Essi devono rispondere a due requisiti, ossia essere funzionali a esigenze temporanee e facilmente rimovibili.
Con sentenza n. 1489 del 13 febbraio 2023, il Consiglio di Stato accoglie l'appello avanzato dal Ministero della Cultura avverso la sentenza del TAR Puglia avente ad oggetto il provvedimento di rigetto della richiesta di autorizzazione paesaggistica in sanatoria ex art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, in riferimento ad un dehor realizzato su suolo pubblico in ampliamento dell'attività commerciale.
Con riferimento alle strutture a servizio di attività commerciali installate su suolo pubblico, comunemente denominate “dehors”, il Consiglio di Stato sottolinea che per poter rientrare nella dizione di “attività edilizia libera” di cui all'
- uno funzionale, consistente cioè nella finalizzazione alle esigenze dell'attività, che devono tuttavia essere «contingenti e temporanee», intendendosi per tali quelle che, «in senso obiettivo, assumono un carattere ontologicamente temporaneo, quanto alla loro durata, e contingente, quanto alla ragione che ne determina la realizzazione, palesato dalla loro permanenza massima sul suolo per un periodo non superiore a centottanta giorni (termine che deve comprendere anche i tempi di allestimento e smontaggio, riducendosi in tal modo l'uso effettivo ad un periodo inferiore)»;
- l'altro strutturale, consistente nella loro realizzazione con materiali e modalità tali da consentirne la rapida rimozione una volta venuta meno l'esigenza.
Dalla diversa angolazione della tutela del paesaggio, le installazioni oggetto della controversia sono esonerate dall'autorizzazione di cui all'art. 146
In relazione alla motivazione del diniego dell'autorizzazione paesaggistica, Palazzo Spada osserva che «in caso di mancato rispetto del termine previsto dalla legge per l'espressione del parere della Soprintendenza non può che riguardare il contenuto del giudizio, ovvero la ritenuta attitudine dell'intervento a incidere permanentemente sui valori paesaggistici, la cui rilevanza assume una valenza superiore a quella meramente estetica, tradizionalmente limitata alla visione panoramica e alla percezione “empirica” delle opere. Laddove invece a tale merito neppure si arrivi perché non è stata superata la barriera di ammissibilità della domanda del privato, l'atto di diniego assume contenuto vincolato e portata necessitata, e ben può limitarsi a riferire quanto chiarito dalla Soprintendenza, seppure tardivamente».
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza (ud. 13 dicembre 2022) 13 febbraio 2023, n. 1489
Svolgimento del processo
1. È appellata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sede di Lecce, di accoglimento del ricorso proposto dalla Società Gelateria Lucarelli di Lucarelli Luigi & C. s.n.c. (d’ora in avanti, solo la Società o la Gelateria Lucarelli), avverso il provvedimento del 15 aprile 2021 con il quale il Comune di Ginosa le comunicava il diniego di autorizzazione paesaggistica in sanatoria ex art. 167 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, in riferimento ad un dehor realizzato su suolo pubblico in ampliamento dell’attività commerciale.
2. Va premesso che la Società è titolare di un esercizio di somministrazione di alimenti e bevande del tipo comunemente denominato bar-gelateria ubicato sul viale Ionio, nn. 31-33, della frazione Marina del Comune di Ginosa, in zona classificata come “B4” - “esistente di completamento” - nel vigente Piano regolatore generale (P.R.G.), soggetta a vincolo paesaggistico ex art. 135, lett. c) e d) del d.lgs. n. 42 del 2004, in quanto inclusa nell’ambito 8 del Piano paesaggistico territoriale regionale della Puglia (P.P.T.R.), la cui disciplina d’uso è declinata all’art. 79 delle allegate norme tecniche di attuazione e alla scheda PAE0139 e oggetto del d.m. 1 agosto 1985.
3. Giova ricordare che la complessa vicenda sottesa al presente contenzioso ha quale antefatto la richiesta legittimazione, per il tramite di una s.c.i.a. presentata in data 1 settembre 2016, della installazione di un manufatto temporaneo, con copertura su pilastrini, di dimensioni progettuali pari a circa mq. 56 di superficie e m. 3 di altezza, da addossare alla facciata del locale, interamente su suolo pubblico, ovvero in parte sul marciapiede prospiciente l’esercizio, per la rimanente su pedana occupante la sede stradale. Il mantenimento in loco secondo la disciplina comunale di cui veniva fatta applicazione, non doveva superare i sei mesi l’anno, dal 1 febbraio al 30 novembre (deliberazione del Consiglio comunale n. 12 del 17 marzo 2009).
3.1. La Gelateria Lucarelli ha tuttavia cercato nel tempo di “stabilizzare” il manufatto, modificandone anche la consistenza:
-con una prima nota, prot. n. 33955 del 22 novembre 2016, ha chiesto infatti di poter allungare a cinque anni il tempo di permanenza (e conseguente utilizzo) della struttura e di elevarne l’altezza a m. 3,43, in deroga ai limiti massimi statuiti dal richiamato regolamento;
- indi, preso atto del diniego espresso dal Comune di Ginosa con delibera di Giunta n. 13 del 26 gennaio 2017, e della conseguente diffida a ripristinare lo stato dei luoghi (nota prot. n. 7138 del 14 marzo 2018, contenente in realtà preavviso di ingiunzione al ripristino) da parte del Responsabile dell’Area VI del competente ufficio tecnico, susseguente a verifica della Polizia municipale del 12 marzo 2018, presentava un’ulteriore s.c.i.a. (9 aprile 2018) per ottenere la sanatoria ex art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001 di quanto comunque realizzato.
