di sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per inadempimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2.
2.1.– Il Tribunale di Catania espone che le parti ricorrenti nel giudizio a quo, tutte dipendenti a tempo indeterminato di un’azienda ospedaliera pubblica con profilo professionale di collaboratore sanitario-infermiere, destinatari di provvedimenti di sospensione dal lavoro, adottati fra il mese di ottobre ed il mese di novembre 2021, per mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, hanno chiesto in via di urgenza il riconoscimento dell’assegno alimentare, ai sensi dell’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957 e dell’art. 68 del CCNL del comparto Sanità pubblica, deducendo l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito.
2.2.– Il Tribunale di Catania, ritenuta la specialità della norma in oggetto, che deroga a ogni altra di ordine generale prevista dalla legge ovvero dalla contrattazione collettiva, e dunque l’impossibilità di pervenire in via interpretativa al riconoscimento in favore dei ricorrenti dell’assegno alimentare, ed evidenziata la natura assistenziale di tale emolumento, ha ravvisato la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale del citato art. 4, comma 5, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32, secondo comma, Cost.
La norma censurata, secondo il rimettente, risulterebbe lesiva della dignità della persona, in quanto, per un periodo temporalmente rilevante, priva gli operatori sanitari, che non abbiano voluto vaccinarsi, di ogni forma di sostentamento per far fronte ai bisogni primari della vita. Inoltre, a fronte di una condotta non integrante illecito né disciplinare né penale, e in rapporto ad una fattispecie introdotta in una fase emergenziale e in un contesto del tutto eccezionale, il medesimo art. 4, comma 5, nega agli operatori sanitari non vaccinati la corresponsione di una indennità, quale è l’assegno alimentare, generalmente riconosciuta dall’ordinamento per sopperire alle esigenze del lavoratore sospeso anche laddove quest’ultimo sia coinvolto in procedimenti penali e disciplinari per fatti di oggettiva gravità, ciò generando un’irragionevole disparità di trattamento.
Il rimettente osserva che, pur considerate le finalità di «tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza», in attuazione del piano di cui all’art. 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023), rappresentate nel comma 1 dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, appaiono sproporzionate e sbilanciate le conseguenze che la disciplina in esame determina nella sfera del lavoratore, per di più irrigidite dalle modifiche apportate all’originaria formulazione (che contemplava la possibilità di verificare l’assegnazione del dipendente a mansioni diverse, ipotesi poi ammessa solo nei casi di esonero o differimento dell’obbligo vaccinale), nell’ottica della necessaria considerazione degli altri valori costituzionali coinvolti. Tale disciplina, precludendo all’operatore sanitario non vaccinato la possibilità di espletare la prestazione lavorativa (anziché applicare altre soluzioni, quali, ad esempio, la sottoposizione del lavoratore ad un rigido sistema di controllo tramite test di rilevazione del virus, o l’assegnazione a mansioni diverse, ove possibile), finisce, ad avviso del giudice a quo, per realizzare una sorta di «forzata induzione» all’adempimento dell’obbligo vaccinale, finendo per contrastare altresì con l’art. 32, secondo comma, Cost., che, anche per i trattamenti sanitari obbligatori, impone alla legge di non violare «i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
La norma censurata, negando ogni sostegno economico all’operatore sanitario sospeso dal rapporto di lavoro per mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, pone il lavoratore, secondo il Tribunale di Catania, di fronte alla prospettiva di non poter assicurare a sé e alla propria famiglia neppure i mezzi di sostentamento minimi e indispensabili, così come di non poter far fronte ai propri impegni economici, con gravi conseguenze del vivere quotidiano. L’ordinanza di rimessione richiama altresì, a titolo comparativo, le norme che comunque riconoscono un assegno alimentare al dipendente pubblico destinatario di un provvedimento di sospensione disciplinare o cautelare.
2.3.– Ha depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate. Si evidenzia che l’obbligo di somministrazione del vaccino anti COVID-19 è diretto a preservare lo stato di salute non solo del lavoratore obbligato all’adempimento, ma anche di tutti gli altri membri della collettività e, in particolare, dei soggetti fragili. Nel caso degli operatori sanitari, in particolare, l’obbligo vaccinale è funzionale a garantire la protezione dell’operatore stesso, del restante personale sanitario, e dei pazienti dal rischio di contagio, nonché ad assicurare l’operatività dei servizi sanitari e, quindi, l’offerta di assistenza e la continuità nell’erogazione delle cure ai cittadini.
Richiamando l’elaborazione della giurisprudenza amministrativa in argomento, la difesa statale sottolinea che, nell’imposizione dell’obbligo vaccinale, il legislatore ha iniziato da quei soggetti che sono maggiormente esposti al contagio, cioè quelli che sono in costante contatto con l’utenza pubblica ed in generale con terze persone, anche infette. Quanto, poi, alle misure per rendere effettivo l’obbligo, il legislatore ha optato per una soluzione intermedia rappresentata dall’isolamento dalla comunità lavorativa di riferimento, con sospensione dalla prestazione lavorativa e conseguentemente dalla retribuzione, vista la mancata prestazione del servizio per difetto di «requisito essenziale per lo svolgimento delle attività lavorative».
Il Presidente del Consiglio dei ministri sottolinea, inoltre, l’efficacia e la rilevanza dei vaccini somministrati ai professionisti sanitari ai fini della tutela della salute pubblica. Invero, l’obbligo di somministrazione del vaccino anti COVID-19 è diretto a preservare lo stato di salute non soltanto del lavoratore, ma anche di tutti gli altri membri della collettività e, in particolare, di coloro che, a causa di particolari condizioni patologiche, correrebbero seri rischi nel caso in cui venissero contagiati. Nel caso dei professionisti sanitari, in particolare, l’obbligo vaccinale è funzionale a proteggere i pazienti dal rischio di contagio in ambiente assistenziale, e serve quindi a difendere anche l’operatività dei servizi sanitari, garantendo, al contempo, la qualità delle prestazioni erogate.
Si osserva, ulteriormente, che non sarebbe ravvisabile alcuna analogia tra la sospensione prevista nel caso di procedimento disciplinare o penale a carico del dipendente, e quella derivante dal mancato assolvimento dell’obbligo vaccinale, atteso che, nel primo caso, la sospensione interviene prima dell’accertamento sulla ricorrenza dell’illecito, mentre nel secondo caso la sospensione interviene dopo aver appurato la mancanza, ingiustificata, dell’adempimento prescritto. Peraltro, il procedimento disciplinare e quello penale, una volta avviati, procedono in modo autonomo e indifferente rispetto alla volontà del dipendente di poterne bloccare lo svolgimento; al contrario, nel caso della sospensione disposta per la violazione dell’obbligo vaccinale, al dipendente è data la possibilità di riprendere l’esercizio dell’attività lavorativa a seguito della sottoposizione alla vaccinazione.
Viene rimarcato pure che sarebbe contradditorio riconoscere il diritto all’assegno alimentare, che trova la sua fonte nel dovere di solidarietà, ad un soggetto che si sottrae all’obbligo vaccinale ed in tal modo viola lo stesso dovere di solidarietà.
2.4.– La Associazione Enrico Toti ha depositato opinione scritta ex art. 4-ter delle Norme integrative, vigente ratione temporis, chiedendo di dichiarare l’illegittimità costituzionale «dell’obbligo vaccinale di cui all’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021», e comunque di accogliere le questioni di legittimità costituzionale.
2.5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022, ribadendo le considerazioni svolte nell’atto di intervento in punto di non fondatezza delle questioni.
3.– Con ordinanza depositata il 9 maggio 2022, iscritta al n. 71 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 4 Cost., dell’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, richiamato dall’art. 4-ter, comma 2, dello stesso d.l. n. 44 del 2021, nella parte in cui limita ai soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita, l’adibizione a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.
Con la stessa ordinanza, il Tribunale ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dell’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», esclude, nel periodo di prescritta sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per inadempimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, in relazione al personale di cui alla lettera c) del comma 1 della citata disposizione, l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dall’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957 e dell’art. 68 del CCNL del comparto Sanità pubblica.
3.1.– Il Tribunale di Brescia espone che la ricorrente nel giudizio a quo è una dipendente di azienda ospedaliera pubblica in qualità di ausiliaria specializzata, destinataria di provvedimento di sospensione dal lavoro, adottato nel mese di gennaio 2022, per mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, la quale ha chiesto in via di urgenza di essere reintegrata nel posto di lavoro e nella retribuzione o, quantomeno, di poter ottenere l’assegno alimentare.
Dato conto del differimento al 31 dicembre 2022 della sospensione dal lavoro per effetto dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale, in forza del sopravvenuto art. 8, comma 1, del d.l. n. 24 del 2022, come convertito, il rimettente ha quindi evidenziato che il tenore letterale dell’art. 4, comma 7, e dell’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, non consente di riconoscere alla lavoratrice il diritto ad essere reintegrata o di percepire l’assegno alimentare, né in via di interpretazione costituzionalmente orientata, né per disapplicazione delle norme per contrasto con la CDFUE, giacché la materia degli obblighi vaccinali non costituisce oggetto di disciplina dell’Unione europea.
Il Tribunale di Brescia ha altresì posto in risalto la specialità dell’art. 4-ter, comma 3, rispetto all’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957 ed all’art. 68 del CCNL del comparto Sanità pubblica.
3.2.– In punto di non manifesta infondatezza delle censure attinenti all’art. 4, comma 7, il giudice a quo afferma che, stante l’identità del rischio di diffusione del virus, è incomprensibile il motivo per cui l’obbligo di cosiddetto repêchage debba sussistere soltanto a favore dei soggetti esentati dall’obbligo vaccinale o per i quali la vaccinazione è stata differita, e non anche a favore di coloro che scelgano volontariamente di non vaccinarsi. Questa discriminazione, nonostante la temporaneità della misura interdittiva, sarebbe lesiva del principio di eguaglianza e comprimerebbe il diritto al lavoro di coloro che abbiano deciso di non vaccinarsi, essendo praticabili soluzioni alternative, quali, ad esempio, il controllo tramite test di rilevazione del virus o l’assegnazione a mansioni diverse (ipotesi, quest’ultima, che era prevista per il personale sanitario nell’originaria formulazione della norma). Pur spettando al legislatore di stabilire gli effetti dell’accertamento della violazione di un obbligo, la modifica peggiorativa, che non consente l’adibizione a mansioni anche diverse del lavoratore sanitario che non intende vaccinarsi, non sarebbe giustificata in rapporto agli scopi primari della disciplina, costituiti dalla tutela sia della salute pubblica in una situazione emergenziale epidemiologica, sia della sicurezza negli ambienti di lavoro.
Quanto all’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, l’ordinanza di rimessione sottolinea la natura assistenziale dell’assegno alimentare, il quale è perciò generalmente riconosciuto dall’ordinamento in caso di sospensione dal rapporto di lavoro per motivi disciplinari o cautelari. La norma censurata risulterebbe allora lesiva della dignità della persona, in quanto priva i lavoratori del comparto sanità che non abbiano ritenuto di vaccinarsi della possibilità di esercitare la propria attività lavorativa, nonché della corresponsione di una indennità, quale è l’assegno alimentare, attribuita per sopperire alle esigenze basilari della vita. Inoltre, a fronte di una condotta non integrante illecito né disciplinare né penale, e in rapporto a una fattispecie introdotta in una fase emergenziale e in un contesto del tutto eccezionale, il medesimo art. 4-ter, comma 3, negherebbe al personale del comparto sanitario non vaccinato la corresponsione di una indennità, quale è l’assegno alimentare, generalmente riconosciuta dall’ordinamento per sopperire alle esigenze del lavoratore sospeso anche laddove quest’ultimo sia coinvolto in procedimenti penali e disciplinari per fatti di oggettiva gravità, ciò generando un’irragionevole disparità di trattamento.
3.3.– La lavoratrice ricorrente nel giudizio a quo ha depositato memoria di costituzione ed ha chiesto di dichiarare fondate le sollevate questioni di legittimità costituzionale.
3.4.– Ha depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate.
Entrambe le questioni sarebbero inammissibili per inadeguata o carente motivazione sulla non manifesta infondatezza. Si evidenzia che l’obbligo di somministrazione del vaccino anti COVID-19, introdotto per il personale medico e sanitario, risponde ad una chiara finalità di tutela non solo di questo personale sui luoghi di lavoro, ma anche degli stessi pazienti e degli utenti della sanità, pubblica e privata, specie nei confronti delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili. L’eccepito difetto motivazionale dell’ordinanza di rimessione deriverebbe dalla mancata considerazione della peculiare posizione dei sanitari e del personale delle strutture di cui all’art. 8-ter del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre del 1992, n. 421), che costituisce la specifica ratio dell’obbligo vaccinale loro imposto, la quale a sua volta giustifica il punto di equilibrio che il legislatore ha individuato nel bilanciamento tra la libertà di autodeterminazione del singolo e le esigenze di interesse pubblico e tra queste, in primis, quelle concernenti la tenuta dei presidi ospedalieri e la garanzia, per chi necessita di cura ed assistenza, di poterle ricevere in condizioni di massima sicurezza e di minor rischio di contagio possibile.
Ad avviso della difesa statale, un ulteriore profilo di inammissibilità delle questioni discenderebbe dalla constatazione che il rimettente invoca un intervento di questa Corte in una materia riservata alla discrezionalità del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata. Il Tribunale di Brescia chiederebbe a questa Corte di prevedere, a fronte dell’inadempimento all’obbligo vaccinale, la possibilità di non sospendere il personale sanitario e quello agli effetti equiparato, provvedendo, piuttosto, ad adibirlo a mansioni diverse; si chiederebbe, ancora, a questa Corte di prevedere altrimenti, a fronte della sospensione dal servizio per inottemperanza all’obbligo vaccinale, la corresponsione di un emolumento (assegno alimentare) non previsto da alcuna disposizione in materia.
Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, le prospettate questioni di legittimità costituzionale sarebbero comunque destituite di fondamento, atteso che l’obbligo posto nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario appare giustificato dalla constatazione che la vaccinazione di tali categorie di lavoratori, unitamente alle altre misure di protezione collettiva e individuale per la prevenzione della trasmissione degli agenti infettivi nelle strutture sanitarie e negli studi professionali, ha valenza multipla: consente di salvaguardare l’operatore rispetto al rischio infettivo professionale, contribuisce a proteggere i pazienti dal contagio in ambiente assistenziale e serve a difendere l’operatività dei servizi sanitari. Ciò in quanto gli operatori sanitari, da un lato, sono tra le categorie ad alto rischio di contrarre l’infezione da SARS-CoV-2, dall’altro, possono a loro volta trasmettere l’infezione più facilmente a pazienti ad alto rischio di sviluppare forme gravi di malattia.
Lo scrutinio circa la legittimità costituzionale delle disposizioni denunciate dovrebbe, dunque, svolgersi alla luce del principio fondamentale in materia di tutela della salute, quale «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», declinato nella prospettiva della solidarietà sociale e alla luce dei principi di precauzione e proporzionalità nel rapporto tra rischi e benefici. Il rimettente, secondo la difesa dello Stato, non avrebbe avuto cura di indagare sul necessario bilanciamento tra valori costituzionali, in quanto la disposizione censurata ha introdotto un obbligo vaccinale settoriale e non generalizzato, di durata temporanea, che non determina l’applicazione di sanzioni espulsive, avente il solo effetto di sospensione del rapporto di lavoro (o del tirocinio) nei limiti della durata dell’inadempimento dell’obbligo, del tutto coerente, perciò, con la tutela della salute dei pazienti e con l’affidamento che gli stessi ripongono nella somministrazione delle cure in condizioni di massima sicurezza.
Il quadro complessivo dei vantaggi offerti dalla copertura vaccinale e dei rischi marginali confermerebbe, a dire del Presidente del Consiglio dei ministri, la ragionevolezza della composizione di interessi attuata dal legislatore mediante l’obbligo vaccinale e mediante la disciplina delle conseguenze derivanti dal suo inadempimento. Circa la mancata estensione dell’obbligo di repêchage in favore di coloro che scelgono di non vaccinarsi, obbligo viceversa contemplato dal legislatore per i soggetti esentati dalla vaccinazione o per i quali la vaccinazione sia stata differita, varrebbe la considerazione che il diritto all’integrità dello stato di salute dei pazienti, i quali devono fruire della erogazione delle prestazioni sanitarie, non può essere messo sullo stesso piano del diritto al mantenimento della propria situazione lavorativa e professionale di chi volontariamente si sottragga all’obbligo vaccinale, giustificandosi solo nel primo caso, e motivatamente, l’introduzione di un trattamento differenziato da parte del legislatore.
