Nel caso in esame, l'imputata è stata ritenuta colpevole di violenza privata per aver più volte parcheggiato la sua auto in maniera tale da impedire alla persona offesa di accedere o uscire dal proprio locale autorimessa.
Svolgimento del processo
l .La Corte di appello di Ancona, con la sentenza impugnata, ha confermato la decisione del Tribunale di Ascoli Piceno, che, assolta C. P. dal reato di percosse in danno della parte civile A. O., l'aveva dichiarata colpevole di violenza privata continuata, perché con violenza consistita nel parcheggiare la propria autovettura ostruiva il passaggio ai locali siti al pianterreno utilizzati dalla persona offesa come garage e deposito di legna, e l'aveva condannato, alla pena di giustizia oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi separata mente.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l'imputata, con il ministero del difensore di fiducia, avvocato E. P., che svolge quattro motivi.
2.1. Erronea applicazione dell'art. 131 bis cod. pen. e correlati vizi della motivazione in merito alla sussistenza dell'elemento della abitualità. Posto che il diniego è stato pronunciato sul presupposto dell'abitualità del comportamento ostruzionistico, che impediva l'uso dell'auto alla persona offesa e al marito, la Difesa della ricorrente evoca l'orientamento espresso dal recente approdo delle Sezioni Unite con sentenza n. 18891/2022, per cui la continuazione non si identifica automaticamente con la abitualità del reato perché non indicativa, ex sé, della serialità delle condotte o della proclività dell'agente a violare la legge, ammettendo che il reato continuato possa rientrare nell'ambito di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, da valutarsi sulla base dell'apprezzamento in concreto della reale offensività del singolo episodio delittuoso. Nel caso di specie, la condotta dell'imputata non può essere definita abituale - sostiene la Difesa - in primo luogo perché il reato di percosse era venuto meno a seguito della assoluzione già in primo grado; pertanto, ci si duole della mancata contestualizzazione del fatto di cui all'art. 610 cod. pen. , prendendo in considerazione anche le dichiarazioni testimoniali a discarico, invece, ignorate dalla Corte di appello. In realtà, si tratterebbe di sporadici episodi di parcheggio da parte dell'imputata, che risiede da anni ad (omissis), trovandosi a (omissis) solo momentaneamente ospite della madre ammalta, per assisterla; non si tratta perciò di un parcheggio abituale dinanzi all'abitazione della p.o., anche perché l'imputata poteva disporre del garage della madre. La motivazione è, dunque, carente, perché non è esplicitato l'iter logico condotto dalla Corte di appello per escludere l'art. 131 bis cod. pen.
2.2. Erronea applicazione dell'art. 610 cod. pen., laddove la Corte di appello ha ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi del delitto di violenza privata, sulla base di un travisamento. In particolare, si richiama la deposizione testimoniale della teste M., la quale avrebbe riferito che il parcheggio dell'autovettura da parte della imputata non risultava ostruttivo del passaggio, rendendolo solo più difficoltoso. Circostanza confermata da altri testi, cosicchè la condotta dell'imputata non avrebbe causato una coattiva e continuativa privazione della libertà di determinazione. Piuttosto, si tratterebbe di sporadici episodi rientranti nella ordinaria tolleranza che caratterizza i rapporti di vicinato. In ogni caso, manca la violenza e la minaccia, elemento strutturale del delitto, non essendo sufficiente una condotta costrittiva. Inoltre, si invoca l'orientamento giurisprudenziale a tenore del quale il reato di violenza priva richiede un quid pluris rispetto al mero patia cui la persona offesa è costretta dalla aggressione fisica subita.
2.3. Vizi della motivazione con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche e alla ingiustificata commisurazione della pena in misura ( mesi quattro di reclusione) ben superiore al minimo edittale ( 15 giorni). Ci si duole anche della condanna risarcitoria in mancanza di prova del danno, alla luce dei principi di diritto declinati dalle Sezioni Unite civile con le sentenze gemelle del 2008, in mancanza di allegazione di danno.
2.4. Violazione degli artt. 496 e 555 cod. proc. pen. e 111 Cast. in tema di formazione della prova in dibattimento, e correlati vizi della motivazione, con riguardo alla ritenuta attendibilità della persona offesa e dei testimoni dell'accusa, in spregio ai principi del contraddittorio e del giusto processo, dolendosi la ricorrente che, per l'assenza nel giudizio della p.o., che non si è mai presentata, non è stato possibile contestare quanto dichiarato in sede di denuncia querela. D'altro canto, tutti i testimoni dell'Accusa avevano ragioni di incompatibilità per rapporti con la persona offesa, mentre non sono state prese in considerazione le dichiarazioni dei testi della Difesa. Si denuncia la contraddittorietà degli argomenti che hanno condotto la Corte di appello ad assolvere l'imputata dal delitto di percosse e a condannarla per la violenza privata, in ragione della valutazione del dato processuale della mancata presentazione della persona offesa.