4. Il Comune di Ginosa ha rigettato l’istanza con il provvedimento impugnato in primo grado, preceduto da preavviso di diniego ex art. 10 bis della l. n. 241 del 1990 (2 dicembre 2020), motivando per relationem sui contenuti del parere negativo della Soprintendenza per i beni architettonici, per il paesaggio e per il patrimonio storico, artistico ed entoantropologico di Lecce (d’ora in avanti, solo “la Soprintendenza”) del 6 settembre 2019, preceduto a sua volta da preavviso di diniego del 1 febbraio 2019, inoltrato anche alla Società.
4.1. In maggior dettaglio:
- in data 23 luglio 2018 il Comune di Ginosa trasmetteva la pratica alla Soprintendenza di Lecce con nota recante in oggetto il richiamo all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, dando atto dell’ottenuto avallo della Commissione comunale per il paesaggio;
- in data 9 agosto 2018 la Soprintendenza, ipotizzando piuttosto una richiesta di sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 (trattandosi di opera assoggettata a permesso di costruire e non a s.c.i.a.), chiedeva di acquisire copia dell’originaria autorizzazione paesaggistica;
- il Comune riscontrava la richiesta con la nota prot. 22349 del 15 ottobre 2018, indirizzata anche alla Società, richiamando solo la s.c.i.a. del 1 settembre 2016, e limitandone la portata sotto il profilo paesaggistico a 120 giorni;
- a quel punto la Soprintendenza, sempre provvedendo all’inoltro anche alla Gelateria Lucarelli, inquadrata la procedura sub art. 167, commi 4 e 5 del d.lgs. n. 42 del 2004, preso atto della mancanza di chiarimenti da parte del Comune in ordine alla riconducibilità dell’intervento alle fattispecie ivi enucleate, ha dapprima preannunciato (nota del 1 febbraio 2019), indi formalizzato (6 settembre 2019) il proprio parere negativo.
5. Il Tribunale di prime cure ha motivato l’accoglimento sull’assunto che essendosi la Soprintendenza espressa tardivamente rispetto al termine di 90 giorni previsto dall’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, il Comune avrebbe dovuto illustrare più compiutamente e autonomamente le ragioni del proprio diniego, anziché “appiattirsi” sulle considerazioni dell’Amministrazione statale.
6. Appella la sentenza il Ministero della Cultura, già Ministero per i beni e le attività culturali, lamentando, con un unico articolato motivo, difetto di istruttoria e errata applicazione della normativa di riferimento.
Nel caso di specie, infatti, l’installazione del dehor necessitava ab origine di autorizzazione paesaggistica, non potendo rientrare per caratteristiche tipologiche nella fattispecie di esonero descritta al punto “A.16” dell’allegato A al d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31, «Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedimento autorizzatorio semplificato». D’altro canto, in quanto comunque divenuta abusiva in ragione della sua permanenza nel tempo oltre i limiti della contingenza stagionale consentita dalla legge, essa avrebbe necessitato di sanatoria, per contro non concedibile giusta la estraneità del manufatto alle tipologie che la consentono ex art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 (in quanto non qualificabile quale struttura “leggera” e conseguentemente di facile amovibilità, oltre che per il fattore temporale, per dimensioni e materiali utilizzati, che lo avrebbero reso una sostanziale estensione del locale commerciale e dunque il normale ambiente di lavoro annesso allo stesso). Tale inquadramento troverebbe da ultimo conferma nel nuovo regolamento comunale per la disciplina delle occupazioni di aree pubbliche per spazi di ristoro all’aperto e dehors approvato dal Comune di Ginosa con deliberazione consiliare n. 15 del 28 maggio 2020, applicabile anche al caso di specie in ragione del principio del tempus regit actum, che oltre a vietare in assoluto nell’area “B” , dove insiste la struttura in parola, soggetta a vincolo paesaggistico, l’apposizione di coperture a gazebo o con tenda a doppia falda (art. 8, comma 9, lett. e), considera “precarie” solo le costruzioni prive di qualsivoglia ancoraggio al suolo, se si eccettuano le bullonature.
7. Resiste in giudizio la Società Gelateria Lucarelli di Lucarelli Luigi & C. s.n.c., sostenendo l’infondatezza del ricorso in appello.
8. Si è costituito ad adiuvandum il Comune di Ginosa, per rimarcare la correttezza del proprio operato, basato sull’autonoma condivisione del parere negativo della Soprintendenza.
9. Alla pubblica udienza del 13 dicembre 2022 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
10. L’appello merita accoglimento.
11. Il Collegio premette, in via generale, che laddove il legislatore, come da tempo avvenuto nella materia urbanistico-edilizia, per condivisibili esigenze di semplificazione, ha “stralciato” dal normale regime della edificabilità dei suoli singoli interventi, considerandoli irrilevanti in termini di impatto sul territorio, l’interprete ( e ancor prima, l’organo di controllo) è posto dinanzi al difficile compito di perimetrare con esattezza l’ambito delle deroghe, al margine delle quali si collocano -recte, si insinuano- potenziali situazioni di illecito di non sempre agevole individuazione, giusta l’innegabile zona chiaroscurale che finisce per generarsi.
Con riferimento alle strutture utilizzate dagli imprenditori commerciali per ampliare la superficie del proprio esercizio, nel tempo divenute sempre più sofisticate in ragione della ricercata maggiore funzionalità in termini di attrattività e di confort, ciò ha coinciso anche con l’adozione di scelte di pianificazione del territorio urbano particolarmente permissive, o vaghe, se non addirittura con atteggiamenti di sostanziale tolleranza o quanto meno acquiescenza rispetto a situazioni che, per consistenza e durata, paiono sussumibili al concetto di “nuova costruzione” più che a quello di attività edilizia libera.
