L'aver denunciato i comportamenti scorretti dei colleghi non rende immune il lavoratore che ha commesso le medesime violazioni. Lo scudo accordatogli contro eventuali ritorsioni da parte dei colleghi o del datore di lavoro non si trasforma in una esimente per i comportamenti illeciti da lui autonomamente posti in essere.
Un'infermiera presso un'Azienda Ospedaliera era stata sospesa per quattro mesi per aver svolto attività retribuita non autorizzata presso una struttura privata, per circa otto anni, guadagnando quasi 30mila euro.
Proposto gravame, la Corte d'Appello lo rigettava sul rilievo che la disciplina sul c.d. whistleblowing non...
Svolgimento del processo
E.L., infermiera professionale presso l’Azienda Ospedaliera “(omissis)”, è stata sanzionata dal proprio datore di lavoro, con la sospensione per quattro mesi, per avere svolto attività presso ente privato, non autorizzata, per circa otto anni e con introiti non irrisori, assommanti a circa ventottomila euro;
la Corte d’Appello di Roma, confermando la pronuncia di primo grado del Tribunale della stessa città, ha rigettato l’impugnazione di tale sanzione proposta dalla L.;
sul punto decisivo, concernente la disciplina sul c.d. whistleblowing, di cui all’art. 54-bis d. lgs. 165/2001, la Corte territoriale ha ritenuto che la norma non potesse costituire uno scudo generalizzato rispetto agli illeciti del dipendente, al massimo la denuncia potendo costituire esimente in caso di concorso nel medesimo fatto illecito denunciato;
2.
E.L. ha proposto ricorso per cassazione con un motivo, resistito dall’Azienda Ospedaliera; l’Azienda ha depositato memoria;
Motivi della decisione
1. l’unico motivo di ricorso denuncia (art. 360 n. 3 c.p.c.) la violazione ed erronea applicazione dell’art. 54-bis d. lgs. n. 165 del 2001 ed è sviluppato rimarcando l’ampiezza della protezione assicurata dalla norma all’affidamento di chi denunci illeciti su una protezione effettiva ed efficace che eviti conseguenze alla propria partecipazione alla tutela dell’interesse e dell’integrità della Pubblica Amministrazione, funzionale all’emersione dei fenomeno di corruzione e mala gestio;
la ricorrente aggiunge poi che l’unico caso di esclusione della tutela sarebbe quello in cui il comportamento del pubblico dipendente che segnali illeciti integri un ipotesi di calunnia o diffamazione, sicché solo la presenza di dolo o colpa grave nel rendere le informazioni del caso comporterebbe il venir meno della protezione, mentre il giudice di appello, ritenendo che al massimo la denuncia di chi fosse a propria volta responsabile di condotte disciplinarmente rilevanti poteva costituire un esimente rispetto al concorso nel medesimo fatto illecito, aveva introdotto una previsione estranea alla disposizione in sé considerata, come anche all’unica interpretazione possibile di essa, tenuto altresì conto degli indirizzi e della disciplina sovranazionale in materia;
2. il motivo è infondato;
la Corte d’Appello ha preso le mosse dal fatto che la L. si fosse resa responsabile dello svolgimento senza autorizzazione di attività infermieristiche all’esterno dell’organizzazione datoriale, per un lungo periodo pluriennale e che essa aveva sporto denuncia presso il medesimo datore di lavoro, rispetto ad analoghe condotte di altri colleghi;
al di là della questione in ordine all’effettiva applicabilità ratione temporis dell’art. 54-bis (gli illeciti addebitati alla L. risalgono al 2003-2011), va in realtà condivisa, in via assorbente, la soluzione data dalla Corte territoriale a quanto oggetto di causa;
la fattispecie delineata dall’art. 54-bis esclude dal proprio novero le condotte calunniose o diffamatorie (poi, secondo il testo novellato dalla legge n. 179 del 2017, in presenza almeno di colpa grave), per ricomprendere invece le segnalazioni effettuate dal dipendente ai propri superiori di illeciti altrui, con l’effetto di impedire che il medesimo, in ragione di tali segnalazioni, possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misure direttamente o indirettamente discriminatorie aventi effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati in modo diretto o indiretto alla denuncia;
l’applicazione al dipendente di una sanzione per comportamenti illeciti suoi propri resta dunque al di fuori della copertura fornita dalla norma, che non esime da responsabilità chi commetta un illecito disciplinare per il solo fatto di denunciare la commissione del medesimo fatto o di fatti analoghi ad opera di altri dipendenti;
ciò è già nel testo della norma interna, ma anche le fonti internazionali che stanno alla base dell’istituto orientamento nel medesimo senso;
già la Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 116 del 2009, all’art. 33 prevede che gli Stati adottino misure appropriate per proteggere chi segnali illeciti, da qualsiasi «trattamento ingiustificato», tale evidentemente non potendo essere – e non meritando pertanto addirittura “protezione”
– la commissione da parte propria, da soli o in concorso, di autonomi illeciti che nulla hanno a che vedere con tali segnalazioni; la Direttiva (UE) 2019/1937, la cui valenza interpretativa è innegabile, definisce del resto la protezione cui gli Stati membri devono indirizzare i loro interventi (art. 19) nel senso del «divieto di qualsiasi forma di ritorsione»;
essa è dunque finalizzata ad impedire conseguenze sfavorevoli per il fatto in sé di avere segnalato illeciti, ma certamente non costruisce esimenti rispetto agli illeciti che la medesima persona avesse in ipotesi autonomamente ed altrimenti commesso, da sola o in concorso;
evidentemente – come giustamente osserva la Corte territoriale - nulla vieta all’ordinamento di riconoscere eventuali attenuanti oppure, quando possibile, di
profilo della valutazione di proporzionalità, come è normale che sia per il ravvedimento che ciò può dimostrare, ma l’art. 54 bis non riconosce, né lo Stato per quanto sopra detto è tenuto a riconoscere, un’esimente rispetto a tali autonomi illeciti;
pertanto, la tesi della ricorrente non può trovare accoglimento, né risultano agitate questioni rispetto ad una ritorsività del procedimento che la riguarda;
il ricorso va dunque disatteso, con regolazione secondo soccombenza delle spese di giudizio;
può anche esprimersi il seguente principio: «La normativa di tutela del dipendente che segnali illeciti altrui (c.d. whistleblowing) salvaguardia il medesimo dalle sanzioni che potrebbero conseguire a suo carico secondo le norme disciplinari o da reazioni ritorsive dirette ed indirette conseguenti alla sua denuncia, ma non istituisce un esimente per gli autonomi illeciti che egli, da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso, potendosi al più valutare il ravvedimento operoso o la collaborazione al fine di consentire gli opportuni accertamenti nel contesto dell’apprezzamento, sotto il profilo soggettivo, della proporzionalità della sanzione da irrogarsi nei confronti del medesimo».
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.