La Corte d'Appello di Roma respingeva il gravame proposto dall'INPS e confermava la pronuncia con la quale il Tribunale aveva dichiarato il carattere discriminatorio del diniego dell'assegno di natalità alla richiedente poiché priva del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
Contro tale decisione, l'INPS propone ricorso per cassazione, asserendo di non aver posto in essere alcuna condotta antigiuridica per avere applicato la normativa nazionale. In tale contesto, secondo l'INPS non sarebbe coerente l'attribuzione dell'assegno anche a chi si trovi transitoriamente sul territorio della Repubblica.
Con l'ordinanza n. 9305 del 4 aprile 2023, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso, richiamando la recente sentenza n. 54/2022 con la quale la Corte costituzionale ha affermato che la disciplina sull'assegno di natalità nella formulazione applicabile ratione temporis violava gli artt. 3, 31 e 117, comma 1, in relazione all'
L'assegno di natalità, infatti, fronteggia una situazione di bisogno particolare perché è volto a rimuovere gli ostacoli economici e sociali che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza tra i cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona.
Secondo la Consulta, dunque, è irragionevole, oltre che discriminatoria, la scelta di imporre, per fruire della misura, la titolarità del permesso di soggiorno in corso di validità da almeno 5 anni, il possesso di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e la disponibilità di un alloggio idoneo, perché privi di attinenza con la finalità del beneficio.
In ossequio a tale decisione, la limitazione cui l'INPS fa riferimento nel ricorso (la titolarità di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo) è stata ormai rimossa dall'ordinamento, pertanto è priva di efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza n. 54/2022.
Di conseguenza, il ricorso è rigettato.
Svolgimento del processo
1.- Con sentenza pubblicata il 26 febbraio 2020 con il numero 471 del 2020, la Corte d'appello di Roma ha respinto il gravame dell'INPS e ha confermato l'ordinanza del Tribunale della medesima sede, pronunciata ai sensi del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150, art. 28, che aveva dichiarato il carattere discriminatorio del diniego dell'assegno di natalità alla signora A.A., in quanto priva del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
La Corte territoriale ha richiamato della direttiva 2011/98/UE, art. 12 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico: tale previsione riconosce la parità di trattamento nei settori della sicurezza sociale a favore dei cittadini di Paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi o a fini diversi dall'attività lavorativa, se ad essi è consentito lavorare. Ipotesi, quest'ultima, che si ravvisa nel caso di specie.
L'assegno di natalità è qualificabile come prestazione familiare, volta a compensare i carichi familiari e riconducibile al settore della sicurezza sociale, definito dal regolamento (CE) n. 883-2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.
Nè l'Italia ha espresso l'intenzione di avvalersi delle deroghe previste dalla direttiva 2011/98/UE, provvista di "efficacia diretta" quanto all'enunciazione della parità di trattamento. Tale principio è sancito da "una norma chiara e incondizionata, che non richiede alcuna espressa disposizione nazionale per la sua attuazione nell'ordinamento interno.
Anche sull'INPS, in quanto organo della pubblica amministrazione, grava l'obbligo di dare "applicazione diretta delle Direttive autoesecutive". Al fine di escludere la natura discriminatoria della condotta dell'Istituto, non si può invocare "la conformità dell'azione amministrativa alla legge nazionale".
2.- L'INPS ricorre per cassazione contro la sentenza della Corte d'appello di Roma, con atto notificato il 9 luglio 2020 e affidato a un unico motivo.
3.- A.A. non ha svolto in questa sede attività difensiva.
4.- Il ricorso è stato fissato per la trattazione in camera di consiglio dinanzi a questa sezione, in base all'art. 380-bis.1. c.p.c., nella formulazione antecedente alle modificazioni apportate dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, e applicabile ratione temporis al caso di specie, in virtù della disciplina transitoria dettata dall'art. 35, comma 6, del medesimo decreto legislativo.
5.- Il pubblico ministero non ha depositato conclusioni scritte.
Motivi della decisione
1.- L'INPS denuncia violazione e falsa applicazione di numerose disposizioni: la L. 23 dicembre 2014, n. 190, art. 1, commi 125-129; il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 febbraio 2015; gli artt. 4-bis, comma 1-bis, 5, commi 8.1. e 8.2., 9, comma 12, lettera c), del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, 43 e 44, anche in relazione all'art. 12 preleggi; l'art. 12 della direttiva 2011/98/UE; l'art. 3 del regolamento (CE) n. 883-2004.
Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale, in violazione delle disposizioni richiamate, abbia concesso l'assegno di natalità alla signora A.A., pur sprovvista del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, così come prescritto dalla legge.
Anzitutto, all'Istituto non si potrebbe imputare alcuna condotta antigiuridica per aver applicato la normativa nazionale, che attribuirebbe all'assegno di natalità la mera finalità d'incentivare la natalità sul territorio nazionale, senza assicurare la sopravvivenza in relazione ai bisogni essenziali.
All'assegno di natalità, contraddistinto da stringenti limiti di spesa ed estraneo al settore della sicurezza sociale, non si attaglierebbero, pertanto, le considerazioni svolte dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea nella sentenza del 21 giugno 2017, nella causa C-449/16, con riguardo all'assegno al nucleo familiare erogato dai Comuni (L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 65).