12.1. Al fine, pertanto, di individuare un giusto punto di incontro fra esigenze, non sempre necessariamente contrapposte (si pensi alla volontà del Comune, che emerge anche nel caso di specie, di ampliare l’offerta commerciale delle proprie zone a vocazione turistica, favorendo le iniziative in tal senso dei privati), il legislatore nazionale ha cercato di porre dei “paletti” temporali, il superamento dei quali, come meglio chiarito nel prosieguo, diviene chiaro indizio di tendenziale non stagionalità della struttura, con conseguente necessità: a monte, di individuare il titolo edilizio occorrente per la sua realizzazione; a valle, di ricondurla, ove comunque avvenuta, all’illecito corrispondente alla sua mancanza.
La stratificazione normativa che ne è seguita, ha tuttavia dato luogo nel tempo ad un disallineamento delle previsioni temporali a presidio del regolare assetto del territorio in genere, ovvero anche del paesaggio, sicché la irrilevanza di un intervento edilizio non coincide necessariamente con la consentita deroga dal preventivo avallo paesaggistico (come d’altro canto avviene per altri interventi, anche di mera manutenzione, quale la tinteggiatura della facciata, che tuttavia per l’impatto estetico può necessitare di un vaglio di qualità paesaggistica).
La diversità degli interessi tutelati, che, ancor più dopo la recente novella dell’art. 9 della Costituzione, individua il paesaggio come oggetto primario di tutela, quale contenitore ampio di connotati paesaggistici e antropologici-culturali sinonimo di bellezza, giustifica anche in questo ambito un sostanziale diverso livello di tolleranza, nel senso che ciò che può stare sul suolo (seppur tutelato) per un certo lasso di tempo, non necessariamente può restarvi per lo stesso identico tempo senza essere considerato esteticamente impattante e dunque da sottoporre al vaglio preventivo di qualità dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
13. Nel gergo ormai di uso comune, piuttosto che giuridico, le strutture a corredo di attività commerciali vengono denominate con l’espressione di derivazione francese dehors (letteralmente, che sta fuori), che in contrapposizione a dedans (che sta dentro), finisce per individuare proprio quei manufatti di varia tipologia che vanno ad ampliare le superfici di somministrazione di alimenti e bevande di bar, ristoranti e simili, spesso tanto più gradevoli dal punto di vista estetico e funzionali dal punto di vista pratico (si pensi alla possibilità di installare al loro interno impianti mobili di riscaldamento) quanto maggiore ne è la stabilità e ancoraggio al suolo.
13.1. Il termine peraltro è traslato dalla prassi per lo più nei regolamenti comunali (nonostante il principio generale di obbligatorio uso della lingua italiana negli atti pubblici, ricavabile dall’art. 122, primo comma, c.p.c.), che spesso ne fanno menzione finanche nell’oggetto (come accaduto per il Comune di Ginosa): in una visione pianificatoria sempre più intersettoriale - a tutela della c.d. “sicurezza urbana”, nell’accezione più moderna e “illuminata” di miglioramento della vivibilità cittadina -, superando l’originario approccio esclusivamente tributario, essi divengono pertanto lo strumento per indirizzare le scelte del privato nella direzione, anche estetica, individuata dall’Ente territoriale, che talvolta fornisce perfino il modello di struttura cui uniformarsi per singole zone, se del caso previamente avallato dalla Soprintendenza in un’ottica di effettiva cogestione del vincolo lungimirante ed “economica”, giusta la intuibile ripercussione in termini di velocizzazione della successiva istruttoria delle singole pratiche.
E’ di tutta evidenza, tuttavia, che la fonte regolamentare non può derogare ai principi generali in materia urbanistico-edilizia e ambientale, avallando installazioni sostanzialmente permanenti, sol perché rispondenti alle indicazioni tipologiche proposte, ovvero per lo più imposte.
14. Con riferimento alla fattispecie in contestazione, dunque, la disciplina regolamentare era originariamente contenuta nella ricordata delibera consiliare n. 12 del 6 marzo 2009, cui la Società ha fatto riferimento in occasione di tutte e tre le s.c.i.a. presentate (quella originaria, rispettosa dei termini di durata dell’installazione; quella finalizzata alla deroga, temporale e tipologica; infine quella per la sanatoria del mantenimento della struttura).
La successiva, e più analitica, contenuta nella delibera n. 15 del 28 maggio 2020, risulta infatti inapplicabile ratione temporis, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa erariale, proprio in ragione dell’invocato principio del tempus regit actum, che imponeva di definire la richiesta sulla base delle regole vigenti al momento della sua presentazione (aprile 2018).
L’atto sopravvenuto, tuttavia, si presenta di sicuro interesse laddove tenta una definizione del «dehor», comunque utile a riempire di contenuti concreti la relativa dizione, distinguendolo peraltro in stagionale e non. Esso consisterebbe dunque in un «insieme degli elementi mobili, smontabili e facilmente rimovibili […] posto sul suolo pubblico (o privato gravato da servitù di pubblico passaggio) per un periodo complessivo non superiore a 270 giorni nell’arco dell’anno solare», salvo insista su aree tutelate, nel qual caso il termine massimo di permanenza «non potrà essere superiore ai 120 giorni».
15. Sotto il profilo edilizio, i dehors, che di fatto assumono una consistenza che varia dalla semplice tenda, o ombrellone ad ampie falde, al box munito di infissi chiusi tipo veranda, possono essere installati liberamente ove rispondano alle caratteristiche di cui all’art. 6, comma 1, lett. e-bis), del d.P.R. n. 380 del 2001. La disposizione si riferisce a «opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all’amministrazione comunale».