Motivi della decisione
1. E' fondato il primo motivo di ricorso, per cui la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio. Nel resto, il ricorso risulta inammissibile.
2. E, infatti, non coglie nel segno il secondo motivo, che non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata che, facendo corretto uso di consolidati principi di diritto, ha considerato come "il parcheggio dell'auto andava a ostruire, ancorchè in parte, l'accesso all'immobile attraverso l'ingresso principale o il garage", richiamando il contenuto delle deposizioni testimoniali, da cui emerge che "spesso l'auto della P. ostruiva l'accesso all'abitazione della p.o. che spesso si vedeva costretto a suonare alla imputata affinchè spostasse l'auto". Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, nel delitto di violenza privata è tutelata la libertà psichica dell'individuo, e la fattispecie criminosa ha carattere generico e sussidiario rispetto ad altre figure in cui la violenza alle persone è elemento costitutivo del reato, sicchè, esso reprime genericamente fatti di coercizione non espressamente considerati da altre norme di legge, e, per consolidato orientamento di legittimità, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di autodeterminazione e di azione della persona offesa ( tra le tante, Sez. 2 n. 11522 del 3.3.2009 rv. 244199 che ha definito la libertà morale come libertà di determinarsi spontaneamente secondo motivi propri, sicchè alla libertà morale va ricondotta sia la facoltà di formare liberamente la propria volontà sia quella di orientare i propri comportamenti in conformità delle deliberazioni liberamente prese - conf. - Sez. 5, n. 40291 del 06/06/2017, Rv. 271212). E' consolidata, infatti, l'opzione ermeneutica secondo cui l'elemento della violenza, nel reato di cui all'art. 610 cod. pen. può consistere anche in una violenza «impropria», che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (Sez. 5, n. 4284 del 29/09/2015 - dep. 2016, Rv. 266020, in fattispecie di chiusura a chiave di una serratura di una stanza; Sez. 5, n. 11907 del 22/01/2010, Rv. 246551, in fattispecie relativa a sostituzione della serratura della porta di accesso di un vano-caldaia; Sez. 5, n. 1195 del 27/02/1998, , Rv. 211230, in fattispecie di apposizione di una catena con lucchetto ad un cancello; conf. Sez. 5, n. 10133 del 05/02/2018 ; Rv. 272672; Sez. 5, n. 10498 del 16/01/2018, Rv. 272666; Sez. 5, n. 1913 del 16/10/2017 (dep. 2018) Rv. 272322; Sez. 5, n. 29261 del 24/02/2017, Rv. 270869; Sez. 5, n. 28174 del 14/05/2015, Rv. 265310; Sez. 5, n. 603 del 18/11/2011 (dep. 2012) Rv. 252668 ..), o anche nella condotta di chi - intenzionalmente, e rifiutandosi poi di liberare l'accesso, pur senza intemperanze verbali - parcheggi un'auto in modo tale da impedire a un'altra vettura di spostarsi (Cass., Sez. V, n. 16571 del 20/04/2006, Badalamenti), o ostruisca così il passaggio verso un fabbricato (Cass., Sez. V, n. 8425/2014 del 20/11/2013, Iovino), ovvero occupi l'area di sosta riservata ad una specifica persona invalida (Cass., Sez. V, n. 17794 del 23/02/2017, Milano), giacchè, ai fini del delitto di violenza privata, non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento o atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa.
