Svolgimento del processo
1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano, in data 19 novembre 2019, nei confronti di E.P., con la quale questi è stato condannato per la contravvenzione di cui all'art. 699 cod. pen., con riferimento a più armi e, segnatamente, coltelli del tipo "molletta" a doppio filo di lama, bombolette spray urticanti, baionette, tirapugni, manganelli telescopici, taser e storditori elettrici dettagliatamente indicati nella imputazione.
A ragione dell'articolata e conforme decisione, i giudici di merito - dopo aver ricordato che gli oggetti in imputazione erano stati sequestrati a seguito di un controllo del banco di vendita dell'imputato, commerciante ambulante, presso una fiera locale, siccome estranei al contenuto dell'autorizzazione, pur detenuta, a vendere strumenti da punta e taglio -procedevano ad approfondito esame delle dichiarazioni del teste verbalizzante e della visione diretta dei corpi di reato oltre che delle relative foto versate in atti e giungevano alla conclusione dell'affermazione di responsabilità di E.P. per la contravvenzione di vendita ambulante di armi.
2. Ricorre per cassazione E.P., a mezzo del proprio difensore, e denuncia tre motivi.
2.1. Con il primo lamenta violazione di legge in punto di qualificazione quale arma propria degli storditori elettrici, dei manganelli telescopici, del tirapugni e della bomboletta spray urticante, siccome privi delle caratteristiche necessarie secondo la piana lettura dell'art. 4 I. n. 110 del 1975.
2.2. Con il secondo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla qualificazione giuridica di armi con riferimento ai coltelli del tipo "molletta" e delle baionette.
Quanto ai primi, denuncia la mancanza del doppio filo di lama (presente, invece, e solo parzialmente), che impedirebbe l'equiparazione ai pugnali o agli stiletti.
Quanto alle seconde, ribadisce come l'istruttoria dibattimentale abbia provato che si tratta di riproduzioni ad uso scenico, prive dell'innesco su armi da fuoco e, come tali, da considerare alla stressa stregua dei coltelli e, poiché prive del doppio filo di lama, non rientranti nel novero delle armi bianche da punta e taglio.
2.3. Con il terzo motivo denuncia vizio di motivazione in punto di mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena.
Il provvedimento impugnato pone a fondamento nel diniego delle circostanze attenuanti generiche il numero delle armi, senza tenere conto che la maggior parte degli strumenti originariamente sequestrati è stata restituita al ricorrente perché si trattava di strumenti di lecita detenzione. Ugualmente irragionevole è il giudizio prognostico sfavorevole in ordine a una possibile ricaduta nel delitto, che si trae dalla professione esercitata, di per sé lecita, nonostante l'assenza di precedenti condanne.
3. Il Sostituto Procuratore generale, con conclusioni scritte, ha chiesto la declaratoria d'inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso deduce censure infondate e, come tale, deve essere rigettato.
2. Non è superfluo premettere - al fine di delibare le doglianze del ricorrente - che agli effetti dell'art. 696 cod. pen. devono intendersi per armi, a norma del successivo art. 704 cod. pen. (che rinvia all'art. 585 cod. pen., punto 1 del primo capoverso), quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l'offesa alla persona, definizione ribadita dall'art. 30 r.d. 18 giugno 1931, n. 773, (T.U.P.S.) ed esemplificativamente specificata nel relativo regolamento, all'art. 45 r.d. 6 maggio 1940, n. 635, con riferimento a «pugnali, stiletti e simili».
In sede di legittimità si è, poi, chiarito che, mentre la vendita ambulante delle armi da sparo è sempre vietata e soggetta alle sanzioni previste dall'art. 696 c.p., quella degli strumenti da punta e taglio integra la contravvenzione suddetta «solo se concerne oggetti definibili come armi, cioè oggetti naturalmente destinati all'offesa alla persona, qualità che deve essere verificata dal giudice di merito» (Sez. 1 n. 22519 del 08/06/2006, Nasri, Rv. 234641).
2.2. Va altresì ricordato che sono "armi" tutti gli strumenti atti a offendere e che, sono, naturalmente, destinati a recare un'offesa o un danno ad altro soggetto.
All'interno della categoria si suole distinguere tra armi bianche e quelle da / fuoco.