Dalla lettura della norma emergono due elementi connotanti le strutture de quibus:
- uno funzionale, consistente cioè nella finalizzazione alle esigenze dell’attività, che devono tuttavia essere «contingenti e temporanee», intendendosi per tali quelle che, in senso obiettivo, assumono un carattere onotologicamente temporaneo, quanto alla loro durata, e contingente, quanto alla ragione che ne determina la realizzazione, e che in ogni caso (cioè quale che ne sia la “contingenza” determinante), non superano comunque i centottanta giorni (termine che, è bene ribadirlo, deve comprendere anche i tempi di allestimento e smontaggio, riducendosi in tal modo l’uso effettivo ad un periodo inferiore ai predetti 180 giorni);
- l’altro strutturale, ovvero l’avvenuta realizzazione con materiali e modalità tali da consentirne la rapida rimozione una volta venuta meno l’esigenza funzionale (e quindi al più tardi nel termine di centottanta giorni dal giorno di avvio dell’istallazione, coincidente con quello di comunicazione all’amministrazione competente).
15.1. La collocazione sistematica della disposizione de qua all’interno dell’elencazione -da considerare tassativa - delle opere eseguibili senza alcuna previa abilitazione, fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, lascia quale unico margine lo spazio riservato all’interprete dall’elasticità della nomenclatura utilizzata.
15.2. Il Collegio ritiene altresì utile ricordare che l’art. 6, comma 1, contempla un’ulteriore voce cui astrattamente potrebbe farsi riferimento per sistematizzare gli interventi in controversia, priva peraltro di precise indicazioni temporanee.
La successiva lett. e-quinquies) -pure riconducibile, nella stesura originaria, al d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, ferme restando le successive modifiche di cui, da ultimo, al d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120 – laddove parla di «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici», parrebbe - a prima lettura - riferibile anche ai “dehors”, poiché gli stessi, sotto il profilo etimologico, ben possono costituire sia elementi di arredo, appunto, che pertinenze dell’edificio. Ciò tanto in senso civilistico ex art. 817 c.c., che nella diversa accezione rilevante in ambito urbanistico-edilizio, a seconda della loro maggiore o minore consistenza (è noto, infatti, che le due dizioni non necessariamente coincidono, attagliandosi la seconda solo ad opere di modesta entità, seppure accessorie rispetto ad un’altra principale, ed essendo esclusa quando al contrario le stesse, da un punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia e per la possibile diversa destinazione economica. Cfr. ex multis Cons. Stato, sez. II, 12 febbraio 2020, n. 1107; id., 30 novembre 2020, n. 7601; sez. IV, 3 giugno 2019, n. 3703; sez. VI, 13 marzo 2017, n. 1155).
15.3. La circostanza, tuttavia, che il dehor, benché astrattamente possa costituire un “elemento di arredo”, vada ad abbellire o funzionalizzare una presella di suolo pubblico data in concessione, rende la definizione de qua meno calzante, salvo a voler accedere alla qualificazione di quest’ultima come «area pertinenziale dell’edificio», il che non appare oggettivamente praticabile. Né, d’altra parte, l’elemento di arredo può giovarsi della disposizione in esame, una volta che lo stesso, lungi dal risultare funzionalmente connesso all’abbellimento estetico dell’edificio, risulti invece del tutto strumentale ad una specifica attività commerciale, onde ampliarne ed agevolarne l’esercizio.
15.4. D’altro canto, neppure può attingersi all’altra dicitura contemplata dalla norma, ovvero quella di «area ludica», stante che la relativa definizione si completa col riferimento alla mancanza di scopo di lucro, ontologicamente incompatibile con un utilizzo a corredo ed in ampliamento di un’attività imprenditoriale.
16. Le difficoltà interpretative connesse alla portata elastica del termine “dehor”, in uno con la mancanza di una sua definizione giuridica a livello nazionale, non hanno trovato soluzione neppure nei recenti provvedimenti normativi adottati dal Governo allo scopo di superare in generale l’eterogeneità linguistica imperante nel settore dell’edilizia, spesso fonte di prassi diversificate da Comune a Comune a discapito delle più elementari esigenze di certezza del diritto.
16.1 Nel Regolamento edilizio-tipo approvato in sede di Intesa Stato-Regioni, in attuazione dell’art. 4, comma 1-sexies del d. P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e pubblicato sulla G.U. n. 268 del 16 novembre 2016, dunque, la relativa voce non figura, ma si ritrovano definizioni astrattamente riferibili a strutture simili: la «pensilina», ad esempio, è un « elemento edilizio di copertura posto in aggetto alle pareti perimetrali esterne di un edificio e priva di montanti verticali di sostegno» (definizione n. 38); la «tettoia», identifica un « Elemento edilizio di copertura di uno spazio aperto sostenuto da una struttura discontinua, adibita ad usi accessori oppure alla fruizione protetta di spazi pertinenziali» (voce n. 42); la «veranda», un «Locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili» (n.43).
Non trattandosi, nel caso di specie, di un vero e proprio Regolamento edilizio unico, ma di un sostanziale documento di indirizzo, cui, previo recepimento, con gli adattamenti e le puntualizzazioni ritenute opportune da parte della Regione, devono ispirarsi i Comuni per la redazione dei propri regolamenti, esso ben avrebbe potuto attingere anche la materia di interesse, in quanto chiamato ad occuparsi delle «modalità costruttive» sia degli immobili che delle loro pertinenze (art. 4 del d.P.R. n. 380/2001).
16.2. Con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 2 marzo 2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.81 del 7 aprile 2018, si è provveduto inoltre all’«Approvazione del glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera», in attuazione dell’art. 1, comma 2, del già ricordato d. lgs. 25 novembre 2016, n. 222.