Aggiunge la difesa statale che la modifica più restrittiva dell’originario art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, introdotta dal decreto-legge 26 novembre 2021, n. 172 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19 e per lo svolgimento in sicurezza delle attività economiche e sociali), convertito, con modificazioni, nella legge 21 gennaio 2022, n. 3, nel senso di non prevedere più la possibilità di attribuire diverse mansioni al dipendente che non avesse voluto vaccinarsi, ha trovato giustificazione nei dati prodotti dall’Istituto superiore di sanità (ISS) nel novembre 2021 circa il contagio da SARS-CoV-2 e l’incidenza dello stesso in danno di soggetti non vaccinati, dati che costituiscono presupposti idonei della mutata scelta legislativa, ispirati da esigenze di tutela della salute pubblica e di sicurezza negli ambienti di lavoro ove le prestazioni sanitarie vengono erogate.
Nel merito della seconda questione, il Presidente del Consiglio dei ministri sottolinea la non equiparabilità fra la sospensione dal servizio per pendenza di un procedimento disciplinare e quella di cui all’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, per mancanza di un requisito di capacità lavorativa, qual è il vaccino per le categorie previste dalla legge. La sospensione dalla retribuzione disposta dalla norma censurata costituirebbe, invero, la conseguenza naturale, in termini sinallagmatici, della mancata erogazione della prestazione, in pendenza della sospensione dell’attività lavorativa (e della percezione della retribuzione e degli emolumenti che dalla stessa discendono) derivante da una «scelta volontaria» del dipendente (quella di non vaccinarsi) e dallo stesso in ogni momento modificabile. La sospensione del dipendente non vaccinato non rivelerebbe, quindi, alcuna natura afflittiva o sanzionatoria, né pregiudicherebbe in alcun modo il rapporto di lavoro. Si contesta, inoltre, l’analogia tra la sospensione prevista nel caso di procedimento disciplinare o penale a carico del dipendente, e quella derivante dal mancato assolvimento dell’obbligo vaccinale. Invero, il procedimento disciplinare (e quello penale, ove la condotta configuri un illecito di tale natura), una volta avviato, procede in modo autonomo e indifferente rispetto alla volontà dell’incolpato di poterne bloccare lo svolgimento, e per questo è stabilita l’erogazione di alcune provvidenze (corresponsione di parte degli assegni a carattere fisso e continuativo e dell’assegno alimentare). Di contro, nel caso della sospensione disposta per inottemperanza all’obbligo vaccinale è prevista una reversibilità immediata della situazione originaria, nel senso che al dipendente è data la possibilità di riprendere l’esercizio dell’attività lavorativa sol che questi si sottoponga alla vaccinazione.
3.5.– La Associazione Enrico Toti ha depositato opinione scritta ex art. 4-ter delle Norme integrative, vigente ratione temporis, chiedendo di dichiarare l’illegittimità costituzionale «dell’obbligo vaccinale di cui all’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021», e comunque di accogliere le questioni di legittimità costituzionale.
3.6.– La parte ha depositato memoria illustrativa in data 8 novembre 2022, ribadendo le considerazioni svolte nella memoria di costituzione.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022, ribadendo le considerazioni svolte nell’atto di intervento in punto di inammissibilità o di non fondatezza delle questioni.
4.– Con ordinanza del 28 aprile 2022, iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Padova, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 4, 32 e 35 Cost., dell’art. 4-bis, comma 1, nonché dell’art. 4, commi 1, 4 e 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, modificati dapprima dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, e poi dal d.l. n. 24 del 2022, come convertito, nella parte in cui prevedono per i lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie l’obbligo vaccinale, anziché l’obbligo, per la rilevazione di SARS-CoV-2, di sottoporsi indifferentemente al test molecolare o al test antigenico, da eseguire in laboratorio; oppure al test antigenico rapido di ultima generazione, anche presso centri privati, ogni 72 ore nel primo caso ed ogni 48 nel secondo. Con la stessa ordinanza, il Tribunale di Padova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, sempre in riferimento agli artt. 3, 4, 32 e 35 Cost., dell’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui non prevede che anche per i lavoratori che decidono di non vaccinarsi, al pari dei soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita, sussista l’obbligo del datore di lavoro di adibizione a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.
4.1.– Il Tribunale di Padova espone che il ricorrente nel giudizio a quo è un dipendente, con mansioni di portiere-centralinista, di una struttura sociosanitaria che accoglie persone con disabilità, destinatario di provvedimento di sospensione dal lavoro, adottato per mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, il quale ha chiesto in via di urgenza di essere reintegrato nel posto di lavoro, anche con mansioni differenti, con condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni arretrate.
Il rimettente, ritenuto in premessa che il richiamo fatto dall’art. 4-bis del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, al solo comma 1 dell’art. 4, in tema di estensione dell’obbligo vaccinale ai lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie, debba intendersi esteso anche ai commi 4, 5 e 7 del medesimo art. 4, osserva che in relazione a tali categorie la vaccinazione è imposta non a tutela della salute propria, ma di quella degli ospiti che ricevono cura ed assistenza in tali strutture. Tuttavia, secondo il Tribunale di Padova, l’obbligo vaccinale imposto ai lavoratori non sarebbe idoneo a raggiungere lo scopo di preservare la salute degli ospiti, essendo notorio il fatto che la persona che si è sottoposta al ciclo vaccinale può comunque contrarre il virus e quindi contagiare gli altri. A tal fine, il Tribunale di Padova riporta anche alcuni dati forniti dal Ministero della salute in ordine al rapporto tra l’andamento della campagna vaccinale ed il numero di contagi. Il giudice a quo prospetta, pertanto, il dubbio sulla ragionevolezza dell’imposizione dell’obbligo vaccinale, misura ritenuta non idonea «al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza». Piuttosto, ad avviso del Tribunale, una ragionevole certezza che il lavoratore non sia infetto sarebbe garantita, sia pure per un limitato periodo di tempo, dalla sottoposizione periodica del lavoratore al «tampone» (indifferentemente, test molecolare, test antigenico da eseguire in laboratorio, test antigenico rapido di ultima generazione).
L’ordinanza di rimessione sostiene, quindi, che la norma censurata imponga al lavoratore un obbligo di vaccinazione inutile e gravemente pregiudizievole del suo diritto all’autodeterminazione terapeutica ex art. 32 Cost., nonché del suo diritto al lavoro ex artt. 4 e 35 Cost., prevedendo la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale.
Per il Tribunale di Padova, l’obbligo vaccinale si porrebbe anche in contrasto con il diritto dell’Unione europea, applicabile agli effetti dell’art. 53 della legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea), ai fini della parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto alla condizione e al trattamento garantiti nell’ordinamento italiano ai cittadini dell’Unione europea, nonché agli effetti del regolamento (UE) 2021/953 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2021, su un quadro per il rilascio, la verifica e l’accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione in relazione al COVID-19 (certificato COVID digitale dell’UE) per agevolare la libera circolazione delle persone durante la pandemia di COVID-19.
In particolare, la disciplina italiana che sospende dal lavoro e dalla retribuzione il lavoratore che non intenda vaccinarsi, sembra al Tribunale di Padova lesiva anche del principio di proporzionalità sancito dall’art. 52, paragrafo 3, CDFUE, rivelandosi non necessaria e comunque inidonea allo scopo di evitare il contagio, ed imponendo al lavoratore un sacrificio completamente insostenibile, privandolo integralmente dell’unico mezzo che consente a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. In proposito, il Tribunale di Padova richiama una propria ordinanza del 7 dicembre 2021 con cui sono state sottoposte questioni in via pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. L’ordinanza di rimessione argomenta altresì che l’imposizione al lavoratore dell’obbligo vaccinale, non essendo in grado di preservare la salute degli altri, non sembra conforme all’art. 32 Cost., valutato in relazione al contemperamento fra il diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) e l’interesse della collettività.
4.2.– Il Tribunale di Padova illustra, poi, le ragioni di non manifesta infondatezza delle censure attinenti all’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, sotto il profilo della disparità di trattamento. Tale norma prevede che il datore di lavoro sia tenuto a adibire a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, esclusivamente i lavoratori esentati dall’obbligo vaccinale o per i quali la vaccinazione è stata differita. Viceversa, l’art. 4-ter.2, per il personale docente e educativo della scuola, prevede che l’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale impone al dirigente scolastico di utilizzare il docente inadempiente in attività di supporto alla istituzione scolastica. Poiché la disciplina dell’obbligo vaccinale sia dei sanitari che del personale docente ed educativo della scuola è posta al fine di tutelare la salute pubblica dal pericolo di diffusione del virus, indipendentemente dal fatto che la omessa vaccinazione sia dovuta, o meno, ad una scelta volontaria del lavoratore, non si comprenderebbe, ad avviso del rimettente, per quale motivo l’obbligo di repêchage debba sussistere solo a favore dei secondi e sia invece negato in modo assoluto nel settore sanitario, anche indipendentemente dalla considerazione delle esigenze aziendali.
4.3.– Il lavoratore ricorrente nel giudizio a quo ha depositato memoria di costituzione ed ha chiesto di dichiarare fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Padova.
La difesa della parte ricorrente espone che «è dato ormai incontrovertibile che anche i soggetti vaccinati possano contrarre e trasmettere contagio; di conseguenza, dal punto di vista epidemiologico, vaccinati e non vaccinati, vanno necessariamente trattati, quanto meno, come soggetti tra loro sostanzialmente equivalenti»; che l’art. 4-bis del d.l. n. 44 del 2021, come modificato dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, è incompatibile con l’art. 52 CDFUE; che il vaccino è misura inefficiente ed inefficace a perseguire il fine normativo.
4.4.– Anche la struttura sociosanitaria convenuta nel giudizio principale ha depositato memoria di costituzione nel presente giudizio per sostenere l’inammissibilità, o comunque la non fondatezza, delle questioni legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Padova.
4.5.– Ha depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate.
Le questioni sollevate sarebbero inammissibili per inadeguata o carente motivazione sulla non manifesta infondatezza.
Con particolare riferimento alla prima questione, la difesa dello Stato sostiene che il rimettente, con un sindacato giurisdizionale intrinseco che gli è precluso, revocherebbe in dubbio l’attendibilità, congruenza ed esaustività di dati scientifici raccolti, filtrati e interpretati nel tempo dalle autorità scientifico-sanitarie sulla efficacia dei vaccini, che ritiene di superare invocando il «fatto notorio» della contagiosità anche dei soggetti vaccinati ed il dato di «comune esperienza» di una ragionevole certezza della non infezione del soggetto che sia risultato negativo a tampone. Il Tribunale di Padova perviene così ad affermare l’inidoneità della misura dell’obbligo vaccinale per il personale che presti servizio nelle strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie ad evitare il diffondersi del contagio tra i soggetti fragili ospitati, e denuncia l’illegittimità costituzionale delle disposizioni laddove non prevedono in sua vece l’obbligo del lavoratore di sottoporsi al test molecolare o antigenico. L’Avvocatura generale osserva che il rimettente intenderebbe rinnovare in una sede giudiziale il confronto tra diverse tesi scientifiche, mosso da un «inspiegabile e immotivato sospetto di inattendibilità delle fonti ufficiali», in materia che non può essere esaminata e governata al di fuori del contesto suo proprio e da soggetti privi di specifica competenza.
Ad avviso della difesa statale, un ulteriore profilo di inammissibilità delle sollevate questioni discenderebbe dalla constatazione che il rimettente invoca un intervento in una materia riservata alla discrezionalità del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata.
Il Presidente del Consiglio dei ministri deduce che le prospettate questioni di legittimità costituzionale sarebbero comunque non fondate nel merito, atteso che l’obbligo posto nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario appare giustificato dalla constatazione che la vaccinazione di tali categorie di lavoratori, unitamente alle altre misure di protezione collettiva e individuale per la prevenzione della trasmissione degli agenti infettivi nelle strutture sanitarie e negli studi professionali, ha valenza multipla: consente di salvaguardare l’operatore rispetto al rischio infettivo professionale, contribuisce a proteggere i pazienti dal contagio in ambiente assistenziale e serve a difendere l’operatività dei servizi sanitari.
La difesa dello Stato evidenzia come, allo stato attuale delle evidenze scientifiche disponibili, la vaccinazione anti COVID-19 rappresenti uno strumento fondamentale irrinunciabile per il contrasto alla pandemia sia per la popolazione in generale sia per categorie specifiche come quella degli operatori sanitari e di quelli a tal fine equiparati. Invero, – come rilevato dall’ISS –, anche se l’efficacia vaccinale non è pari al 100 per cento (come del resto per tutti gli altri vaccini), l’elevata circolazione del virus SARS-CoV-2 rende comunque rilevante la quota di casi prevenibile mediante la somministrazione dei vaccini.
In questo contesto, l’immunizzazione attiva degli operatori sanitari rappresenta uno degli interventi più sicuri ed efficaci per il controllo delle infezioni da SARS-CoV-2 in ambito sanitario e in ambito comunitario. In particolare, la vaccinazione comporta benefici di fondamentale importanza per la salute pubblica, poiché, riducendo la circolazione virale, protegge e tutela i pazienti, soprattutto quelli fragili e ad alto rischio di sviluppare forme gravi di malattia. Ulteriori benefici dell’immunizzazione attiva dell’operatore sanitario sarebbero legati alla protezione dell’operatore stesso e del restante personale sanitario, nonché all’impatto sulla riduzione dell’assenteismo lavorativo per malattia/isolamento/quarantena che determinerebbe di riflesso l’interruzione dell’attività dell’operatore con un danno al sistema sanitario nazionale in termini di garanzia dell’offerta di assistenza e continuità di erogazione delle cure ai cittadini.
Circa la mancata operatività dell’obbligo di repêchage in favore di coloro che scelgono di non vaccinarsi, le argomentazioni difensive svolte dal Presidente del Consiglio dei Ministri coincidono con quelle già esposte a proposito del giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 71 reg. ord. 2022.
4.6.– Hanno depositato distinti atti di intervento ad adiuvandum, chiedendo di accogliere le sollevate questioni di legittimità costituzionale, ed altrimenti di valutare le rispettive memorie come opinioni scritte in qualità di amici curiae, D. T. ed altri, A. R., D. D. P. ed altri, L. B., M. A. ed altri, V. B. ed altri, I. D. ed altro, P. C. ed altri, deducendo, a vario titolo, di essere lavoratori che hanno subito la sospensione per mancato assolvimento dell’obbligo vaccinale, o comunque soggetti interessati all’adempimento di tale obbligo.
4.7.– Ha depositato atto di intervento altresì la Azienda ULSS 8 Berica, chiedendo invece di dichiarare inammissibili e comunque non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Padova.
4.8.– Hanno depositato opinioni scritte ex art. 4-ter delle Norme integrative, vigente ratione temporis, la Associazione Enrico Toti, la Associazione CoScienze Critiche, la Associazione EUNOMIS, la Associazione ANIEF, la Associazione di studi e informazioni sulla salute (ASSIS APS) e la Associazione Coordinamento nazionale danneggiati da vaccino (CONDAV ODV) (le ultime due senza rispettare il termine di venti giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana), tutte chiedendo di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Padova.
4.9.– La parte, convenuta nel giudizio a quo, e l’Azienda ULSS 8 Berica hanno depositato memorie illustrative in data 9 novembre 2022.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022, ribadendo le considerazioni svolte nell’atto di intervento in punto di inammissibilità o di non fondatezza delle questioni.
5.– Con ordinanza del 31 maggio 2022, iscritta al n. 77 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 4 Cost., dell’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito e come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, nella parte in cui limita ai soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita l’adibizione a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2 e non prevede che la medesima ipotesi si applichi anche nei confronti del personale sanitario rimasto privo di vaccinazione per una libera scelta individuale.
5.1.– Il Tribunale di Brescia, pronunciando in sede di reclamo avverso il provvedimento che aveva negato la misura cautelare, espone che le ricorrenti nel giudizio a quo sono dipendenti di azienda ospedaliera pubblica in qualità di infermiere ed operatrici sociosanitarie, destinatarie di provvedimento di sospensione dal lavoro, le quali hanno chiesto in via di urgenza di essere reintegrate nel posto di lavoro, anche in mansioni diverse, previo test molecolare o antigenico, e nella retribuzione.