Le prime comprendono tutti gli strumenti atti a offendere che possono, C
provocare ferite per mezzo di punte (come pugnali e baionette), forme contundenti (manganelli) o lame di metallo (sciabole, spade, katane, ecc.). Nella categoria rientrano, altresì, quelle che permettono di scagliare altri oggetti (archi, balestre, cerbottane o c.d. armi da lancio). In generale, le armi bianche, sfruttano solo la forza di chi le impugna e la potenzialità lesiva dell'oggetto.
Le armi da fuoco, invece, sono strumenti atti a offendere che sfruttano il particolare meccanismo costruttivo, basato sull'esplosione o sulla deflagrazione. Esse integrano la categoria delle classiche armi da sparo e utilizzano, dunque, una peculiarità di tipo esplosivo (pistole, bombe, fucili, ecc.).
Vi è poi la differenza tra armi proprie e improprie, laddove queste ultime a differenza delle prime, possono essere qualificate come strumenti idonei a offendere, ma non hanno, in via esclusiva e per destinazione naturale, quello scopo, né sono state ideate e realizzate per quella finalità.
Si possono definire improprie, allora, le armi che, per loro natura, non sono destinate all'offesa della persona, pur potendo, tuttavia, nuocere, se utilizzate in maniera pericolosa; si pensi a cacciaviti, martelli, asce, trapani, catene, tubi di ferro ovvero qualsiasi strumento che, pur non avendo come naturale destinazione l'offesa, può essere utilizzato anche con quel fine.
La distinzione indicata è stata tracciata dalla giurisprudenza di legittimità che ha affermato che, in tema di reati concernenti le armi, per arma in senso proprio deve intendersi quella la cui destinazione naturale è l'offesa alla persona; e che rientrano in tale categoria, secondo gli artt. 30 T.U.L.P.S. e 45, comma primo, del relativo regolamento, sia le armi da sparo che quelle cosiddette bianche. Sono invece armi improprie quelle che, pur avendo una specifica diversa destinazione, possono tuttavia servire all'offesa personale, secondo le indicazioni date dall'art. 4 legge 18 aprile 1975 n. 110.
Delle armi proprie in genere è vietata la detenzione non previamente denunciata all'autorità di pubblica sicurezza; delle armi improprie è vietato solo il porto, non anche la detenzione. (Sez. 1, n. 14953 del 17/03/2009, Gebril, Rv. 243917; Sez. 1, nr. 3377 del 22/02/1995, Scalmana, Rv. 200698).
3. In detta cornice, ritiene il Collegio che la qualificazione giuridica di ciascuna delle categorie di strumenti oggetto d'imputazione, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, per vero con doglianze meramente reiterative di pedissequi motivi di appello, è corretta e che la condotta del ricorrente è stata a ragione ritenuta integrare la contravvenzione di cui all'art. 696 cod. pen.
3.1. Seguendo l'ordine delle censure difensive, è infondato il primo motivo di ricorso.
Tutti i dissuasori elettrici oggetto d'imputazione - come risulta dalle risultanze di prova, ivi compresa la relazione di consulenza di parte - sono della tipologia del tipo taser, ovverosia funzionanti con elettrocuzione a distanza (da distinguersi dai dissuasori o storditori stungun che, invece, necessitano di essere materialmente posti a contatto con il soggetto che s'intende colpire).
Ebbene il taser è certamente arma comune da sparo, «trattandosi di dispositivo che ha il funzionamento tipico di tali armi e che, lanciando piccoli dardi che a contatto con l'offeso scaricano energia elettrica, è sicuramente idoneo a recare danno alla persona» (Sez. 2, n. 49325 del 25/10/2016 Calabrice, Rv. 268364; Sez. 1, n. 5830 del 7/11/2018, dep. 2019, Allerino, non mass.).