Tra i suggerimenti terminologici con cui individuare gli interventi riconducibili alla previsione di cui all’art. 6, comma 1, lett. e-bis, qui di interesse, non figura ancora una volta la parola “dehor”, bensì quelle di «tensostrutture, pressostrutture e assimilabili», indicazione finale di sintesi che consente di abbracciare tutti i manufatti che condividono con le stesse le caratteristiche costruttive, quali, in particolare, la evidente mancanza di parti murarie.
Il Glossario, peraltro, richiama espressamente anche le indicazioni temporali contenute nella norma primaria, sicché le opere, comunque denominate, per potere essere ricondotte al relativo paradigma nominalistico ( e rimanere “libere”, ossia non necessitanti di titolo preventivo) non devono insistere in loco per più di novanta giorni (oggi centottanta, non essendo stato il provvedimento adeguato mediante rinvio dinamico alla estensione di durata apportata novellando in parte qua l’art. 6 del T.u.e. da parte del d.l. n. 76 del 2020), calcolati come innanzi chiarito.
16.3. Vero è che anche in corrispondenza delle esemplificazioni riconducibili al comma e-quinquies (connotate, si ribadisce, dalla assenza di temporaneità) della medesima norma figurano voci astrattamente adeguate alla fattispecie in controversia quali i «gazebo» (voce 44), i «pergolati» (voce 46) e le «tende a pergola» o «pergotenda» (voce 60, che arriva a distinguere le due possibili ipotesi, pur sostanzialmente sinonimi).
Ma a tutto concedere, ove si voglia attingere a ridette definizioni anziché a quelle di cui al § precedente, ne va ribadita la connotazione come «di limitate dimensioni e non stabilmente infisse al suolo» (per gazebo e pergolati); ovvero la assimilazione alle altre inserite nella medesima voce, quali genericamente le «tende» e la «copertura leggera di arredo» (per tende a pergola e pergotende). E soprattutto, non potendo il decreto travalicare le coordinate fissate dal legislatore primario, di fatto estendendo la nozione di strutture precarie, occorre sempre avere a mente che vuoi che si tratti di un gazebo, vuoi che si parli di una tenda, deve o “arredare” una pertinenza dell’edificio (e quindi non il suolo pubblico, seppure oggetto di concessione) o essere asservita a fini ludici, ma non imprenditoriali.
17. Dalla diversa angolazione della tutela del paesaggio, le installazioni in controversia necessitano dell’autorizzazione di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, salvo si tratti di opere di lieve entità, per le quali il d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31, adottato in attuazione dell’art. 12, comma 2, del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 29 luglio 2014, n. 106, come modificato dall’art. 25, comma 2, del d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164, ha previsto l’esonero.
In particolare, alla voce “A.16” dell’allegato A (che ne contempla 31), tra gli interventi “liberi” figura l’occupazione temporanea anche di suolo pubblico o di uso pubblico «mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione, per manifestazioni, spettacoli, eventi o per esposizioni e vendita di merci, per il solo periodo di svolgimento della manifestazione, comunque non superiore a 120 giorni nell’anno solare».
18. L’art. 146, quindi, trova applicazione ogniqualvolta l’installazione travalichi, per durata ovvero, alternativamente o cumulativamente, consistenza, i confini declinati dal d.P.R. n. 31 del 2017.
19. In tale quadro ordinamentale a regime si è poi inserita la legislazione emergenziale legata alla pandemia da Covid-19.
19.1. Sull’assunto che fornendo maggiori spazi si sarebbe potuto garantire il prescritto distanziamento sociale senza ulteriormente penalizzare gli operatori del settore, già duramente colpiti dalle misure restrittive adottate, si è infatti introdotta una deroga di portata assai più generale tanto dal titolo edilizio che dall’autorizzazione paesaggistica, seppure in via eccezionale e temporanea.
L’art. 181 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito dalla l.17 luglio 2020, n. 77 (c.d. decreto “Sostegni”), ha dunque stabilito che:
«3. Ai soli fini di assicurare il rispetto delle misure di distanziamento connesse all’emergenza da COVID-19, e comunque non oltre il 31 dicembre 2020, la posa in opera temporanea su vie, piazze, strade e altri spazi aperti di interesse culturale o paesaggistico, da parte dei soggetti di cui al comma 1 [pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, n.d.r.], di strutture amovibili, quali dehors, elementi di arredo urbano, attrezzature, pedane, tavolini, sedute e ombrelloni, purché funzionali all’attività di cui all’articolo 5 della legge n. 287 del 1991 [di somministrazione di alimenti e bevande, n.d.r.], non è subordinata alle autorizzazioni di cui agli articoli 21 e 146 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
4. Per la posa in opera delle strutture amovibili di cui al comma 3 è disapplicato il limite temporale di cui all’articolo 6 comma 1, lettera e-bis), del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380».
19.2. Il relativo termine è stato poi differito al 31 dicembre 2021 con l’art. 9- ter del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176, indi al 31 dicembre 2022 dall’art. 40 del d.l. 23 settembre 2022, n. 144, convertito dalla l. 17 novembre 2022, n. 175, infine al 30 giugno 2023 dall’art. 1, comma 815, della l. 29 dicembre 2022, n. 197, legge di bilancio 2023 (con quanto ne consegue in termini di verifica della necessità di fruire dello spazio esterno, secondo l’incipit delle norme prorogate, «Ai soli fini di assicurare il rispetto delle misure di distanziamento connesse all’emergenza da COVID-19»).