Il Collegio rimettente evidenzia che il tenore letterale dell’art. 4, comma 7, nella formulazione vigente, non consente di riconoscere alle lavoratrici il diritto ad essere reintegrate e di percepire le retribuzioni, né in via di interpretazione costituzionalmente orientata, né mediante disapplicazione delle norme per contrasto con la CDFUE, giacché la materia degli obblighi vaccinali non costituisce oggetto di disciplina dell’Unione.
In punto di non manifesta infondatezza delle censure attinenti all’art. 4, comma 7, il Tribunale afferma che, stante l’identità del rischio di diffusione del virus, è incomprensibile il motivo per cui l’obbligo di repêchage debba sussistere soltanto a favore dei soggetti esentati dall’obbligo vaccinale o per i quali la vaccinazione è stata differita, e non anche a favore di coloro che scelgano volontariamente di non vaccinarsi. Questa discriminazione, nonostante la temporaneità della misura interdittiva, sarebbe lesiva del principio di eguaglianza e comprimerebbe il diritto al lavoro di coloro che abbiano deciso di non vaccinarsi, essendo praticabili soluzioni alternative, quali, ad esempio, il controllo tramite test di rilevazione del virus o l’assegnazione a mansioni diverse (ipotesi, quest’ultima, che era prevista per il personale sanitario nell’originaria formulazione della norma). Pur spettando al legislatore di stabilire gli effetti dell’accertamento della violazione di un obbligo, la modifica peggiorativa, che non consente l’adibizione a mansioni anche diverse del lavoratore sanitario che non intende vaccinarsi, non sarebbe giustificata in rapporto agli scopi primari della disciplina, costituiti dalla tutela della salute pubblica in una situazione emergenziale epidemiologica, nonché della sicurezza negli ambienti di lavoro.
5.2.– Le lavoratrici ricorrenti nel giudizio a quo hanno depositato memoria di costituzione, chiedendo di dichiarare fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Brescia.
5.3.– Ha depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate, per le medesime argomentazioni esposte nelle difese relative ai giudizi di cui sopra.
5.4.– Hanno depositato opinioni scritte ex art. 4-ter delle Norme integrative, vigente ratione temporis, la Associazione Enrico Toti e la Associazione ANIEF, chiedendo di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Brescia.
5.5.– Le parti, ricorrenti nel giudizio a quo, hanno depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022, ribadendo le considerazioni svolte nell’atto di intervento in punto di inammissibilità o di non fondatezza delle questioni.
6.– Con ordinanza del 16 giugno 2022, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2022, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dell’art. 4, comma 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, e come sostituito dall’art. l, comma l, lettera b), del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, nella parte in cui, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», nel periodo di prescritta sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per inadempimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, in relazione agli esercenti le professioni sanitarie e agli operatori di interesse sanitario, esclude l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dalla legge ovvero dalla contrattazione collettiva di categoria in caso di sospensione cautelare o disciplinare.
6.1.– Il TAR Lombardia espone che la ricorrente nel giudizio a quo, operatrice sociosanitaria, dipendente a tempo indeterminato di un’azienda sanitaria, ha domandato l’annullamento dei provvedimenti di sospensione dal lavoro e di accertamento del mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, perché adottati in violazione di legge. Con atto per motivi aggiunti, la ricorrente ha poi invocato la concessione di idonee misure cautelari per evitare il grave pregiudizio e il danno irreparabile alla soddisfazione delle sue essenziali esigenze di vita, derivante dalla sospensione dal servizio con integrale privazione del trattamento retributivo, anche in forma di riconoscimento di un assegno di natura assistenziale.
Il TAR ha ravvisato la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale del citato art. 4, comma 5, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. La norma censurata, secondo il rimettente, priverebbe per un periodo temporalmente rilevante gli operatori sanitari, che non abbiano voluto vaccinarsi, di ogni forma di sostentamento per far fronte ai bisogni primari della vita.
Il giudice a quo ha in via pregiudiziale ritenuto sussistente la propria giurisdizione, superando la contraria eccezione proposta dai resistenti, in quanto, pur rientrando il rapporto di lavoro della ricorrente nell’ambito dell’impiego pubblico privatizzato, il petitum sostanziale della controversia contesta l’effetto legale automatico conseguente all’esercizio del potere vincolato di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale, ovvero l’immediata sospensione dal servizio senza la previsione di una retribuzione, ancorché ridotta, e senza l’attribuzione di adeguate misure di sostegno. Pertanto, ad avviso del TAR Lombardia, pur a fronte di un’attività amministrativa priva di margini di valutazione discrezionale, quale quella delineata dalla disciplina in oggetto a tutela dell’interesse pubblico, si configura una situazione soggettiva di interesse legittimo del privato, tale da radicare la giurisdizione del giudice amministrativo.
Il giudice rimettente ha quindi affermato che la privazione di ogni forma di sostentamento economico durante il periodo di sospensione dal servizio avrebbe determinato un ingiustificato peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti, sia per via della proroga ex lege dell’obbligo di sottoporsi a vaccinazione, sia per via dell’abrogazione dell’obbligo condizionato del datore di lavoro di adibire il dipendente che non abbia adempiuto all’obbligo vaccinale a mansioni diverse, anche inferiori e comunque prive di rischi di contagio, con attribuzione del relativo trattamento economico.
Il TAR ha considerato la specialità della norma in esame, e dunque l’impossibilità di pervenire in via interpretativa al riconoscimento in favore della ricorrente dell’assegno alimentare, e ha espresso al riguardo dubbi di compatibilità con il principio di ragionevolezza, per la gravità delle conseguenze subite dalla dipendente che, non potendo documentare un serio rischio per la propria salute, tale da escludere, definitivamente o temporaneamente, la sussistenza dell’obbligo vaccinale, abbia esercitato il diritto all’autodeterminazione nella scelta dei trattamenti sanitari obbligatori.
La disposizione censurata, secondo il rimettente, contrasterebbe anche con il principio di proporzionalità, sotto il profilo dell’adeguatezza della preclusione automatica e totale di qualsivoglia sostegno economico al dipendente sospeso dal servizio rispetto al fine di interesse pubblico ad essa sotteso, che è quello di evitare il diffondersi del contagio da SARS-CoV-2 negli ambienti sanitari e di garantire la massima sicurezza dei pazienti nell’accesso alle cure. Una volta eliminata dalla disciplina legislativa la possibilità per il datore di lavoro di ricollocare il dipendente inadempiente all’obbligo vaccinale a mansioni diverse, anche inferiori ma comunque retribuite, il regime vigente comporta per il lavoratore una scelta obbligata tra l’adempimento dell’obbligo vaccinale e la sospensione dal servizio senza attribuzione di alcun trattamento economico.
Il TAR osserva che la temporaneità della misura interdittiva adottata dal legislatore non appare idonea a giustificare il sacrificio totale degli interessi antagonisti e che la soppressione di ogni forma di sostegno economico per un periodo di tempo consistente e potenzialmente indeterminato rischia di determinare effetti pregiudizievoli ed irreversibili per la soddisfazione delle essenziali esigenze di vita del dipendente che non abbia adempiuto all’obbligo vaccinale. L’obiettivo di tutela prefigurato dalla norma censurata avrebbe potuto essere realizzato, con pari efficacia, secondo il rimettente, anche con il più mite strumento della temporanea ricollocazione del lavoratore a mansioni diverse, da svolgere in condizioni di sicurezza e compatibilmente con l’organizzazione del servizio (già contemplato dall’art. 4, comma 8, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella versione vigente sino al 26 novembre 2021), o, nell’ipotesi in cui tale soluzione fosse incompatibile con l’organizzazione del servizio, mediante la previsione di un adeguato sostegno economico, con finalità analoghe ai vigenti istituti di sussidio, quali l’assegno sociale o il reddito di cittadinanza.
La privazione automatica ed assoluta di ogni forma di sostegno economico per l’intera durata del periodo di sospensione dal servizio, senza possibilità di prevedere adeguate misure di sostegno economico, sembra al TAR Lombardia irragionevole e sproporzionata anche in riferimento al principio di tutela della dignità dell’individuo, soprattutto nel caso del dipendente sospeso dal servizio che versi in condizioni di indigenza e che, come la ricorrente, sia impossibilitato a procurarsi altrimenti il reddito necessario per attendere alle ordinarie esigenze di vita, per via della conservazione dello status di dipendente pubblico e della conservazione del posto di lavoro, previste quali effetti dell’atto di accertamento, ancorché favorevoli per il lavoratore.
6.2.– Ha depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate, per le medesime argomentazioni esposte nelle difese relative ai giudizi di cui sopra.
6.3.– Ha depositato opinione scritta ex art. 4-ter delle Norme integrative, vigente ratione temporis, la Associazione Enrico Toti, chiedendo di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal TAR Lombardia.
6.4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022, ribadendo le considerazioni svolte nell’atto di intervento in punto di inammissibilità o di non fondatezza delle questioni.
7.– Con ordinanza del 22 luglio 2022, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dell’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», esclude, nel periodo di prescritta sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per inadempimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, in relazione al personale di cui alla lettera c) del comma 1 della citata disposizione, l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dall’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957.
7.1.– Il Tribunale di Brescia espone che la ricorrente nel giudizio a quo è una dipendente di azienda sociosanitaria, invalida al 60 per cento, dapprima posta in modalità di lavoro agile, che non ha completato il ciclo vaccinale per le complicanze subite dopo la somministrazione della prima dose e perciò destinataria di provvedimento di sospensione dal lavoro per mancato adempimento dell’obbligo vaccinale. La medesima ricorrente ha perciò chiesto in via di urgenza di essere reintegrata nel posto di lavoro e nella retribuzione o, quanto meno, di poter ottenere l’assegno alimentare.
Il Tribunale di Brescia ha ripercorso le stesse argomentazioni contenute nell’ordinanza iscritta al n. 71 reg. ord. 2022, censurando l’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021.
7.2.– Ha depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate, per le medesime argomentazioni esposte nelle difese relative ai giudizi di cui sopra.
7.3.– Ha depositato opinione scritta ex art. 4-ter delle Norme integrative, vigente ratione temporis, la Associazione Enrico Toti, chiedendo di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Brescia.
7.4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022, ribadendo le considerazioni svolte nell’atto di intervento in punto di inammissibilità o di non fondatezza delle questioni.
8.– Con ordinanza del 23 luglio 2022, iscritta al n. 102 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dell’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», esclude, nel periodo di prescritta sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per inadempimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, in relazione al personale di cui alla lettera c) del comma 1 della citata disposizione, l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dall’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957.
8.1.– Il Tribunale di Brescia espone che le ricorrenti nel giudizio a quo sono dipendenti di azienda sociosanitaria, destinatarie di provvedimento di sospensione dal lavoro per mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, le quali hanno chiesto di poter ottenere l’assegno alimentare per tutto il periodo della sospensione.
Il Tribunale di Brescia ha ripercorso le stesse argomentazioni contenute nell’ordinanza iscritta al n. 71 reg. ord. 2022, censurando l’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito.
8.2.– Ha depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate, per le medesime argomentazioni esposte nelle difese relative ai giudizi di cui sopra.
8.3.– Ha depositato opinione scritta ex art. 4-ter delle Norme integrative, vigente ratione temporis, la Associazione Enrico Toti, chiedendo di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Brescia.
8.4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022, ribadendo le considerazioni svolte nell’atto di intervento in punto di inammissibilità o di non fondatezza delle questioni.
9.– Con ordinanza del 22 agosto 2022, iscritta al n. 107 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 4 Cost., dell’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui limita ai soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita, l’adibizione a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.
Con la stessa ordinanza, il Tribunale ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dell’art. 4, comma 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», esclude, nel periodo di prescritta sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per inadempimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, in relazione al personale di cui al comma 1 della citata disposizione, l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dall’art. 42 del CCNL sanità privata.
9.1.– Il Tribunale di Brescia espone che la ricorrente nel giudizio a quo è dipendente di una struttura sanitaria privata, destinataria di provvedimento di sospensione dal lavoro per mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, la quale ha chiesto la riammissione in servizio anche con diverse mansioni e di poter ottenere l’assegno alimentare per tutto il periodo della sospensione, come previsto dall’art. 42 del CNNL, secondo cui «[a]l dipendente sospeso cautelativamente è concesso un assegno alimentare nella misura non superiore alla metà dello stipendio, oltre gli assegni per carichi di famiglia».
Il Tribunale di Brescia ha ripercorso le stesse argomentazioni contenute nell’ordinanza iscritta al n. 71 reg. ord. 2022.
9.2.– La lavoratrice ricorrente nel giudizio a quo ha depositato memoria di costituzione, chiedendo di dichiarare fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Brescia, ovvero di indicare una diversa interpretazione dell’art. 4, comma 5, del d.l. n. 44 del 2021, nel senso di ritenere comunque dovuta l’erogazione dell’assegno alimentare.
9.3.– Ha depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate, per le medesime argomentazioni esposte nelle difese relative ai giudizi di cui sopra.
9.4.– Ha depositato opinione scritta ex art. 4-ter delle Norme integrative, vigente ratione temporis, la Associazione Enrico Toti, chiedendo di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Brescia.
9.5.– La parte ha depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022, con allegata documentazione.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022, ribadendo le considerazioni svolte nell’atto di intervento in punto di inammissibilità o di non fondatezza delle questioni.
10.– Con ordinanza del 16 agosto 2022, iscritta al n. 108 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 4 Cost., dell’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, richiamato dall’art. 4-ter, comma 2, del citato decreto, nella parte in cui limita ai soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita, l’adibizione a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.
Con la stessa ordinanza, il Tribunale ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dell’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», esclude, nel periodo di prescritta sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per inadempimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, in relazione al personale di cui al comma 1, lettera c), della citata disposizione, l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dall’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957.
10.1.– Il Tribunale di Brescia espone che la ricorrente nel giudizio a quo è una dipendente comunale che svolge attività di operatore socioassistenziale in strutture di cui all’art. 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992, destinataria di provvedimento di sospensione dal lavoro per mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, la quale ha chiesto la riammissione in servizio anche con diverse mansioni e di poter ottenere l’assegno alimentare per tutto il periodo della sospensione, come previsto dall’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957.
Il Tribunale di Brescia ha ripercorso le stesse argomentazioni contenute nell’ordinanza iscritta al n. 71 reg. ord. 2022.
10.2.– La lavoratrice ricorrente nel giudizio a quo ha depositato memoria di costituzione, chiedendo di dichiarare fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Brescia.
10.3.– Ha depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate, per le medesime argomentazioni esposte nelle difese relative ai giudizi di cui sopra.
10.4.– Ha depositato opinione scritta ex art. 4-ter delle Norme integrative, vigente ratione temporis, la Associazione Enrico Toti, chiedendo di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Brescia.
10.5.– La parte ha depositato memoria illustrativa in data 8 novembre 2022.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa in data 9 novembre 2022, ribadendo le considerazioni svolte nell’atto di intervento in punto di inammissibilità o di non fondatezza delle questioni.
11.– Nella pubblica udienza del 30 novembre 2022 sono stati dichiarati inammissibili gli interventi spiegati nel giudizio iscritto al n. 76 reg. ord. 2022.
Motivi della decisione
1.– Il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro (nei giudizi iscritti ai numeri 47, 71, 77, 101, 102, 107 e 108 reg. ord. 2022), il Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro (nel giudizio iscritto al n. 70 reg. ord. 2022), il Tribunale ordinario di Padova, in funzione di giudice del lavoro (nel giudizio iscritto al n. 76 reg. ord. 2022), ed il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia (nel giudizio iscritto al n. 86 reg. ord. 2022) hanno sollevato, con riferimento ai parametri di volta in volta evocati e comunque complessivamente riconducibili agli artt. 2, 3, 4, 32, secondo comma, e 35 Cost., identiche o analoghe questioni di legittimità costituzionale:
a) dell’art. 4, comma 7, nonché dell’art. 4-ter, comma 2, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui, per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario e per il personale che svolge la propria attività lavorativa nelle strutture sanitarie e sociosanitarie, limitano ai soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita l’adibizione a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, e non prevedono che la medesima ipotesi si applichi anche nei confronti del personale rimasto privo di vaccinazione per una libera scelta individuale;
b) dell’art. 4, comma 5, nonché dell’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», escludono, in relazione agli esercenti le professioni sanitarie e agli operatori di interesse sanitario, nonché al personale di cui alla lettera a) (personale scolastico) ed alla lettera c) (personale occupato nelle strutture di cui all’art. 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992) del comma 1 dell’art. 4-ter, l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dalla legge ovvero dalla contrattazione collettiva di categoria in caso di sospensione cautelare o disciplinare nel periodo di sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per inadempimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2.