2.1. Neppure ha pregio il richiamo all'orientamento che esclude il delitto in questione qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino essi stessi l'evento naturalistico, ovvero il pati cui la persona offesa sia costretta, postulando, in specie, l'assenza di un "evento costrittivo" per le modalità della condotta ,non finalizzata all'allontanamento della persona offesa. Secondo il consolidato insegnamento di legittimità, autorevolmente espresso (Sez. U, n. 2437 del 18/12/2008 - dep. 2009, Giulini, in motivazione) ed unanimemente seguito (Sez. 5, n. 10132 del 05/02/2018, Ippolito, Rv. 272796; N. 35237 del 2008 Rv. 241159, N. 1215 del 2015 Rv. 261743, N. 44548 del 2015 Rv. 264685, N. 47575 del 2016 Rv. 268405), l'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 610 cod. pen., è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una determinata cosa; la condotta violenta o minacciosa «deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa; deve dunque trattarsi di "qualcosa" di diverso dal "fatto" in cui si esprime la violenza», sicché «la coincidenza tra violenza» - e la minaccia - «e l'evento di "costrizione a tollerare" rende tecnicamente impossibile la configurabilità del delitto di cui all'art. 610 cod. pen.» (Sez. U, n. 2437 del 2009, cit.).Da siffatte premesse è stato enucleato il principio di diritto affermato da questa Corte secondo cui il delitto di cui all'art. 610 cod. pen. non è configurabile qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino, essi stessi, l'evento naturalistico del reato, ovvero il patia cui la persona offesa sia costretta: «L'elemento oggettivo del delitto di violenza privata è, dunque, costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una condotta determinata, poiché in assenza di tale determinatezza, possono integrarsi i singoli reati di minaccia, molestia, ingiuria, percosse, ma non quello di violenza privata» (Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, P.M. in proc. Altoè, Rv. 268405), in quanto «l'evento del reato, ne/l'ipotesi di ricorso alla violenza, non può coincidere con il mero attentato a/l'integrità fisica della vittima o anche solo con la compressione della sua libertà di movimento conseguente e connaturata a/l'aggressione fisica subita» (Sez. 5, n. 1215 del 06/11/2014 - dep. 2015, Calignano, Rv. 261743, che ha sottolineato la necessità, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 610 cod. pen, di un aliquid diverso dal fatto concretante la violenza). Discende da tali premesse che il delitto di violenza privata non è configurabile allorquando gli atti di violenza non siano diretti a costringere la vittima ad un "pati", ma siano essi stessi produttivi dell'effetto lesivo, senza alcuna fase intermedia di coartazione della libertà di determinazione della persona offesa (Sez. 5, n. 10132 del 05/02/2018, Rv. 272796).Come premesso, dalla stessa sentenza impugnata, emerge che la condotta dell'agente - oltre a imporre alla persona offesa di tollerare la presenza del veicolo dinanzi al garage di sua proprietà - si è tradotta nella impossibilità, per la vittima, di accedere o uscire dal locale autorimessa, con la necessità di richiedere all'imputata di rimuovere la sua autovettura. Nei termini indicati, la fattispecie concreta rientra pienamente nel perimetro descrittivo della norma, giacchè, nel caso al vaglio, è dato ravvisare un evidente rapporto di alterità tra il parcheggio ostruttivo - determinante un mero pati e la successiva ed autonoma costrizione coercitiva, effettivamente realizzatasi con la impossibilità per la persona offesa di usufruire del proprio garage.
3. Il terzo motivo è inammissibilmente proposto, in quanto privo di confronto con la motivazione con la quale la Corte di appello ha condiviso la valutazione del primo giudice in punto di trattamento sanzionatorio, ponendo in luce la particolare determinazione e la reiterazione delle condotte; mentre, con riguardo alla generica statuizione risarcitoria, non è necessaria la prova della concreta esistenza di danni risarcibili, essendo sufficiente l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza di un nesso di causalità tra questo e il pregiudizio lamentato, desumibile anche presuntivamente( Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Rv. 281997).
4. Anche il quarto motivo è del tutto privo di pregio, avendo la Corte di appello ben chiarito come l'assenza della persona offesa nel dibattimento abbia trovato causa e giustificazione nelle precarie condizioni di salutee nell'età avanzata.
5. Come premesso, è fondato, invece, il motivo che denuncia erronea applicazione dell'istituto di cui all'art. 131 bis cod. pen. La Corte di appello ha negato che nella fattispecie concreta fosse ravvisabile una condotta di particolare tenuità offensiva "dato che il comportamento si è rivelato abituale, reiterato".
5.1. Con recente approdo, le Sezioni Unite hanno affermato che la pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, la quale può essere riconosciuta dal giudice all'esito di una valutazione complessiva della fattispecie concreta, che - salve le condizioni ostative tassativamente previste dall'art. 131-bis cod. pen. per escludere la particolare tenuità dell'offesa o per qualificare il comportamento come abituale - tenga conto di una serie di indicatori rappresentati, in particolare, dalla natura e dalla gravità degli illeciti in continuazione, dalla tipologia dei beni giuridici protetti, dall'entità delle disposizioni di legge violate, dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte, dalle loro motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate, dal periodo di tempo e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano, dall'intensità del dolo e dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti (Sez. U n. 18891 del 27/01/2022, Ubaldi, Rv. 283064).