20. E’ evidente, peraltro, che la disciplina de qua - cui del resto nessuna delle parti ha inteso fare richiamo - si riferisce, per sua esplicita previsione, alle richieste di rilascio o di rinnovo presentate a far data dall’entrata in vigore del primo decreto legge (d.l. n. 34 del 2020), e non può quindi retroagire rispetto a procedimenti incardinati sulla base della previgente normativa, dando adito (in questa non ammessa ipotesi) ad una implicita, quanto inammissibile, sanatoria degli eventuali abusi commessi in ragione del mancato rispetto delle regole vigenti ratione temporis.
20.1. La disposizione assume tuttavia interesse in quanto per la prima volta eleva a livello di legislazione primaria il termine «dehors», seppure limitatamente al suo inserimento in un’elencazione esemplificativa riferita anche ad altri «elementi di arredo urbano»: tutti comunque accomunati dall’essere strutture «temporanee» e «amovibili», nonché «funzionali» all’attività di somministrazione di alimenti e bevande (sulla distinzione tra “facile rimozione” e temporaneità si veda quanto chiarito di recente da Cons. Stato, sez. VII, 30 dicembre 2022, n. 11175).
21. Nel caso di specie, peraltro, come meglio esplicitato nel prosieguo, la parte intenderebbe sanare, anche dal punto di vista paesaggistico, il mantenimento di una struttura, le cui caratteristiche originarie (chiusura sui tre lati aperti con appositi infissi, in appoggio al muro perimetrale dell’edificio ospitante il pubblico esercizio per il lato residuo), quand’anche se ne fosse limitata l’incidenza sul suolo ai pochi mesi assentiti in base al regolamento comunale, già avrebbero dovuto sollevare non pochi dubbi in ordine alla riconducibilità per consistenza al genus degli interventi di edilizia libera. Tanto più che - rileva ancora il Collegio – l’istanza di sanatoria, oltre che priva di indicazioni precise sulla dimensione dell’opera (della quale allega tuttavia eloquente rappresentazione fotografica) e sui materiali, nulla dice in ordine alla futura, ulteriore ipotizzata permanenza, con ciò lasciando astrattamente presagire finanche una sua durata ad libitum, ovvero ben oltre il termine di cinque anni di cui alla s.c.i.a. del 22 novembre 2016.
22. Va ora ricordato che l’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, nella sua stesura originaria, prevedeva (comma 10, lettera c) quale regola generale il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma, affermando che il titolo in questione non poteva essere rilasciato «in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi». Con il d.lgs. n. 157/2006 (c.d. primo correttivo ambientale) la materia è stata profondamente innovata, stemperando la tassatività di tale divieto assoluto, peraltro già messo in discussione da parte della dottrina, quanto meno con riferimento alle opere realizzate nel periodo transitorio ex art. 159. La novellata formulazione del comma 12 dell’art. 146 ha infine ribadito ridetto divieto, ma solo «fuori dai casi di cui all’ articolo 167, commi 4 e 5». Il successivo d.lgs. 63/2008 ha confermato tale impostazione - tuttora vigente – semplicemente spostando la clausola di rinvio al comma 4.
22.1. Il comma 4 dell’art. 167 consente dunque di sanare i soli interventi minori espressamente individuati, alcuni dei quali consistenti in difformità da un precedente titolo (che non abbiano comportato aumento di superfici o volumi legittimamente realizzati -lett. a - ovvero l’impiego di materiali in difformità da quelli assentiti -lett. b), altri in interventi ex novo (che egualmente non devono aver determinato aumento di volume o superficie -lett. a), primo periodo), ovvero configurino mera manutenzione ordinaria o straordinaria -lett. c).
22.2. Nessuna di tali ipotesi è da ritenersi sussistente nel caso di specie, vuoi perché l’istanza di sanatoria costituiva la prima richiesta di un titolo paesaggistico da parte della Società, che dunque non poteva avere agito in difformità dalla stessa, vuoi perché la struttura, comunque la si voglia denominare, ha prodotto superficie e volume e laddove l’intervento si fosse concretizzato nella mera manutenzione ordinaria o straordinaria di un manufatto irrilevante sotto il profilo edilizio e ambientale, non sarebbe stata necessaria alcuna legittimazione postuma.
23. La giurisprudenza amministrativa e penale ha da sempre tentato di chiarire, in maniera adeguata, i connotati dell’opera amovibile e temporanea, come tale non necessitante di titolo edilizio.
Ancor prima dell’avvenuta introduzione della lettera e-bis nel comma 1 dell’art. 6 del T.u.e., oltre che al fattore tempo, si dava rilievo, piuttosto che all’aspetto strutturale dell’opera nella sua composizione materiale (ovvero unitamente allo stesso) a quello funzionale, che impone di valutare se il manufatto, pur costruito con impiego di materiali leggeri e non incardinato al suolo, sia o meno destinato ad un utilizzo temporaneo e per sopperire ad esigenze contingenti, dando rilievo non alla volontà dell’autore dell’opera, bensì alla sua fisiologica finalizzazione (al riguardo, v. Cons. Stato, sez. VI, 1 aprile 2016, n.1291, sulla vicenda delle roulottes o case mobili, ora disciplinate dall’art. 3, comma 1, lett.e.5, che codificando un principio di individuazione pretoria, “liberalizza” la relativa installazione al di fuori di strutture ricettive all’uopo autorizzate, solo ove il fabbricato sia destinato, appunto, a soddisfare esigenze meramente temporanee).
23.1. Il venir meno di tale precarietà, intesa in un’accezione che è nel contempo temporale, funzionale e costruttiva, travalica nell’abuso edilizio dell’avvenuta realizzazione di una nuova costruzione sine titulo. Il riscontro negativo, cioè, circa la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 6, comma 1, lett. e-bis), presuntivamente riconducibile anche al superamento della predeterminata stagionalità (180 giorni di permanenza, comprensivi di montaggio e smontaggio, a fini edilizi, a fronte dei 90, a fini paesaggistici) implica una sicura trasformazione del territorio con aumento del carico urbanistico.