L’ordinanza di rimessione proveniente dal Tribunale di Padova (iscritta al n. 76 reg. ord. 2022) riguarda poi anche gli artt. 4-bis, comma 1, e 4, commi 1, 4 e 5 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, modificati dapprima dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, e poi dal d.l. n. 24 del 2022, come convertito, nella parte in cui prevedono per i lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie l’obbligo vaccinale, anziché l’obbligo di sottoporsi indifferentemente al test molecolare, al test antigenico da eseguire in laboratorio, oppure al test antigenico rapido di ultima generazione, per la rilevazione di SARS-CoV-2.
2.– Per l’ampia coincidenza delle questioni sollevate e dei parametri evocati, i dieci giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.
3.– In via preliminare, deve essere confermata l’ordinanza dibattimentale, allegata a questa sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi spiegati da D. T. ed altri cinque, A. R., D. D.P. ed altri otto, L. B., M. A. ed altri ventotto, V. B. ed altri quarantanove, I. D. e C. M., P. C. ed altri cinque, e dalla Azienda ULSS n. 8 Berica nel giudizio di legittimità costituzionale iscritto al n. 76 reg. ord. 2022.
Non può, peraltro, accogliersi la richiesta, formulata in via subordinata da alcuni intervenienti, di valutare i loro atti di intervento come opinioni scritte ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative, vigente ratione temporis: da un lato, infatti, possono rivestire, in forza di tale disposizione, la qualità di amici curiae unicamente le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità; dall’altro, due istituti, (l’intervento e l’opinio dell’amicus curiae) significativamente diversi quanto a presupposti e modalità processuali, non possono concorrere nello stesso atto, né in via alternativa né subordinata.
Del resto, questa Corte ha già più volte sottolineato che la ratio dell’intervento nel giudizio costituzionale è radicalmente diversa, anche sotto il profilo della legittimazione, da quella sottesa alle opinioni degli amici curiae, come diversi sono i termini per l’ingresso in giudizio e le relative facoltà processuali (sentenze n. 259, n. 221 e n. 121 del 2022).
4.– Non sono fondate le eccezioni di inammissibilità svolte negli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.
Le ordinanze di rimessione recano una adeguata motivazione, in punto di non manifesta infondatezza, delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, indicando le ragioni per le quali sono evocati i parametri di volta in volta menzionati.
I rimettenti hanno, inoltre, ritenuto preclusa l’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, in ragione della loro univoca formulazione letterale, e ciò consente di superare il vaglio di ammissibilità delle questioni incidentali sollevate, attenendo invece al merito, e cioè alla successiva verifica di fondatezza delle questioni stesse, la correttezza o meno dell’esegesi presupposta (ex multis, sentenze n. 219 e n. 174 del 2022, n. 204 e n. 172 del 2021, n. 150 del 2020 e n. 189 del 2019).
Infine, non possono essere accolte le eccezioni di inammissibilità formulate per l’assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata con riguardo alla previsione di un obbligo vaccinale per alcune categorie di lavoratori ed alle conseguenze che le norme censurate riconnettono all’inadempimento di tale obbligo, quanto, in particolare, alla mancata erogazione di un assegno alimentare in favore del lavoratore sospeso ed alla mancata adibizione dello stesso a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione: invero, i rimettenti hanno chiesto di colmare le lacune conseguenziali all’eventuale accoglimento delle questioni, riconoscendo tali diritti ai lavoratori sospesi per mancato assolvimento dell’obbligo di vaccinazione, mentre l’aspetto inerente alla correttezza di siffatte integrazioni afferisce al merito delle questioni (ex multis, sentenza n. 233 del 2018).
5.– Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal TAR Lombardia con l’ordinanza iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2022 sono inammissibili.
Il Tribunale rimettente, invero, disattendendo la contraria eccezione proposta dai resistenti, ha ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto, pur rientrando il rapporto di lavoro dedotto nel giudizio a quo nell’ambito dell’impiego pubblico privatizzato, il petitum sostanziale della controversia contesta l’effetto legale automatico conseguente all’esercizio del potere vincolato di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale, ovvero l’immediata sospensione dal servizio senza la previsione di una retribuzione, ancorché ridotta, e senza l’attribuzione di adeguate misure di sostegno. Pertanto, ad avviso del TAR, pur a fronte di un’attività amministrativa priva di margini di valutazione discrezionale, quale quella delineata dalla disciplina in oggetto a tutela dell’interesse pubblico, si configurerebbe una situazione soggettiva di interesse legittimo del privato, tale da radicare la giurisdizione del giudice amministrativo.
5.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il difetto di giurisdizione del giudice a quo determina l’inammissibilità delle questioni, per difetto di rilevanza, quando sia palese e rilevabile ictu oculi (ex plurimis, sentenze n. 79 del 2022, n. 65 e n. 57 del 2021, n. 267 e n. 99 del 2020, n. 189 del 2018, n. 106 del 2013 e n. 179 del 1999).
Qualora sussista l’evidenza del vizio, o nel giudizio a quo siano state sollevate specifiche eccezioni a riguardo, come nel caso di specie, è richiesta al giudice rimettente una motivazione esplicita (sentenze n. 65 del 2021 e n. 267 del 2020), rispetto alla quale spetta a questa Corte una verifica esterna e strumentale al riscontro della rilevanza delle questioni (sentenze n. 24 del 2020, n. 52 del 2018 e n. 269 del 2016).
Orbene, la motivazione, alla stregua della quale il rimettente ha ritenuto di disattendere l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, non supera il vaglio della non implausibilità al quale si attiene questa Corte in relazione alla verifica della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale.
Invero, nel giudizio principale è stato chiesto l’annullamento degli atti di accertamento del mancato adempimento dell’obbligo vaccinale e di sospensione dal lavoro adottati, nei confronti di una operatrice sociosanitaria, da un’azienda sanitaria pubblica. Come riconosciuto dallo stesso TAR rimettente, i provvedimenti in questione sono stati emessi nell’ambito di un rapporto di impiego pubblico contrattualizzato, in relazione al quale la giurisdizione spetta, in via generale, al giudice ordinario. In particolare, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario qualora la domanda del dipendente pubblico, individuata sulla base del petitum sostanziale in funzione della causa petendi, miri alla tutela di posizioni giuridiche soggettive afferenti al rapporto di lavoro, asseritamente violate da atti illegittimi, tra cui un atto di sospensione dal servizio.
Del resto, le sezioni unite civili della Corte di cassazione, con ordinanza 29 settembre 2022, n. 28429, hanno affermato, in un caso analogo a quello in questa sede in esame, che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto l’annullamento dell’atto di sospensione dall’esercizio della professione sanitaria per mancata ottemperanza all’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, venendo primariamente in rilievo il diritto soggettivo a continuare ad esercitare la professione sanitaria.
In conformità a tale orientamento, l’evidente carenza di giurisdizione del giudice rimettente comporta l’inammissibilità delle questioni sollevate dal TAR Lombardia.
6.– In via di preliminare definizione del thema decidendum, occorre richiamare il costante orientamento di questa Corte, secondo cui l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle norme e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, con esclusione della possibilità di ampliare lo stesso al fine di ricomprendervi questioni formulate dalle parti (ex plurimis, sentenze n. 198 del 2022, n. 230, n. 203, n. 147 e n. 49 del 2021, n. 186 del 2020 e n. 7 del 2019).
Non può quindi essere esaminata la distinta questione prospettata dalla parte costituita nel giudizio iscritto al n. 76 reg. ord. 2022, volta a denunciare il contrasto dell’art. 4-bis del d.l. n. 44 del 2021, come modificato dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, con l’art. 52 (recte: 53) CDFUE. Né, tanto meno, possono essere prese in considerazione le richieste avanzate dall’ANIEF, amicus curiae nel giudizio iscritto al n. 47 reg. ord. 2022, di verificare la legittimità costituzionale dell’art. 4-ter.2 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, introdotto dal d.l. n. 24 del 2022, in riferimento agli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 20 e 21 CDFUE.
7.– Prima di procedere all’esame delle questioni nel merito, appare opportuno effettuare una sia pur sintetica ricostruzione del quadro normativo, caratterizzato da una rapida evoluzione, connessa all’andamento della crisi pandemica da COVID-19 e alle progressive acquisizioni scientifiche validate dagli organismi tecnici preposti.
7.1.– Le disposizioni sottoposte al giudizio di legittimità costituzionale sono contenute nell’ambito delle misure in materia di tutela della salute adottate per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, valutata come «pandemia» dalla dichiarazione dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) dell’11 marzo 2020, in considerazione dei livelli di diffusività e gravità raggiunti a livello globale. Il d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in particolare, era volto, tra l’altro, a disciplinare in maniera omogenea sul territorio nazionale le attività dirette al contenimento dell’epidemia e alla riduzione dei rischi per la salute pubblica, con riferimento soprattutto alle categorie più fragili, anche alla luce dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche acquisite.
7.2.– La relazione al d.l. n 44 del 2021 affermava, così, che «[i]n considerazione dei dati sulla diffusione del SARS-CoV-2 sul territorio nazionale, in termini di numero di casi e dell’indice di trasmissibilità dell’infezione, nonché in relazione al tasso di occupazione delle strutture ospedaliere e dei reparti di terapia intensiva, è ormai evidente come la vaccinazione costituisca un’arma imprescindibile nella lotta alla pandemia, configurandosi come un’irrinunciabile opportunità di protezione individuale e collettiva». In prosieguo la relazione aggiungeva: «[l]’introduzione di un siffatto obbligo per le categorie professionali considerate nasce dalla constatazione che la vaccinazione degli operatori sanitari, unitamente alle altre misure di protezione collettiva e individuale per la prevenzione della trasmissione degli agenti infettivi nelle strutture sanitarie e negli studi professionali, ha valenza multipla: consente di salvaguardare l’operatore rispetto al rischio infettivo professionale, contribuisce a proteggere i pazienti dal contagio in ambiente assistenziale e serve a difendere l’operatività dei servizi sanitari, garantendo la qualità delle prestazioni erogate, e contribuisce a perseguire gli obiettivi di sanità pubblica».
Con l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, «in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2» è stato introdotto l’obbligo vaccinale per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario «al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza».
Il comma 1 stabilisce che «[l]a vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati».
Il comma 2 prevede che la vaccinazione può essere omessa e differita in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate attestate dal medico di medicina generale.
Nell’iniziale formulazione dell’art. 4 era previsto, al comma 6, che «[l]’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale [dell’inadempimento all’obbligo vaccinale] determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2». Il successivo comma 8 stabiliva che il datore di lavoro provvedesse ad adibire «il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate», sicché solo quando non fosse possibile l’assegnazione a mansioni diverse, non comportanti rischi di diffusione del contagio, non era dovuta la retribuzione, né «altro compenso o emolumento, comunque denominato».
L’originario comma 10 dell’art. 4, con riguardo ai soggetti per i quali la vaccinazione dovesse essere omessa o differita, onerava invece il datore di lavoro di assegnare comunque i lavoratori a mansioni anche diverse, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, «senza decurtazione della retribuzione».
Il d.l. n. 172 del 2021, come convertito, ha prorogato la durata dell’obbligo vaccinale, estendendola di sei mesi a decorrere dal 15 dicembre 2021; ha ampliato la platea dei destinatari dell’obbligo di vaccinazione; ha mutato competenze e procedimento in ordine all’accertamento del mancato adempimento dell’obbligo vaccinale; ha disposto che l’atto di accertamento dell’inadempimento, adottato da parte dell’Ordine professionale territorialmente competente, «ha natura dichiarativa e non disciplinare»; ha ricondotto ad esso l’effetto della «immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie»; ha stabilito che «[p]er il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati» (art. 4, comma 5); ha limitato l’obbligo datoriale di adibire a mansioni anche diverse con riguardo ai soli lavoratori ai quali, a causa di accertato pericolo per la salute, la vaccinazione debba essere omessa o differita (art. 5, comma 7).
L’obbligo vaccinale è stato poi esteso:
– ai lavoratori comunque impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie (art. 4-bis del d.l. n. 44 del 2021, introdotto dal d.l. n. 122 del 2021, poi sostituito dalla legge n. 133 del 2021, di conversione del d.l. n. 111 del 2021, poi modificato dal d.l. n. 172 del 2021 e dal d.l. n. 24 del 2022 e rispettive leggi di conversione); per questo personale il comma 4 dell’art. 4-bis, mediante rinvio al comma 3 dell’art. 4-ter, ha comportato sempre che l’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale determina l’immediata sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro; e che, per il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati; non è contemplato l’onere datoriale di adibire ad altre mansioni il lavoratore che non abbia voluto vaccinarsi;
– al personale delle strutture sanitarie e sociosanitarie di cui all’art. 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992 (art. 4-ter del d.l. n. 44 del 2021, introdotto dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito); per questo personale il comma 3 dell’art. 4-ter prevede sempre che l’atto di accertamento dell’inadempimento determina l’immediata sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro; e che per il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati; non è contemplato l’onere datoriale di adibire ad altre mansioni il lavoratore che non abbia voluto vaccinarsi;
– al personale scolastico del sistema nazionale di istruzione, delle scuole non paritarie, dei servizi educativi per l’infanzia di cui all’art. 2 del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 65 (Istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni, a norma dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera e), della legge 13 luglio 2015, n. 107), dei centri provinciali per l’istruzione degli adulti, dei sistemi regionali di istruzione e formazione professionali e dei sistemi regionali che realizzano i percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore (art. 4-ter, comma 1, lettera a, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, introdotto dall’art. 1 del d.l. n. 172 del 2021, come convertito); per tale personale, il comma 3 del medesimo art. 4-ter prevedeva che l’atto di accertamento dell’inadempimento determinasse l’immediata sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro e che, per il periodo di sospensione, non fossero dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati. Il comma 4 del medesimo art. 4-ter prevedeva, poi, che i dirigenti scolastici e i responsabili delle dette istituzioni provvedessero alla sostituzione del personale docente, educativo ed amministrativo, tecnico e ausiliario sospeso, mediante l’attribuzione di contratti a tempo determinato, destinati a risolversi di diritto nel momento in cui i soggetti sostituiti potessero riprendere l’attività lavorativa, avendo nel frattempo adempiuto all’obbligo vaccinale. L’art. 8, comma 4, del d.l. n. 24 del 2022, come convertito, ha introdotto, in una fase di regressione della pandemia (vedi relazione al disegno di legge di conversione di tale decreto-legge), l’art. 4-ter.1, che non ha più previsto il divieto di svolgimento dell’attività lavorativa, e l’art. 4-ter.2, che ha invece dettato una specifica disciplina per il personale docente ed educativo della scuola, imponendo al dirigente scolastico, in caso di inosservanza dell’obbligo vaccinale, di utilizzare il docente in attività di supporto all’istituzione scolastica; attività, questa, giova aggiungere, delineata dalla contrattazione collettiva di settore;
– al personale del comparto difesa, sicurezza e soccorso pubblico, della polizia locale, degli organismi di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 124, recante «Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto», (art. 4-ter, comma 1, lettera b, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, introdotto dall’art. 2 del d.l. n. 172 del 2021, come convertito). Per questo personale, il comma 3 dell’art. 4-ter prevedeva sempre che l’atto di accertamento dell’inadempimento determinasse l’immediata sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro; e che per il periodo di sospensione, non fossero dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati; non era contemplato l’onere datoriale di adibire ad altre mansioni il lavoratore che non avesse voluto vaccinarsi. Anche tale personale è stato poi assoggettato alla disciplina dell’art. 4-ter.1;
– al personale che svolge a qualsiasi titolo la propria attività lavorativa alle dipendenze del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e all’interno degli istituti penitenziari per adulti e minori (art. 4-ter, comma 1, lettera c, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, introdotto dall’art. 2 del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, e poi art. 4-ter.1);
– al personale delle università, delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica degli istituti tecnici superiori, nonché dei Corpi forestali delle regioni a statuto speciale (art. 2, comma 1, lettera a, del d.l. n. 1 del 2022, come convertito); in considerazione della tecnica normativa utilizzata (inserimento nell’art. 4-ter del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, del comma 1-bis), anche a questo personale si applicavano le già ricordate disposizioni di cui al comma 3 del medesimo art. 4-ter, per essere poi assoggettato alla disciplina dell’art. 4-ter.1;
– agli studenti dei corsi di laurea impegnati nello svolgimento di tirocini pratico-valutativi finalizzati al conseguimento dell’abilitazione all’esercizio di professioni sanitarie (comma 1-bis dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, introdotto dalla legge n. 3 del 2022, di conversione del d.l. n. 172 del 2021); per questa categoria, la previsione dell’obbligo mediante inserimento nell’ambito dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, comporta l’applicabilità alla stessa delle disposizioni per cui la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione, l’accertamento del mancato assolvimento dell’obbligo determina l’immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie e per il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato;
– agli ultracinquantenni (art. 4-quater del d.l. n. 44 del 2021, introdotto dal d.l. n. 1 del 2022, convertito, con modificazioni, nella legge n. 18 del 2022); l’art. 4-sexies del d.l. n. 44 del 2021, inserito dal medesimo d.l. n. 1 del 2022, ha previsto l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di euro cento in caso di inosservanza degli obblighi vaccinali imposti dall’art. 4-quater, nonché dagli artt. 4, 4-bis e 4-ter, sulla base di vari riferimenti temporali, questa sanzione è stata poi estesa, in forza del d.l. n. 24 del 2022, ai casi di inosservanza dell’obbligo di cui agli artt. 4-ter.1 e 4-ter.2.