L'attribuzione dell'assegno anche a chi si trovi transitoriamente sul territorio della Repubblica non sarebbe coerente con la finalità del beneficio, ragionevolmente riconosciuto solo a chi possa vantare una presenza stabile in Italia. Anche il diritto dell'Unione Europea demanderebbe agli Stati la facoltà di organizzare nella maniera più appropriata i rispettivi regimi di sicurezza sociale e di escludere dall'applicazione del principio di parità di trattamento i cittadini di Paesi terzi che non siano soggiornanti di lungo periodo.
2.- Il ricorso è infondato.
3.- Questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 16169 del 2019, non ha ravvisato i presupposti per la disapplicazione della normativa nazionale per contrasto con la direttiva 2011/98/UE, art. 12 e ha dunque sollevato questione di legittimità costituzionale della L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, in riferimento alla Cost., artt. 3, 31 e 117, comma 1, (quest'ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea), nella parte in cui richiedeva ai soli cittadini extracomunitari, ai fini dell'erogazione dell'assegno di natalità, la titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, anzichè la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno.
4.- Con sentenza n. 54 del 2022, il giudice delle leggi, dopo aver esperito rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, nella formulazione applicabile ratione temporis al caso di specie e antecedente alle modificazioni introdotte dalla L. 23 dicembre 2021, n. 238, art. 3, comma 4.
La Corte costituzionale ha affermato che la disciplina dell'assegno di natalità confligge con la Cost., artt. 3, 31 e 117, comma 1, in relazione all'art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, "nella parte in cui esclude dalla concessione dell'assegno di natalità i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell'Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall'attività lavorativa a norma del diritto dell'Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030 del 2002 del Consiglio, del 13 giugno 2002, che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi terzi".
5.- La pronuncia richiamata ha puntualizzato che l'assegno di natalità sovviene "a una peculiare situazione di bisogno", in quanto tende "a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (Cost., art. 3, comma 2)".
Il riconoscimento di tale prestazione rappresenta "attuazione della Cost., art. 31, che impegna la Repubblica ad agevolare con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose, e a proteggere la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo" (sentenza n. 54 del 2022, punto 13.2. del Considerato in diritto). E' preminente, in tale misura, la finalità di tutela del minore (il già citato punto 13.2. del Considerato in diritto).
Si rivela dunque irragionevole e discriminatoria la scelta d'imporre la titolarità di un permesso di soggiorno in corso di validità da almeno cinque anni, il possesso di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale, la disponibilità di un alloggio idoneo, "requisiti privi di ogni attinenza con lo stato di bisogno che le prestazioni in esame si prefiggono di fronteggiare" (punto 13.3. del Considerato in diritto).
I requisiti selettivi tipizzati dalla legge eccedono "la pur legittima finalità di accordare i benefici dello stato sociale a coloro che vantino un soggiorno regolare e non episodico sul territorio della nazione" e finiscono con il pregiudicare "proprio i lavoratori che versano in condizioni di bisogno più pressante" (ancora il punto 13.3. del Considerato in diritto).
6.- Il ricorso dell'INPS s'incentra sul mancato possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
Tale limitazione è stata oramai rimossa dall'ordinamento e ha cessato di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza n. 54 del 2022 (Cost., art. 136).
7.- La declaratoria d'illegittimità costituzionale destituisce dunque di rilevanza le considerazioni dell'INPS, che vertono sulla discrezionalità del legislatore nell'apprestare un adeguato sistema di tutele, sulla finalità d'incentivo alla natalità, sulla ragionevole correlazione con la stabile permanenza nel territorio nazionale e sull'estraneità dell'assegno in questione rispetto al novero delle prestazioni essenziali attinenti al settore della sicurezza sociale.
8.- Non è controverso, in punto di fatto, che la parte intimata sia titolare di un permesso di soggiorno idoneo a consentirle di lavorare (pagina 4 della pronuncia impugnata).
Pertanto, la A.A. può invocare il principio di parità di trattamento, nei termini specificati dalla citata sentenza n. 54 del 2022.
Come è stato affermato dalla Corte costituzionale alla luce dei chiarimenti resi in sede di rinvio pregiudiziale dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea, tale principio è riconosciuto non solo ai titolari di un permesso unico di lavoro, ma anche in favore dei titolari di un permesso di soggiorno per fini diversi dall'attività lavorativa, autorizzati a lavorare nello Stato membro ospitante (Corte di giustizia dell'Unione Europea, sentenza 2 settembre 2021, causa C-350/2020, punto 49, nel decidere sul rinvio pregiudiziale promosso dalla Corte costituzionale).
9.- La sentenza d'appello, nel riconoscere alla A.A. la spettanza dell'assegno di natalità, è dunque conforme a diritto ed è immune dai vizi denunciati dall'INPS sulla base di una disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima.
10.- Il ricorso, pertanto, dev'essere respinto.
11.- In mancanza di attività difensiva della controparte, non si deve provvedere sulle spese.
12.- Poichè il ricorso è respinto integralmente, si deve dare atto che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la stessa impugnazione, ove sia dovuto (Cass., S.U., 20 febbraio 2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, comma 1-bis dell'art. 13, ove dovuto.