24. D’altro canto, per quanto ambigua e evanescente possa apparire la richiesta di sanatoria della Società, essa ha ad oggetto «una struttura temporanea e precaria annessa all’attività commerciale […] secondo il Regolamento comunale n. 12 del 06.03.2009, ripubblicato il 17.03.2009». Di fatto, cioè, riallacciandosi ad un qualcosa che preesiste da tempo, contraddice per tabulas la rivendicata “temporaneità” e “precarietà” per come declinate dalla giurisprudenza amministrativa e penale poc’anzi ricordata.
24.1. Appare quindi chiara la semplificazione argomentativa operata dal primo giudice e contestata dall’Amministrazione appellante, non potendo la vicenda essere definita sul solo assunto del mancato rispetto delle scansioni procedimentali contenute negli artt. 146 e 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, non a caso promiscuamente richiamati, a prescindere dal suo sotteso inquadramento fattuale e giuridico.
24.2. La tipologia di illecito che si consuma laddove la tendenziale stabilità, ovvero la sostanziale durevolezza, di un manufatto subentri alla sua originaria precarietà e temporaneità, colloca la controversia all’esterno delle complesse problematiche di corretto inquadramento della tematica del silenzio o del tardivo esercizio del potere da parte della Soprintendenza - oggetto di dibattito sulla natura cogestoria o meno del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, in particolare avuto riguardo all’an e al quomodo dell’applicazione degli istituti di cui agli artt. 17-bis, nonché, da ultimo, 2, comma 8-bis, della legge n. 241 del 1990, pure introdotto dalla l. n. 120 del 2020. Ciò in quanto la colloca a monte della fase di sviluppo e definizione del procedimento, ovvero al momento della necessità della sua stessa attivazione.
25. Nel disciplinare il rapporto tra Amministrazione competente al rilascio dell’autorizzazione (la Regione, ovvero, come nel caso di specie, su delega della stessa, i Comuni) e Soprintendenza, l’art. 146 prevede espressamente che quest’ultima si esprima entro il termine di 45 giorni dalla ricezione degli atti, essendo altresì onerata dell’inoltro del preavviso di diniego ove intenda farlo in senso negativo (comma 8). «Decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione».
26. Dal canto suo, il secondo periodo del comma 5 dell’art. 167 prevede a sua volta che «L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni».
26.1. Assimilando di fatto le due fattispecie, la giurisprudenza -richiamata anche dal primo giudice- ha per lo più ritenuto (pure dopo l’ultima novella dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990) che lo spirare del termine non esaurisca il potere della p.a. di pronunciarsi, ma ne dequoti il contenuto a mero “suggerimento”, sicché l’Autorità competente al rilascio dell’autorizzazione può tenerne conto, ma non ne è vincolata, dovendosi determinare autonomamente sull’impatto dell’opera sul paesaggio (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV, 27 luglio 2020, n. 4765; idem, 29 marzo 2021, n. 2640 e 7 aprile 2022, n. 2584).
27. E’ di tutta evidenza che, pur accedendo a tale tesi, essa attiene al merito valutativo e non può essere estesa alle ipotesi in cui lo stesso non venga neanche attinto, essendosi il Comune omologato ad un’indicazione che avrebbe dovuto assumere ab origine autonomamente, in quanto riveniente direttamente dalla legge.
27.1. L’obbligo di motivare autonomamente il diniego del titolo paesaggistico, cioè, non può che riguardare il contenuto del giudizio, ovvero la ritenuta attitudine dell’intervento ad incidere permanentemente sui valori paesaggistici, la cui rilevanza assume una valenza superiore a quella meramente estetica, tradizionalmente limitata alla visione panoramica e alla percezione “empirica” delle opere.
Quanto detto ricorre a maggior ragione tenuto che - rispetto alla previgente disciplina, contenuta nell’art. 7 della legge n. 1497 del 1939 - l’attuale persegue sicuramente una protezione più ampia, non riferibile ai soli singoli immobili dotati di particolare pregio o rilevanza estetica, approntando una strumentazione giuridica finalizzata alla salvaguardia del complesso di interessi che sono considerati manifestazione di valore identitario, di sedimentazione culturale, attrattività turistica e riferimento di un territorio, derivanti da interventi antropici e naturali, nonché dalla loro interazione.
28. Laddove tuttavia a tale merito neppure si arrivi perché la norma non consente di superare la barriera di ammissibilità della domanda stessa, l’atto, che assume contenuto vincolato e portata necessitata, ben può limitarsi a riferire quanto chiarito dalla Soprintendenza e (tardivamente) condiviso dal Comune di Ginosa.
La prima infatti, pronunciandosi solo dopo che «il Comune ha dichiarato che non esiste alcuna documentazione in merito né sussiste alcuna riconducibilità delle opere abusive ad una delle tre casistiche riportate negli artt. 167 e 181 del d.lvo. 42/2004» (così testualmente nel preavviso di diniego), si è limitata ad esplicitare l’insussistenza dei presupposti di legge, che in quanto tali non richiedevano certo particolari “aggiunte” da parte dell’Ente territoriale.
29. Quanto detto consente di non scrutinare la doglianza in ordine alla tardività del parere della Soprintendenza -peraltro neppure contestata dalla difesa erariale- , stante che il primo giudice ha inteso ancorarla al mero dato formale della decorrenza del termine dall’inoltro della pratica ovvero della prima, laconica, integrazione alla stessa, senza valutare se gli elementi forniti erano sufficienti finanche ad un corretto inquadramento giuridico della fattispecie.