7.3.– Quanto alla durata dell’obbligo vaccinale, questa è stata originariamente stabilita sino alla completa attuazione del piano vaccinale di cui all’art. 1, comma 457, della legge n. 178 del 2020 (nell’ambito del quale erano stati individuati gli operatori sanitari e sociosanitari sia pubblici che privati tra le categorie prioritarie, in considerazione del rischio più elevato di esposizione all’infezione da COVID-19 e di trasmissione della stessa a pazienti suscettibili e vulnerabili in contesti sanitari e sociali), e comunque non oltre il 31 dicembre 2021; è stata poi prorogata al 15 giugno 2022 per effetto dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, e ancora al 31 dicembre 2022; questo termine è stato infine anticipato al 1° novembre 2022, con il decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162 (Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di obblighi di vaccinazione anti SARS-COV-2 e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali), convertito, con modificazioni, nella legge 30 dicembre 2022, n. 199, in considerazione, per quanto si legge nel preambolo dello stesso, «dell’andamento della situazione epidemiologica che registra una diminuzione dell’incidenza dei casi di contagio da COVID-19 e una stabilizzazione della trasmissibilità sebbene al di sopra della soglia epidemica [e della] necessità di riavviare un progressivo ritorno alla normalità nell’attuale fase post pandemica, nella quale l’obiettivo da perseguire è il controllo efficace dell’endemia».
8.– Le questioni di legittimità costituzionale, indicate nel precedente punto 1 attengono, dunque, alla disciplina degli obblighi vaccinali, e alle conseguenti ricadute sul rapporto di lavoro in caso di inosservanza dell’obbligo, per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario, per i lavoratori impiegati in strutture residenziali, socioassistenziali e sociosanitarie nonché nelle strutture di cui all’art. 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992 e per il personale scolastico.
9.– Per il loro carattere logicamente preliminare, perché aventi ad oggetto l’introduzione dell’obbligo vaccinale come tale per le riferite categorie di lavoratori del settore della sanità, devono essere scrutinate dapprima le questioni sollevate dal Tribunale di Padova nei confronti dell’art. 4-bis, comma 1, e all’art. 4, commi 1, 4 e 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, modificati dapprima dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, e poi dal d.l. n. 24 del 2022, come convertito, censurati in riferimento agli artt. 3, 4, 32 e 35 Cost.
10.– Tali questioni non sono fondate in riferimento ad alcuno dei parametri evocati.
10.1.– Occorre, innanzitutto, precisare che tra questi parametri non possono essere considerati quelli desumibili dal regolamento UE n. 953/2021 e dal principio di proporzionalità, di cui all’art. 52, paragrafo 3, CDFUE. Difetta, invero, ogni riferimento, tanto nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, quanto nella sua motivazione, all’art. 117, primo comma, Cost., eventualmente invocato insieme all’art. 11 Cost., che costituiscono il tramite attraverso il quale è possibile dedurre, in un giudizio di legittimità costituzionale, la violazione, da parte di una disposizione di legge nazionale, della normativa europea (ordinanza n. 215 del 2022).
Deve, pertanto, ritenersi che gli indicati richiami contenuti nell’ordinanza di rimessione altro valore non abbiano che quello di concorrere a delineare la portata e il significato delle disposizioni costituzionali evocate.
10.2.– Giova preliminarmente ricordare che, in base alla costante giurisprudenza costituzionale, l’imposizione di un trattamento sanitario, e di un obbligo vaccinale, in particolare, può ritenersi compatibile con l’art. 32 Cost., al ricorrere di tre presupposti: «a) “se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale” (cfr. sentenza n. 307 del 1990); b) se vi sia “la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili” (ivi); c) se nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica – sia prevista comunque la corresponsione di una “equa indennità” in favore del danneggiato (cfr. sentenza 307 cit. e v. ora legge n. 210/1992)» (sentenza n. 258 del 1994; nello stesso senso, sentenza n. 5 del 2018).
10.2.1.– Il Tribunale di Padova dubita che ricorra il primo di tali presupposti, cioè che, nella specie, il trattamento imposto con l’obbligo vaccinale sia stato diretto a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è stato assoggettato e quello degli altri consociati.
A differenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana (ordinanza iscritta al n. 38 reg. ord. 2022, anch’essa discussa nella udienza pubblica del 30 novembre, su cui questa Corte si è pronunciata con la sentenza n. 14 del 2023), il Tribunale di Padova non prospetta dubbi di legittimità costituzionale quanto alla incidenza negativa sullo stato di salute di colui che è assoggettato al trattamento sanitario obbligatorio.
L’ordinanza di rimessione, infatti, sul rilievo che per il personale soggetto all’obbligo vaccinale (nel caso di specie, lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie) il trattamento sanitario è stato imposto non a tutela della salute dei lavoratori, ma di quella degli ospiti che ricevono cura ed assistenza in tali strutture, ritiene che quell’obbligo non sarebbe idoneo a raggiungere lo scopo di preservare la salute degli ospiti, essendo notorio il fatto che la persona che si è sottoposta al ciclo vaccinale può comunque contrarre il virus e quindi contagiare gli altri. Gli stessi dati offerti dall’ISS nei rapporti relativi all’andamento delle infezioni e alla efficacia vaccinale pubblicati il 21 gennaio e il 6 aprile 2022 denoterebbero una progressiva diminuzione dell’efficacia dei vaccini. In questo contesto, sostiene il Tribunale, la garanzia che un lavoratore che si sia sottoposto a vaccinazione non si infetti successivamente e non possa quindi contagiare nessuno sarebbe pari a zero; al contrario, sia pure per un tempo limitato, l’effettuazione di un tampone con risultato negativo offrirebbe una garanzia della inesistenza del virus e della impossibilità di contagiare certamente superiore a zero.
La compressione del diritto alla salute, sub specie di diritto all’autodeterminazione terapeutica, non troverebbe, quindi, giustificazione nell’esigenza di tutelare l’interesse della collettività, e segnatamente l’interesse alla salute degli ospiti delle strutture considerate, con conseguente violazione dell’art. 32 Cost. e irragionevolezza della misura.
Il rimettente sottopone, quindi, a questa Corte il dubbio sulla legittimità costituzionale della norma che ha introdotto l’obbligo vaccinale per il personale sanitario, così privilegiando la tutela della salute come interesse della collettività, a scapito della tutela della salute del singolo individuo.
10.3.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il contemperamento del diritto alla salute del singolo (comprensivo del profilo negativo di non essere assoggettato a trattamenti sanitari non richiesti o non accettati) con l’interesse della collettività costituisce il contenuto proprio dell’art. 32 Cost. (sentenze n. 5 del 2018, n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990) e rappresenta una specifica concretizzazione dei doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., nella quale si manifesta «la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente» (sentenza n. 75 del 1992).
E la sentenza n. 218 del 1994 ha avuto modo di affermare che la tutela della salute implica anche il «dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri. Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, posti in essere anche nell’interesse della persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri particolari».
10.3.1.– Le misure approntate dal legislatore non possono, nel caso di specie, non essere valutate tenendo conto della situazione determinata da «un’emergenza sanitaria dai tratti del tutto peculiari» (sentenza n. 37 del 2021).
Peculiarità, si deve sottolineare, risultante anche e soprattutto dalle indicazioni formulate dai competenti organismi internazionali.
Invero, l’OMS, con la dichiarazione del 30 gennaio 2020, ha valutato l’epidemia da COVID-19 come un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale.
Successivamente, in considerazione dei livelli di diffusività e gravità raggiunti a livello globale, con la dichiarazione dell’11 marzo 2020, l’OMS ha valutato la situazione sanitaria come «pandemia».
L’OMS, la Commissione europea ed altri organismi internazionali si sono impegnati da subito per il coordinamento della ricerca scientifica e la successiva somministrazione del vaccino.
Già il 20 aprile 2020 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione volta a consentire che gli Stati agissero in modo unito e coordinato contro la pandemia, auspicando un rafforzamento della cooperazione internazionale finalizzata in particolare alla ricerca di trattamenti farmacologici specifici.
Il 19 maggio 2020 l’Assemblea dell’OMS ha invitato gli Stati membri a promuovere attività di ricerca volte alla scoperta di un vaccino da rendere disponibile alle popolazioni di tutti gli Stati.
La Commissione europea, quindi, ha elaborato una strategia comune per l’impiego dei vaccini attraverso le Comunicazioni del 17 giugno 2020 (Strategia dell’Unione europea per i vaccini contro la Covid-19) e del 15 ottobre 2020 (Preparazione per le strategie di vaccinazione e la diffusione di vaccini contro la COVID-19).
Il Consiglio d’Europa ha poi approvato la risoluzione n. 2361/2021 del 27 gennaio 2021, relativa alla distribuzione e alla somministrazione dei vaccini, sottolineando la necessità della massima collaborazione fra gli Stati per assicurare una campagna vaccinale efficiente.
In Italia, il Consiglio dei ministri, con deliberazione del 31 gennaio 2020, ha dichiarato, unicamente ai sensi e per gli effetti dell’art. 7, comma 1, lettera c), e dell’art. 24, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile), lo stato di emergenza sanitaria sul territorio nazionale, per sei mesi, proprio in relazione al rischio connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili.
Lo stato di emergenza è stato poi prorogato con diversi provvedimenti fino al 31 marzo 2022, e solo con il d.l. n. 24 del 2022, come convertito, ne è stata disposta la cessazione.
Proprio per effetto dell’intervento pubblico e del sostegno dato alla ricerca scientifica, sono stati approntati – in tempi particolarmente rapidi – vari vaccini finalizzati a contrastare la diffusione del virus. Una volta che questi sono divenuti disponibili, si è quindi proceduto alla predisposizione di uno specifico piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 (decreti del Ministro della salute 2 gennaio e 12 marzo 2021, adottati ai sensi dell’art. 1, comma 457, della legge n. 178 del 2020) e, solo nell’aprile del 2021, è stato introdotto l’obbligo vaccinale qui in discussione.
È importante sottolineare sin d’ora che l’obbligo di vaccinazione è stato gradualmente introdotto dal legislatore solo dopo alcuni mesi dall’avvio della campagna vaccinale di cui al citato piano, tenendo conto, evidentemente, della non completa adesione allo stesso nell’ambito delle categorie interessate. Il legislatore ha quindi reputato necessaria l’imposizione dell’obbligo «al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza» (art. 4, comma 1, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito).
Alla luce di tale premessa, questa Corte è chiamata a valutare se l’imposizione dell’obbligo vaccinale fosse compatibile con i principi costituzionali.
10.3.2.– In questa prospettiva – nel complesso presa in esame, unitamente alla presente pronuncia, anche e più ampiamente dalla richiamata sentenza n. 14 del 2023 –, l’evoluzione della ricerca scientifica e le determinazioni assunte dalle autorità, sovranazionali e nazionali preposte alla tutela della salute, assumono un rilievo assai significativo. È costante, infatti, nella giurisprudenza costituzionale l’affermazione per cui il sindacato sulla non irragionevolezza della scelta del legislatore di incidere sul diritto fondamentale alla salute, anche sotto il profilo della libertà di autodeterminazione, va effettuato alla luce della concreta situazione sanitaria ed epidemiologica in atto. Invero, nelle ipotesi di conflitto tra i diritti contemplati dall’art. 32 Cost., la discrezionalità del legislatore «deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte» (sentenze n. 5 del 2018 e n. 268 del 2017). Significative sono altresì le «acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia (così, la giurisprudenza costante di questa Corte sin dalla fondamentale sentenza n. 282 del 2002)» (sentenza n. 5 del 2018).
Un intervento in tali ambiti, dunque, «non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso legislatore, bensì dovrebbe prevedere l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali o sovranazionali – a ciò deputati» (sentenze n. 162 del 2014 e n. 8 del 2011), anche in ragione dell’«“essenziale rilievo” che, a questi fini, rivestono “gli organi tecnico-scientifici” (cfr. sentenza n. 185 del 1998); o comunque dovrebbe costituire il risultato di una siffatta verifica» (sentenza n. 282 del 2002).
Di tali presupposti risulta, del resto, essere stata pienamente consapevole l’autorità competente in materia. Si legge, infatti, nel Piano strategico nazionale dei vaccini approvato con il citato d.m. 12 marzo 2021, che «[L]e raccomandazioni [sui gruppi target a cui offrire la vaccinazione] saranno soggette a modifiche e verranno aggiornate in base all’evoluzione delle conoscenze e alle informazioni su efficacia vaccinale e/o immunogenicità in diversi gruppi di età e fattori di rischio, sulla sicurezza della vaccinazione in diversi gruppi di età e gruppi a rischio, sull’effetto del vaccino sull’acquisizione dell’infezione, e sulla trasmissione o sulla protezione da forme gravi di malattia […]».
10.3.3.– Il fatto che il legislatore abbia operato le proprie scelte sulla base di valutazioni e di dati di natura medico-scientifica, tuttavia, non vale a sottrarre quelle scelte al sindacato di questa Corte, ma comporta che lo stesso dovrà avere ad oggetto l’accertamento della non irragionevolezza e della proporzionalità della disciplina rispetto al dato scientifico posto a disposizione.
Già la sentenza n. 114 del 1998, infatti, ha chiarito che quando la scelta legislativa si fonda su riferimenti scientifici, «perché si possa pervenire ad una declaratoria di illegittimità costituzionale occorre che i dati sui quali la legge riposa siano incontrovertibilmente erronei o raggiungano un tale livello di indeterminatezza da non consentire in alcun modo una interpretazione ed una applicazione razionali da parte del giudice».
10.3.4.– Si deve allora verificare se la scelta del legislatore di introdurre l’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari, anche alla luce della situazione pandemica esistente, sia coerente rispetto alle conoscenze medico-scientifiche del momento (sentenza n. 5 del 2018), quali risultanti dalle rilevazioni e dagli studi elaborati dagli organismi (nazionali e sovranazionali) istituzionalmente preposti al settore, e in particolare dall’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), dall’ISS e dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA).