Secondo l'art. 2,comma 3,della Legge n, 110 del 1975 sono armi comuni da sparo le armi ad aria compressa, i cui proiettili erogano un'energia cinetica superiore a 7,5 joule, nonché gli strumenti lanciarazzi, non destinati alla pesca ed alla caccia, dei quali non sia stata esclusa la idoneità a recare offesa alla persona. La norma consente, dunque, d'inquadrare come arma comune da sparo ogni dispositivo che esplode proiettili dotati di una significativa energia cinetica, nonché i dispositivi lanciarazzi idonei a recare danno alla persona. Mentre la capacità del proiettile di recare danno dipende dall'energia cinetica erogata, diversamente i dispositivi lanciarazzi si presumono idonei all'offesa salvo che tale capacità non sia stata espressamente esclusa dall'autorità competente (Banco nazionale di prova). Il taser (con sistema di lancio ad aria compressa o a innesco elettrico) lancia appunto piccoli dardi, o razzi, che a contatto con la persona ne producono la temporanea immobilizzazione con effetti più o meno imponenti sul sistema cardiaco. È un dispositivo la cui idoneità a recare danno non dipende dall'energia cinetica dei dardi, essendo l'idoneità all'offesa dipendente dalla scarica elettrica; conseguentemente, per l'inquadramento del taser come arma comune da sparo non è necessario che venga misurata l'energia cinetica di emissione del dardo, ma solo che - come nel caso di spede - non sia stata esplicitamente esclusa la sua idoneità all'offesa.
Di ciò è conferma nella citata legge n. 110 del 1975 che, all'art. 4, comma 1, dispone che «Salve le autorizzazioni previste dal terzo comma dell'art. 42 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni, non possono essere portati, fuori dalla propria abitazione o delle appartenenze di essa, armi, mazze ferrate o bastoni ferrati, sfollagente, noccoliere, storditori elettrici e altri apparecchi analoghi in grado di erogare una elettrocuzione».
Il ricorrente, rispetto alla motivazione dei giudici di merito che ha fatto buon governo dei principi suindicati, si è limitato a replicare in modo generico e assertivo le medesime considerazioni svolte con l'atto di appello, lamentando il mancato espletamento da parte del giudice di secondo grado di una perizia relativa alle caratteristiche costruttive di detti strumenti e dimenticando che tale ultimo dato risultava pacificamente oltre che dalle risultanze istruttorie, anche dalla stessa consulenza della difesa, versata in atti.
3.2. Del pari generiche e meramente reiterative delle argomentazioni svolte in sede di appello, adeguatamente vagliate e superate dalla Corte territoriale con motivazione rispettosa degli approdi giurisprudenziali in materia, sono le censure aventi a oggetto i manganelli telescopici e i tirapugni.
Quanto ai primi - pacificamente rinvenuti sul banco di vendita - deve richiamarsi la sentenza di primo grado che, nell'affermarne la natura di arma tra quelle indicate nell'art. 4, comma primo, della legge n. 110 del 1975, ha - con motivazione non manifestamente illogica - escluso che il mal funzionamento del meccanismo di apertura e chiusura rilevato dal consulente della difesa in alcuni degli oggetti sequestrati e la scarsa qualità del materiale per quelli in plastica potessero incidere sulla potenzialità offensiva degli stessi, anche alla luce della diretta verifica svolta dal Giudice in occasione dell'apertura del corpo di reato.
Si tratta di una motivazione che si pone in perfetta coerenza con il principio espresso in sede di legittimità (Sez.1 n. 21780 del 20/07/2016, dep. 2017, Mazzi, Rv. 270263) secondo cui «Il "manganello" o "sfollagente" è esplicitamente compreso tra le armi indicate nell'art. 4, comma primo, della legge n. 110 del 1975 di cui è vietato il porto, salvo le autorizzazioni previste dall'art. 42 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, in quanto strumento la cui destinazione naturale è l'offesa alla persona. (Fattispecie relativa al porto di un manganello telescopico della lunghezza complessiva di cm. 53)». In motivazione la Corte ha spiegato che «Contrariamente a quanto pure affermato da questa Corte (Sez. 1, n. 9705 del 30/06/1992 Elmi, Rv. 191882; Sez. 1, n. 6100 del 03/05/1984, Fabbi, Rv. 165069) va quindi data continuità, ad avviso del Collegio, anche in considerazione della naturale evoluzione della lingua quale registrata dai più autorevoli esperti di linguistica e filologia della lingua italiana, all'opposto orientamento giurisprudenziale (Sez. 1, n. 5852 del 23/01/1978, Andreotti, Rv. 138978)1 secondo cui "Il manganello o sfollagente è esplicitamente compreso tra le armi e gli strumenti ad esse assimilati indicati nel primo comma dell'art 4 della legge n 110 del 1975 sul controllo delle armi e per i quali è dalla legge vietato il porto, salvo le autorizzazioni previste dal terzo comma dell'art. 42 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Detti strumenti, la cui destinazione naturale e l'offesa alla persona, sono tenuti distinti dalla legge dagli altri oggetti, che, pur avendo normalmente una specifica e diversa destinazione, possono occasionalmente servire all'offesa e che attualmente trovano la loro disciplina nel secondo comma del predetto articolo 4, il quale ha ampliato la casistica dell'art 42, secondo comma, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza".