E’ opinione consolidata in giurisprudenza, dalla quale non è ragione di dissentire, quella in forza della quale il termine di formazione del silenzio significativo non decorre laddove l’istanza di parte sia talmente lacunosa da farla qualificare inesistente.
30. L’avvenuta installazione da parte della Società di un manufatto chiuso su tutti i lati, destinato a permanere per anni su suolo pubblico per espressa volontà del titolare (v. il contenuto della s.c.i.a del novembre 2016), travalicando da subito i limiti dell’art. 6, comma 1, lett. e-bis, del T.u.e., imponeva la richiesta e, ove sussistenti i presupposti, il rilascio, oltre che di titolo edilizio, anche di autorizzazione paesaggistica, non a caso chiesta ad integrazione della pratica originaria dalla Soprintendenza al Comune di Ginosa.
31. Di ciò era del resto consapevole lo stesso Comune di Ginosa nel momento in cui, preso atto del mancato smantellamento del dehor (accertamento dei vigili urbani del 12 marzo 2018), ha avviato, seppure in maniera anomala, il procedimento sanzionatorio, senza tuttavia dare seguito alla diffida del 14 marzo 2018, e dunque adottando la preannunciata ingiunzione a demolire che l’istanza di sanatoria, proprio in quanto inammissibile, non avrebbe dovuto neppure sospendere, in tal modo determinando la persistenza pluriennale di un manufatto che non avrebbe dovuto né sorgere né essere mantenuto ove collocato.
32. La riscontrata insussistenza delle condizioni pregiudiziali di sanabilità di cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004 rendeva infatti in radice superfluo e precluso in limine l’accertamento di merito paesaggistico; cosicché il Comune di Ginosa, anche al fine di evitare inutili aggravi procedimentali, ben avrebbe potuto arrestare il proprio apprezzamento a tale profilo, senza alcun coinvolgimento della Soprintendenza.
A fronte, cioè, di opere diverse da quelle indicate nella norma, le autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria (Cons. Stato, Sez. VI, 19 ottobre 2020, n. 6300), con conseguente superfluità perfino dell’acquisizione del parere della Soprintendenza (v. Cons. Stato, Sez. VI, 12 ottobre 2022, n. 8713 che richiama Cons. Stato, Sez. I, parere n. 1305 del 29 aprile 2019). «Ciò è strettamente connesso con la particolare rilevanza costituzionale dal legislatore attribuita ai beni ambientali, in quanto la garanzia degli stessi non sarebbe solo fine a sé stessa, ma anche strumentale alla preservazione di beni fondamentali come la salute e la vita. Nel confronto tra interesse pubblico all’utilizzazione controllata del territorio e interesse del privato alla sanatoria deve, quindi, ritenersi senz’altro prevalente l’interesse pubblico a che lo stato dei luoghi sia ripristinato» (Cons. Stato, Sez. II, 24 giugno 2020, n. 4045).
33. D’altro canto, la disciplina del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica è comunque riconducibile in termini generali all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, rubricato, appunto, «Autorizzazioni», ferme restando le specificità di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 167.
33.1. Come la Sezione ha già avuto modo di ricordare (Cons. Stato, sez. II, 18 luglio 2022, n. 6180), l’art. 146 prevede che l’amministrazione competente, una volta ricevuta l’istanza, verifichi preliminarmente la necessità del titolo, accertando che non si versi in quelle tipologie di interventi per i quali l’art. 149, comma 1, la esclude (art. 146, comma 7).
Il controllo, sotto il profilo formale, che la documentazione allegata all’istanza sia conforme a quanto prescritto dal comma 3 dell’art. 146 (e quindi dal d.P.C.M. 12 dicembre 2005, attuativo della norma primaria), sopraggiunge in una fase successiva e può comportare la richiesta all’interessato, in caso di rilevata carenza e/o insufficienza di quanto prodotto, delle opportune integrazioni utili al fine dell’effettuazione degli «accertamenti del caso». In concreto quindi essa è chiamata a verificare «la conformità dell’intervento proposto con le prescrizioni contenute nei provvedimenti di dichiarazione di interesse pubblico e nei piani paesaggistici».
34. In sintesi, laddove l’intervento per il quale è richiesto il titolo sia precluso in assoluto, il procedimento deve arrestarsi ad una fase preliminare rispetto al vero e proprio giudizio di compatibilità paesaggistica. Invero il senso fatto proprio dal tenore letterale delle parole, che impone «gli accertamenti del caso» in funzione del rispetto della regolamentazione vincolistica, implica innanzi tutto uno screening preventivo destinato a sfociare in un immediato rigetto laddove più approfondite valutazioni di merito si palesino del tutto superflue, per la radicale inammissibilità tipologica dell’attività edilizia: ciò del resto risponde a elementari ragioni di economia procedimentale che impongono di non onerare inutilmente la Soprintendenza di un’attività priva di qualsiasi utilità, allorquando non sussista alcuna possibilità di realizzare, ovvero, per quanto qui di interesse, di sanare, alcunché.
35. Per tutto quanto sopra detto, l’appello deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza del T.a.r. per la Puglia, sede di Lecce, sez. I, del 28 marzo 2022, n. 515, deve essere respinto il ricorso di primo grado n.r.g. 967 del 2021.
36. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza del T.a.r. per la Puglia segnata in epigrafe, respinge il ricorso di primo grado.
Condanna la Società Gelateria Lucarelli di Lucarelli Luigi & c. s.n.c. al pagamento delle spese di giustizia che liquida in complessivi euro quattromila/00 (4.000,00), oltre accessori, di cui euro duemila/00 (2.000,00) a favore del Ministero della Cultura ed euro duemila/00 (2.000,00) a favore del Comune di Ginosa.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.