5.2. Secondo la linea interpretativa tracciata dalle Sezioni Unite, resta affidata, pertanto, alla discrezionalità del giudice la decisione, caso per caso, in ordine alla meritevolezza o meno della esclusione della punibilità nell'ipotesi della continuazione, dovendo egli valutare attentamente, in relazione alle modalità della condotta e all'esiguità del danno o del pericolo arrecato, l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, al fine di risolvere i problemi legati all'applicazione di sanzioni penali formalmente ineccepibili, ma sostanzialmente sproporzionate, in concreto, al reale grado di offensività dei fatti oggetto del giudizio, atteso che lo scopo primario della norma, come affermato da questa Corte (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591), è«[ ] quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo». Nella medesima prospettiva si è precisato, con la richiamata decisione, che «il fatto particolarmente lieve, cui fa riferimento l'art. 131-bis cod. pen., è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per affermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la "rieducazione del condannato", sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione». In definitiva, nel delimitare l'ambito di applicazione dell'istituto, il legislatore ha «da un lato compiuto una graduazione qualitativa astratta, basata sulla natura e su/l'entità della pena, e vi ha aggiunto un elemento di impronta personale, pure esso tipizzato, tassativo, relativo a/l'abitualità o meno del comportamento. Dall'altro ha demandato al giudice una ponderazione quantitativa rapportata al disvalore di azione, a quello di evento, nonché al grado della colpevolezza. Ha limitato, infine, la discrezionalità del giudizio escludendo alcune contingenze ritenute incompatibili con l'idea di speciale tenuità: motivi abietti o futili, crudeltà, minorata difesa della vittima, ecc. Da tale connotazione emerge [che] l'esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno, alla colpevolezza» (Sez. U, n. 13682 del 25/02/2016, Coccimiglio, Rv. 266595).
Come hanno, altresì, osservato le Sezioni Unite 'Ubaldi', «Il problema concernente l'applicabilità dell'art. 131-bis cit. ad una pluralità di reati avvinti dalla continuazione ha accompagnato l'evoluzione giurisprudenziale dell'istituto sin dal momento della sua introduzione nel sistema penale, innestandosi, in particolare, sul secondo degli "indici-criteri" previsti dalla norma, quello relativo alla non abitualità del comportamento dell'autore. Ai fini della esclusione della punibilità, infatti, non è sufficiente la tenuità dell'offesa, ma occorre, come precisato nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 28 del 2015, che il reato oggetto del giudizio non si inserisca «in un rapporto di seriazione con uno o più altri episodi criminosi». ( omissis) Ne discende che, al di fuori delle ipotesi tassativamente escluse (nel secondo comma) dalla sfera di applicazione de/l'istituto, la regola generale è quella secondo cui, nell'ambito delle fattispecie incriminatrici rientranti nei limiti edittali di pena stabiliti dall'art. 131-bis, qualunque offesa arrecata può sempre essere ritenuta di particolare tenuità, se in tal senso viene concretamente valutata dal giudice sulla base delle modalità della condotta e del danno o del pericolo cagionato al bene giuridico protetto. E' il principio di proporzione, in definitiva, a costituire, come osservato dalla dottrina, "il fondamento logico-funzionale e anche costituzionale de/l'istituto", poiché la risposta sanzionatoria perderebbe, in assenza di un vaglio di meritevolezza della pena per i fatti di reato in concreto connotati da una speciale tenuità, la sua stessa base di legittimazione all'interno di una prospettiva costituzionalmente orientata» ( Sez. Un. Ubaldi, par. 4.4. ).