Si sono già ricordati, sia pure sinteticamente (punto 10.3.1.), l’importanza attribuita alla ricerca scientifica finalizzata alla predisposizione di vaccini efficaci contro il virus SARS-CoV-2 e l’impegno degli organismi sovranazionali nel rendere possibile la vaccinazione della popolazione nella misura più ampia. È opportuno rilevare anche che la ridotta disponibilità iniziale di dosi ha reso necessario procedere all’attuazione del piano vaccinale prevedendo, appunto, la vaccinazione del personale sanitario in via prioritaria (alla possibile, assai limitata disponibilità delle dosi di vaccino all’inizio dell’attuazione del programma vaccinale fa riferimento il già citato Piano strategico vaccinale). L’introduzione dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario deve quindi essere collocata in una fase nella quale il legislatore ha dovuto, dapprima, tenere conto della effettiva disponibilità di trattamenti vaccinali e successivamente, estendere l’obbligo in questione a ulteriori categorie, secondo valutazioni fondate sul necessario bilanciamento tra costi e benefici.
La disciplina introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, ha poi subito nel tempo diverse modifiche, in relazione sia alle categorie alle quali doveva essere esteso l’obbligo vaccinale, sia alle conseguenze legate all’inadempimento dello stesso, sia, infine, all’individuazione della sua durata, sulla base del più generale presupposto – già ricordato – che gli interventi normativi finalizzati alla riduzione della circolazione del virus dovessero essere calibrati rispetto all’andamento della situazione sanitaria e delle acquisizioni scientifiche.
In particolare, la disposizione censurata, nella sua versione originaria, prevedeva una precisa scadenza dell’obbligo vaccinale, fissata al 31 dicembre 2021.
L’ambito soggettivo era limitato dal comma 1 dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 agli «esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali». In sede di conversione, l’obbligo è stato riferito agli «esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali». Nel tempo, e sulla base dell’andamento dell’evoluzione della pandemia, nonché di scelte conseguenti alle determinazioni circa la frequenza delle scuole in presenza, alle categorie indicate al precedente punto 7.2.
La durata dell’obbligo è stata più volte modificata, sempre in base all’andamento dei contagi e all’evoluzione della pandemia, subendo diverse proroghe fino al 31 dicembre 2022, per poi essere infine anticipata, come detto, al 1° novembre 2022.
11.– Tanto premesso, si può ora procedere all’esame delle censure formulate dal Tribunale di Padova.
11.1.– Contrariamente all’assunto del giudice rimettente, gli stessi dati esposti nei rapporti dell’ISS menzionati nell’ordinanza di rimessione, lungi dall’evidenziare la inutilità dei vaccini, dimostrano come, soprattutto nella fase iniziale della campagna di vaccinazione, l’efficacia del vaccino – intesa quale riduzione percentuale del rischio rispetto ai non vaccinati – sia stata altamente significativa tanto nel prevenire l’infezione da SARS-CoV-2, quanto nell’evitare casi di malattia severa; e come tale efficacia sia aumentata in rapporto al completamento del ciclo vaccinale.
«[I]n presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque (sentenza n. 127 del 2022)», la decisione del legislatore di introdurre l’obbligo vaccinale in esame (nei limiti soggettivi e temporali di cui si è detto) non può, dunque, reputarsi irragionevole, in quanto è sorretta dalle indicazioni delle competenti Autorità nazionali e sovranazionali alla luce della gravità della situazione che tale vaccinazione era destinata ad affrontare.
La scelta si è rivelata, altresì, ragionevolmente correlata al fine perseguito di ridurre la circolazione del virus attraverso la somministrazione dei vaccini.
La stessa circostanza, evidenziata dal rimettente, che il Ministero della salute abbia dichiarato «tassativamente falsa l’affermazione secondo cui se ho fatto il vaccino contro SARS-CoV-2 e anche il richiamo con la terza dose non posso ammalarmi di Covid-19 e non posso trasmettere l’infezione agli altri», non vale ad inficiare la scelta operata dal legislatore di prescrivere, per le diverse categorie degli operatori sanitari, l’obbligo vaccinale, ma solo a rendere consapevoli i soggetti vaccinati della inevitabile impossibilità di restare del tutto immuni dalla malattia e, ancora prima, dal contagio. Invero, l’affermazione che un vaccino sia efficace solo se esso produca una immunizzazione pari al 100 per cento delle somministrazioni, da un lato, non può ritenersi sorretta da un’adeguata dimostrazione scientifica; dall’altro, non esclude affatto che, in una situazione caratterizzata da una rapidissima circolazione del virus, i vaccini fossero idonei a determinare una significativa riduzione di quella circolazione, con ricadute tanto più apprezzabili in ambienti o in luoghi destinati ad ospitare persone fragili o, comunque, bisognose di assistenza.
Come osservato dall’ISS, «anche se l’efficacia vaccinale non è pari al 100 per cento (come del resto per tutti gli altri vaccini), l’elevata circolazione del virus SARS CoV-2 rende comunque rilevante la quota di casi prevenibile mediante la somministrazione dei vaccini» (sul punto, e più in generale sui dati medico-scientifici a disposizione del legislatore, si veda anche la sentenza n. 14 del 2023, punti 10 e seguenti).
In base a tali considerazioni, l’imposizione di un obbligo vaccinale selettivo, come condizione di idoneità per l’espletamento di attività che espongono gli operatori ad un potenziale rischio di contagio, e dunque a tutela della salute dei terzi e della collettività, si connota quale misura sufficientemente validata sul piano scientifico.
11.2.– Può quindi affermarsi che le disposizioni qui censurate hanno operato un contemperamento del diritto alla libertà di cura del singolo con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività. L’estensione dell’obbligo vaccinale ai lavoratori impiegati in strutture residenziali, socioassistenziali e sociosanitarie (le quali vengono in rilievo nel giudizio a quo, potendosi comunque riferire la medesima valutazione a tutte le strutture sanitarie, pubbliche e private) ha costituito, in tale prospettiva, attuazione dell’art. 32 Cost., inteso quest’ultimo come comprensivo del dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, prevenendo il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2 in danno delle categorie più fragili.
E si è trattato di decisione idonea allo scopo che il legislatore si era prefisso, in quanto l’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari ha consentito di perseguire, oltre che la tutela della salute di una delle categorie più esposte al contagio, «il duplice scopo di proteggere quanti entrano con loro in contatto e di evitare l’interruzione di servizi essenziali per la collettività» (sentenza n. 268 del 2017).
In particolare, era necessario assumere iniziative che, nel loro complesso, consentissero di proteggere la salute dei singoli e, ad un tempo, di porre le strutture sanitarie al riparo dal rischio di non poter svolgere la propria insostituibile funzione per la mancanza di operatori sanitari. In proposito, è agevole rilevare che il contagio subito dal personale sanitario ha ricadute non solo sulla salute dei singoli, potendo dallo stesso derivare la compromissione del funzionamento del servizio sanitario nazionale in un periodo in cui, come visto, era indispensabile poter su di esso fare affidamento per assicurare cure adeguate ad una imprevedibile quantità di malati.
Del resto, questa Corte – esaminando una legge regionale che ha previsto la facoltà della Giunta regionale di individuare i reparti dove consentire l’accesso ai soli operatori che si fossero attenuti alle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente per i soggetti a rischio per esposizione professionale – ha già avuto modo di valorizzare, con riferimento alla vaccinazione degli operatori sanitari, lo «scopo di prevenire e proteggere la salute di chi frequenta i luoghi di cura: anzitutto quella dei pazienti, che spesso si trovano in condizione di fragilità e sono esposti a gravi pericoli di contagio, quella dei loro familiari, degli altri operatori e, solo di riflesso, della collettività. Tale finalità […] è del resto oggetto di attenzione da parte delle società medico-scientifiche, che segnalano l’urgenza di mettere in atto prassi adeguate a prevenire le epidemie in ambito ospedaliero, sollecitando anzitutto un appropriato comportamento del personale sanitario, per garantire ai pazienti la sicurezza nelle cure» (sentenza n. 137 del 2019).
11.3.– Non può certamente ritenersi che la previsione, per i lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie, dell’obbligo di sottoporsi a test diagnostici dell’infezione da SARS-CoV-2 con una elevata frequenza, anziché al vaccino, costituisca un’alternativa idonea ad evidenziare la irragionevolezza o la non proporzionalità della soluzione prescelta dal legislatore.
Invero, la soluzione alternativa proposta dal rimettente è stata utilizzata in ambiti più generali, per l’accesso ai luoghi pubblici da parte di persone non appartenenti a categorie soggette a vaccinazione obbligatoria. Tuttavia, non può non considerarsi, innanzitutto, che, nel caso degli operatori sanitari, tale soluzione sarebbe stata del tutto inidonea a prevenire la malattia (specie grave) degli stessi operatori, con il conseguente rischio di compromettere il funzionamento del servizio sanitario nazionale. Inoltre, l’effettuazione periodica di test antigenici con una cadenza particolarmente ravvicinata (e cioè ogni due o tre giorni) avrebbe avuto costi insostenibili e avrebbe comportato uno sforzo difficilmente tollerabile per il sistema sanitario, già impegnato nella gestione della pandemia (in tal senso vedi anche le considerazioni contenute nella sentenza n. 14 del 2023).
La circostanza – evidenziata dal rimettente – che i tamponi possono essere effettuati anche presso le farmacie e che il costo degli stessi è a carico del lavoratore interessato, non tiene conto del fatto che la gestione dei tamponi grava interamente sul servizio sanitario nazionale (si veda, in proposito, la sentenza n. 171 del 2022, con la quale è stata ritenuta non irragionevole la scelta del legislatore nazionale di escludere le parafarmacie dalla possibilità di effettuare tamponi per l’accertamento del virus SARS-CoV-2, proprio sul rilievo dell’inserimento del sistema delle farmacie, e solo di queste, nell’ambito del servizio sanitario nazionale).
Non appare perciò irragionevole la scelta legislativa di estendere l’obbligo vaccinale ai lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie, e, in genere, ai lavoratori del settore della sanità, per aver indebitamente e sproporzionatamente sacrificato la libera autodeterminazione individuale in vista della tutela degli altri beni costituzionali coinvolti ed evitato di propendere per l’opzione alternativa, propugnata dal Tribunale di Padova, di prescrivere la sottoposizione dei lavoratori di tale comparto a periodici test molecolari o antigenici per la rilevazione di SARS-CoV-2.
11.4.– La decisione del legislatore risulta altresì non sproporzionata.
La conseguenza del mancato adempimento dell’obbligo è rappresentata dalla sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie, che è destinata a venire meno in caso di adempimento dell’obbligo e, comunque, per la cessazione dello stato di crisi epidemiologica. Il correlato sacrificio del diritto dell’operatore sanitario non ha la natura e gli effetti di una sanzione (come di seguito si chiarirà ai punti 12.1. e 14.4.), non eccede quanto necessario per il raggiungimento degli scopi pubblici di riduzione della circolazione del virus, è stato costantemente modulato in base all’andamento della situazione sanitaria e si rivela altresì idoneo e necessario a questo stesso fine.
11.5.– Sulla base delle considerazioni sin qui svolte, deve essere dichiarata non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 4, commi 1, 4 e 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito e successivamente modificato.
12.– La questione è altresì non fondata con riferimento agli artt. 4 e 35 Cost.
12.1.– All’inosservanza dell’obbligo vaccinale, la legge impositiva dello stesso attribuisce rilevanza meramente sinallagmatica, cioè solo sul piano degli obblighi e dei diritti nascenti dal contratto di lavoro, quale evento determinante la sopravvenuta e temporanea impossibilità per il dipendente di svolgere attività lavorative che comportassero, in qualsiasi altra forma e in considerazione delle necessità dell’ambiente di cura, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.
Essendo la vaccinazione elevata dalla legge a requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati, il datore di lavoro, messo a conoscenza della accertata inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte del lavoratore, è stato tenuto ad adottare i provvedimenti di sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale, ovvero fino al completamento del piano vaccinale nazionale o comunque fino al termine stabilito dalla stessa legge.
In tal senso, la sospensione del lavoratore non vaccinato, prevista dalla disposizione censurata, è in sintonia con l’obbligo di sicurezza imposto al datore di lavoro dall’art. 2087 del codice civile e dall’art. 18 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), con valenza integrativa del contenuto sinallagmatico del contratto individuale di lavoro. Avendo riguardo alla posizione dei lavoratori, la vaccinazione anti SARS-CoV-2 ha, a sua volta, ampliato il novero degli obblighi di cura della salute e di sicurezza prescritti dall’art. 20 del d.lgs. n. 81 del 2008, nonché degli obblighi di prevenzione e controllo stabiliti dal successivo art. 279 per i lavoratori addetti a particolari attività.
12.2.– Il diritto fondamentale al lavoro, garantito nei principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost., avuto riguardo al dipendente che abbia scelto di non adempiere all’obbligo vaccinale, nell’esercizio della libertà di autodeterminazione individuale attinente alle decisioni inerenti alle cure sanitarie, tutelata dall’art. 32 Cost., non implica necessariamente il diritto di svolgere l’attività lavorativa ove la stessa costituisca fattore di rischio per la tutela della salute pubblica e per il mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza.
Non è dunque in discussione il diritto del lavoratore, esercente una professione sanitaria o operatore di interesse sanitario, o impiegato in strutture residenziali, socioassistenziali e sociosanitarie, che non abbia inteso assolvere all’obbligo vaccinale, di rendere la propria prestazione lavorativa. È piuttosto da verificare se il legislatore, disponendo la sospensione del lavoratore dal servizio fino all’assolvimento di detto obbligo, o fino al completamento del piano vaccinale nazionale, o ancora fino al termine stabilito dalla stessa normativa, pur nell’ampio margine di apprezzamento di cui dispone al fine di dettare i tempi ed i modi del bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4, 32 e 35 Cost., abbia trascurato il rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (sentenze n. 125 del 2022, n. 59 del 2021 e n. 194 del 2018).
Il che, per le ragioni esposte (supra, punti 11.1. e seguenti), deve escludersi.
13.– Devono ora affrontarsi le questioni relative all’art. 4, comma 7, nonché all’art. 4-ter, comma 2, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, sollevate, in riferimento complessivamente agli artt. 3, 4, 32 e 35 Cost. nei giudizi di cui ai numeri 71, 76, 77, 107 e 108 reg. ord. 2022, nella parte in cui, per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario e per il personale che svolge la propria attività lavorativa nelle strutture sanitarie e sociosanitarie, limitano ai soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita l’adibizione a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, e non prevedono che la medesima disciplina si applichi anche nei confronti del personale rimasto privo di vaccinazione per una libera scelta individuale.
13.1.– I rimettenti osservano che le disposizioni censurate discriminano ingiustificatamente, ai fini della ricollocazione, coloro che scelgano di non vaccinarsi, a differenza di quanto stabilito per i soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita, oppure per il personale docente ed educativo della scuola, con riferimento al quale è imposto al dirigente scolastico di utilizzare il lavoratore inadempiente all’obbligo vaccinale in attività di supporto alla istituzione scolastica.
13.2.– Anche tali questioni devono essere dichiarate non fondate.
13.3.– Si sono delineati nel precedente punto 7 i tratti caratterizzanti del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in forza del quale il legislatore ha imposto temporaneamente un obbligo selettivo di vaccinazione a lavoratori che prestano servizio in alcuni settori connotati da una percentuale di rischio di contagio da SARS-CoV-2, in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2 e allo scopo altresì di mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza. Connotandosi la vaccinazione come «requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati», la mancata sottoposizione ad essa ha dato luogo a una sopravvenuta provvisoria impossibilità per il dipendente di svolgere attività lavorative comportanti il rischio di diffusione del contagio. Il datore di lavoro, venuto a conoscenza della inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte del lavoratore, è stato vincolato ad adottare il provvedimento di sospensione dal servizio.
13.4.– A fronte dell’iniziale soluzione prescelta nella versione originaria dell’art. 4, comma 8, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, che onerava il datore di lavoro ad adibire, «ove possibile, a mansioni, anche inferiori», purché diverse da quelle che implicassero contatti interpersonali o comportassero il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, a seguito della modifica introdotta dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, sulla base dei dati prodotti dall’ISS nel novembre 2021, il legislatore ha scelto di non esigere più dal datore di lavoro, nei rapporti riguardanti lavoratori esercenti le professioni sanitarie o operatori di interesse sanitario, o impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie (a differenza di quanto stabilito per il personale docente ed educativo della scuola), uno sforzo di cooperazione volto alla utilizzazione del personale inadempiente in altre mansioni, mediante adozione di diverse modalità di esecuzione delle rispettive prestazioni lavorative.