Quanto al tirapugni - pacificamente in metallo quello rinvenuto esposto per la vendita - si tratta di uno strumento che ha naturale e oggettiva finalità di offesa e che, ove impiegato, il suo utilizzo è funzionale solo a incrementare lo spessore lesivo che deriva da un colpo o un'azione violenta. Per detta qualità, dev'essere annoverato tra le armi proprie, nella categoria di quelle bianche, che sfruttano abilità e forza fisica individuale per recare offesa e/o produrre lesioni.
Da ciò discende che allorquando - come nel caso che ci occupa - il tirapugni sia in metallo e abbia le caratteristiche anzidette è un'arma che ha destinazione naturale di offesa contro le persone (Sez. 1 n. 23840 del 13/01/2021, Brassi, Rv. 281398; Sez. 1, n. 2776 del 16/11/1993, dep. 1994, De Palo, Rv. 196794; Sez 1 n. 3377 del 28/3/1995 Scalmana, Rv. 200698; Sez 1 n. 8 del 11/3/1992, Boriosi, Rv 191121).
Da quanto premesso discende l'infondatezza del motivo di ricorso sul punto.
3.3. Come già rilevatp dalla Corte territoriale, errate in diritto sono le deduzioni difensive in temlrapporti tra norme primarie e norme regolamentari in tema di bomboletta spray contenenti sostanze urticanti.
In sede di legittimità è principio pacifico, cui i giudici del merito si sono attenuti, quello secondo cui «Integra la contravvenzione di porto abusivo di armi, di cui all'art. 699 cod. pen., il porto in luogo pubblico di una bomboletta contenente spray urticante a base di o/eoresin capsicum che non rispetti le caratteristiche stabilite dal decreto ministeriale 12 maggio 2011 n. 103» (Sez. 1, n.57624 del 29/09/2017, Greco, Rv. 271901). In motivazione la Corte - dopo aver passato in rassegna i precedenti non univoci orientamenti in tema di bombolette contenenti spray urticanti - ha posto in rilievo come, in tempi più recenti, si sia registrata una diversa linea interpretativa alla luce delle norme regolamentari introdotte dal D.M. 12 maggio 2011, n. 103, per la quale la bomboletta contenente spray urticante a base di peperoncino, in particolare contenente l'oeoresin capsicum, principio estratto dalle piante di peperoncino, non è compresa né tra le armi da guerra o tipo guerra, né tra quelle comuni da sparo e la condotta di porto non integra il delitto previsto dall'art. 4 della legge 2 ottobre 1967, n. 895, e succ. modif., (sez. 1, n. 3116 del 24/10/2011, Cantieri, Rv. 251825; sez. 1, n. 14807 del 07/01/2016, Delmastro, rv. 267284; sez. 1, n. 19411 del 09/03/2017 Sacco e Sez. 1, n. 19412 del 09/03/2017, Vailatti, entrambe non massimate), né la fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 699 cod. pen.
Ciò premesso, ritiene il Collegio di dover dare seguito a tale orientamento e / che la soluzione al tema di diritto sollevato dalla difesa debba partire dal dato fattuale della natura e delle caratteristiche dei dispositivi sequestrati all'imputato,
i quali - come emerso dalle risultanze di prova (etichetta impressa sulle bombolette) - contenevano tutti una soluzione irritante a base di oleoresin capsicum con concentrazione superiore al 10%, oltre ad essere prive del necessario sistema di sicurezza contro l'attivazione incidentale, con conseguente non conformità al d.m. 12 maggio 2011, n. 103.
Detto decreto, recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica», al primo comma, invero, stabilisce che: «l. Gli strumenti di autodifesa di cui all'articolo 2, comma 3, della legge 18 aprile 1975, n. 110, in grado di nebulizzare una miscela irritante a base di oleoresin capsicum e che non hanno attitudine a recare offesa alle persone, devono avere le seguenti caratteristiche: a) contenere una miscela non superiore a 20 ml; b) contenere una percentuale di oleoresin capsicum disciolto non superiore al 10 per cento, con una concentrazione massima di capsaicina e capsaicinoidi totali pari al 2,5 per cento; c) la miscela erogata dal prodotto non deve contenere sostanze infiammabili, corrosive, tossiche, cancerogene o aggressivi chimici; d) essere sigillati all'atto della vendita e muniti di un sistema di sicurezza contro l'attivazione accidentale; e) avere una gittata utile non superiore a tre metri». Il secondo comma della stessa norma, inoltre, prevede: «2. Tutti gli strumenti di autodifesa di seguito denominati prodotti non conformi alle caratteristiche tecniche di cui al comma 1 rimangono disciplinati dalla normativa in materia di armi».