Nell'affermare che l'istituto della continuazione non può essere considerato come sinonimo della nozione di "abitualità", né appare coincidente o necessariamente sovrapponibile all'ipotesi in cui l'autore abbia commesso "più reati della stessa indole", le Sezioni Unite hanno ricordato che questa Corte (Sez. 1, n. 15955 del 08/01/2016, Eloumari, Rv. 266615) ha tracciato la linea di demarcazione tra l'abitualità e la continuazione, affermando che «/'identità del disegno criminoso, che caratterizza l'istituto disciplinato dall'art. 81, comma secondo, cod. pen., postula che l'agente si sia previamente rappresentato e abbia unitariamente deliberato una serie di condotte criminose e non si identifica con il programma di vita delinquenziale del reo, che esprime, invece, l'opzione del reo a favore della commissione di un numero non predeterminato di reati, che, seppure dello stesso tipo, non sono identificabili a priori nelle loro principali coordinate, rivelando una generale propensione alla devianza, che si concretizza, di volta in volta, in relazione alle varie occasioni ed opportunità esistenziali». Nella medesima prospettiva, inoltre, ha affermato che l'abitualità presuppone un impulso criminoso reiterato nel tempo che è incompatibile con l'unitaria deliberazione criminosa che caratterizza l'ipotesi del reato continuato (Sez. 1, n. 36036 del 05/07/2018, De Cenzo, Rv. 273909). Ne consegue che «la volontà di commettere più reati per scelta delinquenziale, dovuta alla generica deliberazione di persistere nella condotta delittuosa, non ha nulla a che vedere con l'unicità del disegno criminoso tra due o più reati. Questa, consistendo in un progetto delinquenziale unitario, ne/l'ambito del quale la consumazione dei reati sia stata ideata e programmata, con riguardo ai mezzi e alle modalità di esecuzione, anche in un arco di tempo non necessariamente breve, non può essere confusa con l'abitudine a commettere un determinato tipo di reato» (Sez. 4, n. 8897 del 26/03/1993, Montà, Rv. 195188). E' dunque necessario distinguere l'identità del disegno criminoso da altre ipotesi di collegamento tra pluralità di reati, che, come l'abitualità o la professionalità criminosa, giustificano, all'opposto, un giudizio di maggior gravità della condotta dell'agente. Entro tale prospettiva, come osservato dalla dottrina, la nozione di abitualità presuppone l'integrazione di un quid pluris che, oltre a far perdere alle singole condotte la loro individualità, rileva soltanto se dimostrativo dell'esistenza di un'amplificata necessità di difesa sociale a fronte di una persona la cui consuetudo delinquendi giustifica un complessivo apprezzamento di "proclività al delitto".
Una valutazione opposta a quella che l'ordinamento formula in presenza di una pluralità di illeciti la cui realizzazione sia riconducibile ad una finalità programmatica unitaria. Sebbene la dimensione naturalistica della continuazione risulti caratterizzata dalla violazione di più disposizioni della legge penale, realizzate attraverso una pluralità di azioni od omissioni, tale risultato si connota, pur sempre, per essere il "prodotto" di un'unica decisione antigiuridica, che a sua volta giustifica la determinazione di un unico trattamento sanzionatorio da irrogare nei confronti del soggetto che abbia agito in continuazione. In altri termini, ciò che connota il reato continuato è la commissione di più reati unificati dal medesimo disegno criminoso, i quali, per un verso, possono non essere della stessa indole, neanche sostanziale, per altro verso non sono di per sé espressione di abitualità nel comportamento.
5.3. A tali coordinate non si è attenuta la sentenza impugnata, che ha del tutto mancato di esplicitare gli elementi di fatto dai quali ha tratto il convincimento della abitualità della condotta, quale ragione ostativa ex lege del riconoscimento della speciale causa di non punibilità.
Affidandosi, piuttosto, a una sintetica quanto generica formula che si richiama indistintamente agli istituti della reiterazione del reato e quello della abitualità, la Corte di appello ha omesso di adeguatamente contestualizzare la condotta reiterata in esame, consegnando una decisione del tutto immotivata sul punto in scrutinio, sebbene, dalla lettura delle conformi sentenze di merito, emerga che la condotta in contestazione si sarebbe dispiegata in un ben delimitato arco temporale, e che la ricorrente parcheggiava l'autovettura" a ridosso del garage di proprietà della persona offesa e che spesso l'autovettura ostruiva l'accesso carrabile". Elementi fattuali che la Corte di appello non sembra aver tenuto in adeguata considerazione onde chiarire se, nella specie, sia ravvisabile una reiterazione di condotte ovvero l'abitualità.
6. L'epilogo del presente scrutinio di legittimità è l'annullamento della sentenza impugnata, limitatamente alla valutazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis cod. pen., con rinvio per nuovo esame al Giudice di merito che si atterrà ai richiamati principi di diritto nonché a quello per cui "Nel caso di annullamento con rinvio da parte della Corte di Cassazione, limitatamente alla verifica della sussistenza dei presupposti per l'applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, il giudice di rinvio non può dichiarare l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione, maturata successivamente alla sentenza di annullamento parziale.( Sez. 3, n. 50215 del 08/10/2015 Rv. 265434; conf. Sez. 3, n. 30383 del 30/03/2016 Rv. 267590 ). Nel resto il ricorso è inammissibile.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod.pen., con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d'appello di Perugia. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.