La disciplina censurata poggia, quindi, sull’evidente presupposto che per i menzionati comparti lavorativi, con riferimento ai quali la legge ha avvertito la speciale esigenza di mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, ovvero di servizi svolti a contatto con persone in situazione di fragilità, non poteva obbligarsi il datore di lavoro ad adibire i soggetti che non avessero inteso vaccinarsi a mansioni comunque idonee ad evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, come è invece richiesto dall’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, per i soggetti che avessero dovuto omettere o differire la vaccinazione in ragione di un accertato pericolo per la salute.
La disposizione censurata si fonda sul rilievo che un più ampio dovere datoriale di cosiddetto repêchage, quale quello auspicato dai rimettenti, non fosse compatibile con le specificità di tali organizzazioni aziendali, se non al rischio di mettere in pericolo la salute del lavoratore stesso, degli altri lavoratori e dei terzi, portatori di interessi costituzionali prevalenti sull’interesse del dipendente di adempiere per poter ricevere la retribuzione. Le disposizioni censurate hanno escluso, cioè, l’opportunità di addossare al datore un obbligo generalizzato di adottare accomodamenti organizzativi, non ravvisando, in rapporto alle categorie professionali in esame, le condizioni della fungibilità e della sia pur parziale idoneità lavorativa residua del dipendente non vaccinato, condizioni sempre necessarie, in caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione, per giustificare la permanenza di un apprezzabile interesse datoriale a una diversa prestazione lavorativa.
13.5.– È vero, del resto, che la situazione di temporanea impossibilità della prestazione lavorativa in cui si viene a trovare il dipendente che non abbia adempiuto all’obbligo vaccinale deriva pur sempre da una scelta individuale di quest’ultimo e non da un fatto oggettivo. Nondimeno il legislatore, proprio nel rispetto della eventuale scelta del lavoratore di non attenersi all’obbligo vaccinale, si è limitato a prevedere la sospensione del rapporto di lavoro, disciplinando la fattispecie alla stregua di una impossibilità temporanea non imputabile. Di conseguenza, poiché la prestazione offerta dal lavoratore che non si è sottoposto all’obbligo vaccinale non è conforme al contratto, come integrato dalla legge, è certamente giustificato il rifiuto della stessa da parte del datore di lavoro e lo stato di quiescenza in cui entra l’intero rapporto è semplicemente un mezzo per la conservazione dell’equilibrio giuridico-economico del contratto.
Parimenti, poiché il datore di lavoro può eccepire l’inosservanza dell’obbligo di sicurezza da parte del lavoratore e pertanto rifiutarsi di ricevere la sua prestazione fino a quando questi non provveda a vaccinarsi, neppure egli è stato costretto dal legislatore ad adeguare la propria organizzazione per assegnare al dipendente mansioni che non comportassero il rischio di contagio da SARS-CoV-2; ciò tanto più comprensibilmente nel contesto di quegli specifici comparti normativamente selezionati per la particolare incidenza del fine di tutela della salute pubblica e del mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione dei rispettivi servizi, svolti a contatto con soggetti in situazione di fragilità.
Per effetto del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, che ha fatto venir meno il dovere datoriale di repêchage a mansioni disponibili non comportanti un rischio di contagio (se non per i soggetti esentati dalla vaccinazione per motivi di salute), il datore di lavoro che rifiuta la prestazione del lavoratore non versa, pertanto, in mora credendi, essendo, piuttosto, tale rifiuto implicato dalla carenza di un requisito essenziale di carattere sanitario per lo svolgimento della prestazione stessa.
13.6.– Il bilanciamento dei principi sottesi agli artt. 4, 32 e 35 Cost., realizzato dal legislatore nella individuazione dei tempi e dei modi della vaccinazione, risulta perciò esercitato negli artt. 4, comma 7, e 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in modo non irragionevole.
La scelta operata di non prevedere per i lavoratori, esercenti le professioni sanitarie o operatori di interesse sanitario, o impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie, che avessero deciso di non vaccinarsi, un obbligo del datore di lavoro di adibizione a mansioni anche diverse, a differenza di quanto invece stabilito per coloro che dovessero omettere o differire la vaccinazione a causa di accertato pericolo per la salute o per il personale docente ed educativo della scuola, non risulta contraria ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza. Tale scelta, giacché correlata alle condizioni di idoneità richieste per l’espletamento di peculiari attività lavorative, appare, piuttosto, suffragata dalla necessità dell’adozione di misure provvisorie, indispensabilmente collegate alla evoluzione delle conoscenze scientifiche, culminando in un bilanciamento tra il diritto fondamentale al lavoro del dipendente, la libertà di autodeterminazione individuale attinente alle decisioni inerenti alle cure sanitarie e la tutela della salute pubblica, cui si correla l’esigenza di mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza.
Il diverso trattamento normativo cui sono soggetti i lavoratori esercenti le professioni sanitarie o operatori di interesse sanitario, o impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie, è giustificato dal maggior rischio di contagio sia per se stessi che per le persone particolarmente fragili in relazione al loro stato di salute o all’età avanzata; e ciò costituisce ragione sufficiente per regolare diversamente le conseguenze della mancata sottoposizione a vaccinazione rispetto a lavoratori, quali quelli occupati negli istituti scolastici, che rendono le loro prestazioni in situazioni non omogenee, così come rispetto a lavoratori che siano esentati dalla vaccinazione per motivi di salute.
Alla scelta del legislatore non è stata verosimilmente estranea neppure la considerazione che l’obbligo di ripescaggio costituisce per il datore di lavoro un significativo fattore di rigidità organizzativa, dal quale, non irragionevolmente, si sono volute sollevare le strutture sanitarie e assistenziali, quelle più esposte, cioè, all’impatto della pandemia.
13.7.– Non può, del resto, non considerarsi che la adibizione a mansioni diverse, prescritta invece dall’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in favore dei soggetti che avessero dovuto omettere o differire la vaccinazione per motivi di salute, costituisce misura eccezionale di natura solidaristica, imposta dalla legge al datore di lavoro anche ove non fossero concretamente disponibili nell’organizzazione aziendale posti idonei ad evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, facendo così salvo il diritto del lavoratore alla retribuzione pur ove questi non rendesse effettivamente la sua prestazione.
Anche tali questioni, pertanto, devono essere dichiarate non fondate.
14.– Devono infine esaminarsi le questioni relative all’art. 4, comma 5, nonché all’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, sollevate, in riferimento complessivamente agli artt. 2, 3 e 32, secondo comma, Cost., nei giudizi di cui ai numeri 47, 70, 71, 101, 102, 107 e 108 reg. ord. 2022, nella parte in cui tali norme, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», escludono, in relazione al personale di cui al comma 1 della citata disposizione, nonché al personale di cui alle lettere a) e c) del comma 1 dell’art. 4-ter, l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dalla legge ovvero dalla contrattazione collettiva in caso di sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per il mancato assolvimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2.
Per i rimettenti tale scelta legislativa sarebbe contraria al canone di ragionevolezza e discriminatoria.
14.1.– Le considerazioni sinora svolte inducono a ritenere non fondate anche tali questioni.
14.2.– Si è già evidenziato che, nel meccanismo degli artt. 4, 4-bis e 4-ter del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, e sue successive modifiche, la mancata sottoposizione a vaccinazione ha determinato la sopravvenuta e temporanea impossibilità per il dipendente di svolgere le proprie mansioni, e la sospensione del medesimo lavoratore ha rappresentato per il datore di lavoro l’adempimento di un obbligo nominato di sicurezza, inserito nel sinallagma contrattuale.
L’effetto stabilito dalle norme censurate, secondo cui al lavoratore che decida di non sottoporsi alla vaccinazione non sono dovuti, nel periodo di sospensione, «la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», giustifica, pertanto, anche la non erogazione al lavoratore sospeso di un assegno alimentare (in misura non superiore alla metà dello stipendio, come, ad esempio, previsto per gli impiegati civili dello Stato dall’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957, e in altri casi dalla contrattazione collettiva), considerando che il lavoratore decide di non vaccinarsi per una libera scelta, in ogni momento rivedibile.
14.3.– In sostanza, poiché nel periodo di sospensione del dipendente non vaccinato, pur essendo formalmente in essere il rapporto, è carente medio tempore la sussistenza del sinallagma funzionale del contratto, la negazione altresì del diritto all’erogazione di un assegno alimentare in favore del lavoratore inadempiente all’obbligo vaccinale, che i rimettenti riconducono all’applicazione delle norme censurate, si giustifica quale conseguenza del principio generale di corrispettività, essendo il diritto alla retribuzione, come ad ogni altro compenso o emolumento, comunque collegato alla prestazione lavorativa, eccetto i casi in cui, mancando la prestazione lavorativa in conseguenza di un illegittimo rifiuto del datore di lavoro, l’obbligazione retributiva sia comunque da quest’ultimo dovuta.
14.4.– L’interpretazione delle disposizioni in esame prescelta dai rimettenti valorizza la portata onnicomprensiva del riferimento testuale a ogni emolumento, inteso come ogni entrata o beneficio che trovi causa nel rapporto di lavoro, tale perciò da escludere altresì il diritto all’assegno alimentare del lavoratore non vaccinato. Questa interpretazione non può comunque dirsi costituzionalmente illegittima con riguardo al diverso trattamento riservato alle situazioni del lavoratore del quale sia stata disposta la sospensione dal servizio a seguito della sottoposizione a procedimento penale o disciplinare, in base all’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957 o al sopravvenuto contratto collettivo di comparto, come stabilito dall’art. 59 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421) e poi dall’art. 55 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
La disciplina dell’assegno alimentare invocata nelle ordinanze di rimessione, quale fattispecie cui raffrontare le norme censurate per verificarne la ragionevolezza, configura la sospensione come misura provvisoria, priva di carattere sanzionatorio e piuttosto disposta cautelarmente nell’interesse pubblico (ordinanze n. 541 e n. 258 del 1988), destinata ad essere travolta dall’esaurimento dei paralleli procedimenti, il che rende improponibile la comparazione. Invero, la scelta del legislatore di equiparare quei determinati periodi di inattività lavorativa alla prestazione effettiva trova lì giustificazione nella esigenza sociale di sostegno temporaneo del lavoratore per il tempo occorrente alla definizione dei relativi giudizi e alla verifica della sua effettiva responsabilità, ancora non accertata.
Se, quindi, in tali casi, il riconoscimento dell’assegno alimentare si giustifica alla luce della necessità di assicurare al lavoratore un sostegno allorquando la temporanea impossibilità della prestazione sia determinata da una rinuncia unilaterale del datore di lavoro ad avvalersene e da atti o comportamenti che richiedono di essere accertati in vista della prosecuzione del rapporto, ben diverso è il caso in cui, per il fatto di non aver adempiuto all’obbligo vaccinale, è il lavoratore che decide di sottrarsi unilateralmente alle condizioni di sicurezza che rendono la sua prestazione lavorativa, nei termini anzidetti, legittimamente esercitabile.
14.5.– I rimettenti fanno leva, altrimenti, sull’argomento che l’assegno alimentare, concesso ai sensi dell’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957 o previsto dalla contrattazione collettiva, secondo diffusa interpretazione giurisprudenziale, non ha natura retributiva, ma assistenziale, in quanto non rappresenta il corrispettivo dell’attività lavorativa svolta, ma trova fondamento nell’assicurazione delle esigenze di vita di colui che risulta comunque medio tempore dipendente. Avendo l’assegno alimentare lo scopo di fornire una fonte di reddito al dipendente pubblico e alla sua famiglia, di carattere temporaneo, in quanto limitato al periodo di efficacia della sospensione dal servizio, si reputa dai giudici a quibus che la relativa corresponsione spetti ope legis e indipendentemente dalla sua specifica previsione nel provvedimento di sospensione. In tale prospettiva, l’assegno alimentare in favore dell’impiegato sospeso costituirebbe un diritto soggettivo di automatica applicazione, nonostante la temporanea interruzione del termine sinallagmatico dello svolgimento della prestazione da parte del lavoratore.
Anche muovendo da tale premessa interpretativa, tuttavia, rimane smentita la conclusione che configuri quale soluzione costituzionalmente obbligata l’accollo al datore di lavoro della erogazione solidaristica, in favore del lavoratore che non abbia inteso vaccinarsi e che sia perciò solo temporaneamente inidoneo allo svolgimento della propria attività lavorativa, di una provvidenza di natura assistenziale, esulante dai diritti di lavoro, atta a garantire la soddisfazione delle esigenze di vita del dipendente e della sua famiglia.
Posto cioè che l’erogazione dell’assegno alimentare rappresenta per il datore di lavoro un costo netto, senza corrispettivo, non è irragionevole che il legislatore ne faccia a lui carico quando l’evento impeditivo della prestazione lavorativa abbia carattere oggettivo, e non anche quando l’evento stesso rifletta invece una scelta – pur legittima – del prestatore d’opera.
Anche tali questioni, pertanto, devono essere dichiarate non fondate.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 5, del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76 – come sostituito dall’art. l, comma l, lettera b), del decreto-legge 26 novembre 2021, n. 172 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19 e per lo svolgimento in sicurezza delle attività economiche e sociali), convertito, con modificazioni, nella legge 21 gennaio 2022, n. 3 – sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia con l’ordinanza iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2022;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, e dell’art. 4, commi 1, 4 e 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito – come modificati dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, e dal decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 (Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza, e altre disposizioni in materia sanitaria), convertito, con modificazioni, nella legge 19 maggio 2022, n. 52 – sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 32 e 35 Cost., dal Tribunale ordinario di Padova, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2022;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito – come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, nonché come richiamato dall’art. 4-ter, comma 2, del medesimo d.l. n. 44 del 2021 – sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 32 e 35 Cost., dal Tribunale ordinario di Brescia e dal Tribunale ordinario di Padova, entrambi in funzione di giudici del lavoro, con le ordinanze iscritte ai numeri 71, 76, 77, 107 e 108 del registro ordinanze 2022;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-ter, comma 4, e 4, comma 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, il secondo come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 172 del 2021, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Brescia e dal Tribunale ordinario di Catania, entrambi in funzione di giudici del lavoro, con le ordinanze iscritte ai numeri 47, 70, 71, 101, 102, 107 e 108 del registro ordinanze 2022.
Allegato:
Ordinanza Letta All'udienza Del 30 Novembre 2022
ORDINANZA
Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 4, commi 1, 4, 5 e 7 del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76, promosso con ordinanza del Tribunale ordinario di Padova, sezione lavoro, del 28 aprile 2022, iscritta al reg. ord. n. 76 del 2022.
Rilevato che, con atti depositati il 20, 25 e 26 luglio 2022, sono intervenuti ad adiuvandum D. T. ed altri quattro, A. R., D. D.P. ed altri otto, L. B., M. A. ed altri ventotto, V. B. ed altri quarantanove, I. D. e C. M., P. C. ed altri cinque, nonché, ad opponendum, Azienda ULSS n. 8 Berica, la quale ha anche depositato memoria in data 9 novembre 2022, mentre gli altri intervenienti hanno da ultimo fatto pervenire istanze di rinvio.
Considerato che, ai sensi dell'art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, nel giudizio in via incidentale possono intervenire «i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio» (ex plurimis, sentenze n. 236 del 2021; n. 234 del 2020 con allegata ordinanza letta all'udienza 20 ottobre 2020; n. 158 del 2020 con allegata ordinanza letta all'udienza del 10 giugno 2020, n. 119 del 2020, n. 30 del 2020 con allegata ordinanza letta all'udienza del 15 gennaio 2020, n. 159 e n. 98 del 2019, n. 217, n. 180 e n. 77 del 2018, n. 70 e n. 33 del 2015);
che gli indicati soggetti intervenuti non sono parti del giudizio a quo e la circostanza che si tratti, a seconda dei casi, di lavoratori che hanno subito la sospensione dal lavoro per mancato assolvimento dell'obbligo vaccinale, o di soggetti comunque interessati, in qualità di datore di lavoro o di dipendente, all'adempimento di tale obbligo, in forza delle disposizioni di legge censurate, non è sufficiente a qualificarne e differenziarne l'interesse, in termini di immediata inerenza al rapporto sostanziale dedotto in giudizio;
che, pertanto, gli interventi indicati devono essere dichiarati inammissibili.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili gli interventi spiegati da D. T. ed altri quattro, A. R., D. D.P. ed altri otto, L. B., M. A. ed altri ventotto, V. B. ed altri quarantanove, I. D. e C. M., P. C. ed altri cinque, e dalla Azienda ULSS n. 8 Berica nel giudizio di legittimità costituzionale di cui al reg. ord. n. 76 del 2022.