È dunque corretta la motivazione del giudice di appello laddove ha richiamato la testuale previsione di legge che prescrive per i dispositivi contenenti l'oleoresin capsicum la soggezione alla normativa in materia di armi, quando non conformi ai requisiti previsti dal Decreto ministeriale. Trattandosi pertanto di strumenti, che secondo la loro naturale destinazione sono in grado di arrecare offesa alla persona, ancorché temporanea e reversibile, e rispetto alle quali non è consentito ottenere il rilascio della licenza per il porto in luogo pubblico, deve ritenersi che la condotta posta in essere dal ricorrente rientri nell'ambito di applicazione dell'art. 696, comma 2, cod. pen.
3.4. Venendo al secondo motivo di ricorso, nessun vizio di motivazione è dato riscontrare nel ragionamento del provvedimento impugnato in tema di qualificazione quale arma bianca propria dei coltelli e delle baionette rinvenuti nella disponibilità del ricorrente.
Premesso infatti che, «Ai fini della qualificazione di un coltello quale arma propria od impropria, deve farsi riferimento, rispettivamente, alla presenza o alla assenza della punta acuta e della lama a due tagli, tipica delle armi bianche corte, mentre sono irrilevanti le particolarità di costruzione dello strumento» (Sez. 1, n. 17255 del 01/04/2019, Naccarato, Rv. 275252), si rileva che, proprio sulla scorta della descrizione fatta dal consulente della difesa oltre che della diretta visione da parte del Giudice di primo grado del corpo di reato, è stato possibile verificare che detti strumenti erano dotati di punta acuta e doppio filo, sebbene su uno dei due lati non completo, ma esteso fino alla metà della lama; tali caratteristiche sono necessarie e sufficienti a far ritenere i coltelli di cui si tratta armi bianche, per l'attitudine di assumere le caratteristiche di un pugnale o di uno stiletto.
Analoghe considerazioni valgono per ciò che riguarda le baionette, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, risalente a Sez. U, n. 11137 del 24/11/1984, Bottin, Rv. 167101, ma recentemente ribadito (Sez. 1, n. 21303 del 21/09/2016, Galbiati, Rv 269954), alla cui stregua «la baionetta, per la sua autonomia strutturale, costituisce arma bianca in senso proprio e non parte del fucile sul quale può essere innestata».
Sul punto il ricorso, che lamenta il difetto di prova in ordine alla natura di arma degli strumenti rinvenuti nella disponibilità di E.P., è inammissibile per aspecificità, poiché non si confronta con l'articolata motivazione dei giudici di merito che, verificate le caratteristiche costruttive, ne hanno escluso la natura di riproduzioni per uso scenico, rimarcando come l'asserita scarsa qualità della fattura certamente non incide sulla loro potenzialità offensiva.
4. E', infine, infondato il terzo motivo, in punto di diniego delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena.
Entrambi benefici sono stati negati sulla scorta del numero di armi vendute, delle circostanze dell'azione (tentativo di eludere il controllo con riferimento ai taser) e dell'essere il ricorrente sottoposto ad altro procedimento penale per fatti analoghi, nonostante lo stato di formale incensuratezza.
Con tale valutazione i giudice di merito hanno fatto corretta applicazione dei principi secondo cui le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all'imputato in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità a delinquere dello stesso, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (ex multis Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, De Crescenzo, Rv. 281590). Peraltro, la concessione o meno delle attenuanti generiche rientra nell'ambito di un giudizio di fatto, rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l'adeguamento della pena alla gravità effettiva del fatto.
E', infine, giustificato con motivazione non manifestamente illogica altresì il diniego del beneficio della sospensione condizionale della pena, poiché - a fronte dell'elemento di indubbia valenza positiva costituto dalla incensuratezza dell'imputato - i giudici del merito hanno individuato più elementi di segno contrario idonei a neutralizzarla.
5. Alla conclusiva reiezione del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.