F.to: Silvana Sciarra, Presidente
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Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 30 marzo 2022 (reg. ord. n. 42 del 2022), il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione prima, ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 32, primo comma, 35, primo comma, e 36, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4, del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76, modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 26 novembre 2021, n. 172 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19 e per lo svolgimento in sicurezza delle attività economiche e sociali), convertito, con modificazioni, nella legge 21 gennaio 2022, n. 3, nella parte in cui, in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale, non limita la sospensione dall’esercizio della professione sanitaria alle sole «prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SAR-CoV-2».
2.– Il giudice rimettente espone di essere investito del ricorso proposto da C. F. – psicologa iscritta all’Ordine degli psicologi della Lombardia ed esercitante la professione di psicoterapeuta in forma autonoma dal 1993 – per l’annullamento del provvedimento del 22 dicembre 2021, con cui è stata sospesa dall’esercizio della professione a seguito dell’atto di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale, adottato dall’azienda per la tutela della salute della Città metropolitana di Milano.
Alla camera di consiglio fissata per la trattazione della domanda cautelare, «la causa è stata discussa e trattenuta in decisione e la domanda cautelare è stata decisa con separata ordinanza».
3.– Con riferimento alla rilevanza delle questioni, il giudice rimettente osserva come siano da ritenere non fondate le eccezioni di difetto di giurisdizione e di carenza di interesse sollevate dall’Ordine degli psicologi della Lombardia, costituitosi nel giudizio a quo.
4.– Inoltre, il TAR Lombardia evidenzia che l’attuale formulazione della norma censurata comporterebbe il rigetto del ricorso proposto nel giudizio principale, in quanto la sospensione «assoluta», ancorché temporanea, dall’esercizio dell’attività professionale è un effetto automatico dell’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale.
Dall’accoglimento delle questioni sollevate deriverebbe, invece, l’illegittimità e il conseguente annullamento del provvedimento impugnato.
5.– Infine, le questioni sollevate sarebbero rilevanti, nonostante la decisione sulla domanda cautelare, in quanto, come statuito dalla sentenza n. 200 del 2014 di questa Corte, «la concessione della misura cautelare determina l’instaurazione della fase del merito del giudizio, senza necessità di ulteriori adempimenti processuali».
6.– Il giudice rimettente, infine, esclude, a causa del chiaro tenore letterale della norma censurata, la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata.
L’art. 4, comma 6, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, prevedeva, originariamente, che «[l’]adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2».
La soppressione dell’inciso «prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SAR-CoV-2» dalla formulazione della disposizione normativa in esame, ad opera del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, indicherebbe la chiara ed univoca volontà legislativa di estendere la sospensione conseguente all’inadempimento dell’obbligo vaccinale a tutta l’attività professionale.
7.– Con riferimento alla non manifesta infondatezza, ad avviso del giudice a quo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con «i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, di cui all’articolo 3 della Costituzione, anche con riferimento alla violazione degli articoli 1, 2, 4, 32, comma primo, 35, comma primo, e 36, comma primo, della Costituzione».
In particolare, sarebbe irragionevole estendere il divieto di svolgere la professione sanitaria a tutte le attività che richiedono l’iscrizione all’albo, nonostante non comportino alcun rischio di diffusione del contagio da SARS-Cov-2, come quelle che, ad esempio, in ambito psicologico, possono essere «svolte senza contatto fisico con il paziente e con modalità a distanza mediante l’utilizzo dei comuni strumenti telematici e telefonici».
La preclusione automatica ed assoluta allo svolgimento della professione sanitaria, inoltre, andrebbe oltre «il necessario per conseguire l’obiettivo di tutela prefigurato dalla norma, il quale avrebbe potuto essere realizzato, con pari efficacia, anche con il più mite divieto di intrattenere contatti di prossimità con il paziente o dai quali derivi comunque un rischio concreto di diffusione del contagio da Sars-Cov-2». La norma censurata, quindi, non costituirebbe «il mezzo più adeguato per garantire il contestuale parziale soddisfacimento dell’interesse del professionista a svolgere l’attività lavorativa […], nonché dell’interesse dei pazienti alla continuità dell’erogazione delle prestazioni sanitarie in condizioni di sicurezza».
Sarebbe poi “incoerente” non consentire a coloro che hanno scelto di esercitare la professione sanitaria in forma autonoma «un’organizzazione alternativa e temporanea delle modalità di esercizio della professione» stessa, che non comporti rischi di contagio da SARS-CoV-2, a differenza di quanto ammesso, dal comma 7 del medesimo art. 4, per i lavoratori dipendenti.
Infine, applicare al sanitario non vaccinato, che chiede la prima iscrizione all’albo professionale, il «medesimo trattamento inibitorio» che opera per il sanitario non vaccinato già iscritto all’albo determinerebbe «un’irragionevole parità di trattamento a fronte di situazioni francamente disomogenee». Per quest’ultimo, a differenza che per il primo, «la sospensione totale dall’attività» comporterebbe effetti pregiudizievoli, «potenzialmente irreversibili», sull’avviamento professionale e sulla produzione del reddito necessario per il sostentamento personale e familiare.
8.– Il 24 maggio 2022, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.
9.– Ad avviso della difesa statale, il giudice rimettente muoverebbe da un’erronea interpretazione della norma censurata, che, anche prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, non contemplava la facoltà, per il professionista, di farsi sospendere solo da alcune modalità di esercizio della professione sanitaria.
Peraltro, a fronte dell’esercizio in via autonoma della professione, sarebbe impossibile «verificare se di volta in volta l’attività posta in essere [sia] svolta da remoto e sia effettivamente svolta secondo tali modalità».
Il divieto assoluto di svolgere l’attività professionale, in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale, non sarebbe comunque irragionevole, perché rientra nella discrezionalità legislativa scegliere le modalità con cui fronteggiare la situazione pandemica in atto. Il legislatore ha, infatti, voluto attribuire agli Ordini professionali un potere del tutto vincolato, senza possibilità di modulare l’effetto della sospensione automatica e totale dall’albo e dall’esercizio della relativa professione.
Né alcuna comparazione può essere svolta con riferimento alle situazioni disciplinate dal comma 2 del censurato art. 4, che riguardano, infatti, i casi «di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal proprio medico curante di medicina generale ovvero dal medico vaccinatore».
La difesa dello Stato esclude, poi, che il legislatore avrebbe dovuto differenziare, come suggerito dal giudice rimettente, tra professionisti già iscritti all’albo e coloro che vi si iscrivono per la prima volta, tenuto conto che il bene tutelato è sempre la salute pubblica.
Peraltro, i pregiudizi economici derivanti dalla sospensione dall’esercizio della professione, in caso di scelta volontaria di non sottoporsi alla vaccinazione gratuita, sarebbero senza dubbio recessivi rispetto al «dovere di solidarietà nei confronti della comunità e [all’]esigenza del richiamo a contribuire alla tutela della salute collettiva», soprattutto da parte degli esercenti la professione sanitaria.
Infine, nessuna comparazione può essere svolta con la previsione, contenuta nel comma 7 del medesimo art. 4, dell’obbligo dei datori di lavoro di adibire i lavoratori che non possono vaccinarsi per ragioni di salute «a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2». Infatti, per i lavoratori autonomi, diversamente che per quelli dipendenti, non vi è alcun soggetto che potrebbe controllare le forme di svolgimento delle relative prestazioni, assumendone la responsabilità. Da qui la previsione di un divieto assoluto di esercizio della professione, in caso di omessa vaccinazione.
10.– Con atto depositato il 24 maggio 2022, si è costituita in giudizio C. F., ricorrente nel giudizio principale, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate fondate.
Ad avviso della parte, le questioni sarebbero non manifestamente infondate, in primo luogo, in riferimento all’art. 3 Cost., «in punto [di] identico trattamento di situazioni totalmente differenti, “lavoro in presenza” vs. “lavoro da remoto”».
L’art. 3 Cost. sarebbe violato anche per il carattere sproporzionato e discriminatorio della sanzione conseguente all’inadempimento dell’obbligo vaccinale, sia rispetto ai lavoratori dipendenti che, a differenza dei liberi professionisti, incorrono nella mera sospensione dello stipendio, e non anche nella «distruzione della posizione professionale», derivante dal divieto di svolgere attività per diversi mesi, sia rispetto a tutte le altre categorie di cittadini.
Inoltre, vietare l’esercizio delle attività terapeutiche dello psicologo che non comportano alcun rischio di infezione, come quelle svolte da remoto, significherebbe discriminarle rispetto ad attività simili che non sono regolamentate e, quindi, hanno potuto continuare ad essere svolte anche in presenza; nonché rispetto alle attività che alcuni psicologi, ancorché sospesi dall’albo, hanno continuato ad esercitare illegittimamente e alle attività dei sanitari iscritti a ordini professionali stranieri o, comunque, non raggiunti da «ingiunzion[i] vaccinal[i]».
Le questioni sollevate sarebbero non manifestamente infondate anche in riferimento agli artt. 1, 2, 4, 32, primo comma, 35 e 36, primo comma, Cost., in quanto il divieto del lavoro da remoto per i sanitari non vaccinati integrerebbe una lesione del diritto al lavoro che colpisce particolarmente i libero professionisti, i quali rischiano la perdita irreversibile della clientela.
Lo scopo di questa sanzione, quindi, non sarebbe quello di tutelare la salute pubblica, ma di coartare, in modo sproporzionato, la libera determinazione dei professionisti sanitari in ordine alla vaccinazione, con effetti pregiudizievoli anche per i pazienti degli psicologi a cui è inibita l’attività terapeutica.
11.– C. F. ha depositato una prima memoria il 5 settembre 2022, contestando le deduzioni dell’Avvocatura dello Stato e insistendo per la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, e una seconda memoria il 10 novembre 2022, riportandosi alle precedenti conclusioni e depositando il «report dell’Istituto Superiore di Sanità del 4 novembre 2022».
12.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, hanno depositato memorie l’Avvocatura generale dello Stato, richiamando l’art. 7 del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162 (Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di obblighi di vaccinazione anti SARS-CoV-2 e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali), non ancora convertito in legge, che ha anticipato, al 1° novembre 2022, il termine finale di efficacia della sospensione dall’esercizio della professione sanitaria, e la parte, che ha contestato le deduzioni della difesa statale, insistendo per la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale.
Motivi della decisione
1.– Con ordinanza del 30 marzo 2022 (reg. ord. n. 42 del 2022), il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione prima, dubita, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 32, primo comma, 35, primo comma, e 36, primo comma, Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, nella parte in cui, in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale, non limita la sospensione dall’esercizio della professione sanitaria alle sole «prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2».
2.– Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con «i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, di cui all’articolo 3 della Costituzione, anche con riferimento alla violazione degli articoli 1, 2, 4, 32, comma primo, 35, comma primo, e 36, comma primo, della Costituzione».
In particolare, sarebbe irragionevole, in caso di omessa vaccinazione, estendere il divieto di svolgere la professione sanitaria a tutte le attività che richiedono l’iscrizione all’albo, quando esse non comportino alcun rischio di diffusione del COVID-19, potendo essere «svolte senza contatto fisico con il paziente e con modalità a distanza mediante l’utilizzo dei comuni strumenti telematici e telefonici».
La preclusione automatica ed assoluta allo svolgimento della professione sanitaria in forma autonoma, inoltre, andrebbe oltre «il necessario per conseguire l’obiettivo di tutela prefigurato dalla norma, il quale avrebbe potuto essere realizzato, con pari efficacia, anche con il più mite divieto di intrattenere contatti di prossimità con il paziente o dai quali derivi comunque un rischio concreto di diffusione del contagio da Sars-Cov-2».
Sarebbe poi “incoerente” non consentire a coloro che hanno scelto di esercitare la professione sanitaria in forma autonoma «un’organizzazione alternativa e temporanea delle modalità di esercizio della professione» stessa, che non comporti rischi di contagio del COVID-19, a differenza di quanto ammesso, dal comma 7 del medesimo art. 4, per i lavoratori dipendenti.
Infine, applicare al sanitario non vaccinato già iscritto all’albo professionale il «medesimo trattamento inibitorio» che opera per colui che ne chiede la prima iscrizione determinerebbe «un’irragionevole parità di trattamento a fronte di situazioni francamente disomogenee», in quanto «la sospensione totale dall’attività» comporterebbe, per il primo, effetti pregiudizievoli, «potenzialmente irreversibili», sull’avviamento professionale e sulla produzione del reddito necessario per il sostentamento personale e familiare.
3.– L’esame nel merito delle questioni risulta precluso da un assorbente profilo di inammissibilità delle medesime, legato al difetto di giurisdizione del giudice rimettente.
3.1.– Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il difetto di giurisdizione del giudice a quo determina l’inammissibilità delle questioni, per irrilevanza, quando sia palese e rilevabile ictu oculi (ex plurimis, sentenze n. 65 e n. 57 del 2021, n. 267 e n. 99 del 2020, n. 189 del 2018, n. 106 del 2013 e n. 179 del 1999).
Qualora sussista l’evidenza del vizio, o nel processo a quo siano state sollevate specifiche eccezioni a riguardo, come nel caso di specie, è richiesta al giudice rimettente una motivazione esplicita (sentenze n. 79 del 2022, n. 65 del 2021 e n. 267 e n. 44 del 2020), rispetto alla quale spetta a questa Corte una verifica esterna e strumentale al riscontro della rilevanza delle questioni (sentenze n. 44 del 2020, n. 52 del 2018 e n. 269 del 2016).
3.2.– Il giudice a quo è il TAR Lombardia, chiamato a decidere il ricorso proposto da una psicologa iscritta all’Ordine degli psicologi di tale Regione ed esercitante la professione di psicoterapeuta in forma autonoma, avverso la sospensione dall’albo professionale per inadempimento dell’obbligo vaccinale.
In punto di rilevanza, il TAR riferisce che l’Ordine professionale, parte resistente nel giudizio principale, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice adito. Tale eccezione, secondo il rimettente, sarebbe priva di fondamento, perché l’Ordine ha esercitato un potere autoritativo di per sé sufficiente a radicare la giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 7 del codice del processo amministrativo.
La motivazione dell’ordinanza di rimessione in ordine all’eccepito difetto di giurisdizione non supera il vaglio della non implausibilità, al quale si attiene questa Corte in relazione alla verifica della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale, venendo in rilievo, nel giudizio principale, il diritto soggettivo a continuare a esercitare la professione sanitaria.
Le sezioni unite civili della Corte di cassazione, infatti, con ordinanza 29 settembre 2022, n. 28429, hanno confermato la sussistenza della giurisdizione ordinaria proprio in relazione all’impugnazione, da parte di un fisioterapista libero professionista, del provvedimento con cui l’Ordine professionale territorialmente competente lo ha sospeso dall’esercizio della professione sanitaria, per mancata ottemperanza all’obbligo vaccinale.
In tale pronuncia la Corte di cassazione ha ritenuto che appartiene alla cognizione del giudice ordinario la controversia in cui viene in rilievo un diritto soggettivo – nella specie, quello ad esercitare la professione sanitaria – non intermediato dall’esercizio del potere amministrativo. Lo svolgimento dell’attività libero professionale, infatti, «viene sospeso temporaneamente […] in forza delle previsioni dettagliatamente recate dalla fonte legislativa, che pone un requisito [la vaccinazione contro il SARS-CoV-2] per l’esercizio [della stessa]».
È evidente, pertanto, la carenza di giurisdizione del rimettente sulla controversia relativa alla sospensione dall’esercizio della professione sanitaria, che – come sottolineato dalla richiamata ordinanza delle sezioni unite della Corte di cassazione – «discende, in modo automatico» dall’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale, configurato come «requisito essenziale» imposto dalla legge a tutela della salute pubblica e della sicurezza delle cure.
4.– Per tale ragione, le questioni vanno dichiarate inammissibili.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4, del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 26 novembre 2021, n. 172 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19 e per lo svolgimento in sicurezza delle attività economiche e sociali), convertito, con modificazioni, nella legge 21 gennaio 2022, n. 3, sollevate, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 32, primo comma, 35, primo comma, e 36, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione prima, con l’ordinanza indicata in epigrafe.