Nel caso di specie, sbaglia il Tribunale a sostituire i criteri legali di valutazione con la propria personale convinzione che la veridicità debba essere attestata dalla «personalizzazione emotiva» dell'orientamento sessuale dell'istante.
L'attuale ricorrente chiedeva protezione internazionale deducendo di aver lasciato il Pakistan, suo paese di origine, poiché era entrato in conflitto con la famiglia dopo aver rivelato la propria omosessualità.
Il Tribunale rigettava la richiesta ritenendo la narrazione del ricorrente generica e non credibile in quanto...
Svolgimento del processo
M.Z. ha chiesto la protezione internazionale, deducendo di essere originario dell’Azad Kashmir, Pakistan, e di aver lasciato il proprio paese d’origine poiché, una volta rivelata la propria omosessualità, è entrato in conflitto con la figura paterna, nonchè con i familiari del suo partner ed è stato ingiustamente licenziato.
La domanda è stata respinta dal Tribunale di Trieste che ha ritenuto la narrazione del ricorrente “generica e non credibile laddove non è emersa una personalizzazione emotiva di tale orientamento sessuale. Mancano poi elementi di riscontro” rilevando altresì che “l’art 377 del codice penale pakistano non menziona esplicitamente l’omosessualità, ma si occupa delle “offese contro natura” e che le pene vengono raramente applicate, posto che il governo del Pakistan è stato piuttosto indifferente al tema dell’omosessualità e che, contrariamente ad altre nazioni musulmane come l’Egitto e l’Iran, ha evitato di perseguirla violentemente.
Il Tribunale ha altresì negato la protezione speciale sul rilievo che il ricorrente non lavora né frequenta corsi specializzanti.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’interessato, affidandosi a tre motivi. L'Amministrazione intimata, non ritualmente costituita, ha presentato istanza di partecipazione alla eventuale discussione orale.
La causa è stata trattata all’udienza camerale non partecipata del 03 aprile 2023.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art 360 n.3 e n. 4 c.p.c., la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare degli artt. 3 comma 5 del Dlgs. 251/2007; nonché dell’art 132 n. 4 c.p.c., per motivazione carente del decreto impugnato. Ad avviso del ricorrente Il Tribunale ha omesso la disamina della sua storia personale, la sua contestualizzazione nel paese di origine e soprattutto non ha applicato nello sviluppo argomentativo del decreto impugnato i parametri normativi di credibilità del racconto previsti dall'art. 3 del decreto legislativo n. 251/2007. Il ricorrente lamenta che il Giudice di prime cure abbia espresso, sul tema della credibilità della narrazione del richiedente, un giudizio personale e soggettivo, non fondato su elementi oggettivi e senza adoperarsi in alcun modo per la verifica dei fatti narrati, e ciò in violazione dell’art. 3 D.lgs. 251/2007.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art 360 n.3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare degli artt. 35 bis comma 9, dell’art. 9 comma 3 e dell’art. 27 del D.lgs. 25/2008. Il ricorrente censura la decisione del Tribunale per non aver utilizzato fonti “privilegiate” (aggiornate dalla Commissione Nazionale Asilo) ma semplici notizie trovate su internet, ponendo, in particolare, alla base della sua decisione le dichiarazioni di una regista pakistano espatriato e, per quanto concerne la richiesta di protezione sussidiaria, formulata dal ricorrente in via subordinata, non ha consultato le informative EASO al fine di verificare la situazione di violenza generalizzata della zona dell’Azad Kashmir. Il ricorrente deduce peraltro che sono state acquisite informazioni non pertinenti, relative alla condizione delle persone transgender, che è questione diversa dal trattamento della omosessualità.
3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art 360 n. 3 e 5 c.p.c., la violazione o falsa applicazione di norma di diritto, in particolare dell’art. 19 comma 1.1 del D.lgs. 286/98 e dell’art 8 CEDU, per il mancato riconoscimento della protezione speciale e mancato esame di fatti decisivi. Si deduce in particolare, che il giudice non ha verificato se l'allontanamento dal territorio nazionale comporti, per il richiedente, una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare tenendo conto, a tal fine, del suo effettivo inserimento sociale in Italia e della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale.
4. Il primo ed il secondo motivo possono esaminarsi congiuntamente e sono fondati nei termini di cui appresso si dirà.
Nella valutazione della credibilità intrinseca delle dichiarazioni del ricorrente il Tribunale di Trieste si limita a definire la narrazione del richiedente “generica e non credibile” in quanto “non è emersa una personalizzazione emotiva di tale orientamento sessuale” e carente di elementi di riscontro.
Così operando, il Tribunale ha disatteso del tutto l’applicazione dei criteri posti dall’art 3 del D.lgs. 251/2007, che è invece necessaria, posto che il legislatore ha ritenuto di affidare la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo non alla mera opinione del Giudice, ma ha previsto una procedimentalizzazione legale della decisione.
5. L’art. 3 comma 5 del D.lgs. 251/2007 dispone che, qualora gli elementi della dichiarazione non sono suffragati da prove sono comunque considerati veritieri se l’autorità giudiziaria ritiene che:
“a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda;
b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi;
c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone;
d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla;
e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.
La norma riproduce il testo del comma 5 dell’art. 4 della Direttiva 2004/83/CE, sulla quale la CGUE così si è espressa: “quando taluni aspetti delle dichiarazioni di un richiedente asilo non sono suffragati da prove documentali o di altro tipo, tali aspetti non necessitano di una conferma purché siano soddisfatte le condizioni cumulative stabilite dall’articolo 4, paragrafo 5, lettere da a) a c) della medesima direttiva” (CGUE, grande sezione, 2.12.2014, cause riunite C 148/13 a C 150/13).
Ciò significa che il giudice è tenuto ad operare un accurato esame delle dichiarazioni del richiedente asilo, al fine di valutarne la completezza, la tempestività, la coerenza intrinseca ed estrinseca e la attendibilità, secondo i criteri procedimentali posti dall’art. 3, assumendo informazioni sul paese di origine (in acronimo COI) aggiornate e pertinenti, alla luce della quali valutare le dichiarazioni rese; le dichiarazioni così valutate ed analizzate possono anche -di per sé sole- costituire prova dei fatti dedotti, in deroga all’ordinario principio dispositivo (Cass. n. 28214 del 28/09/2022; Cass. n. 14674 del 09/07/2020; Cass. 13897/2019; Cass. 29056/2019; Cass. 29056/2019; Cass. 29054/2019; Cass. 28990/2018).
6.- Per quanto riguarda in particolare la condizione di omosessualità e il rischio che una persona sia sottoposta ad atti persecutori o a trattamenti inumani e degradati a causa del suo orientamento sessuale, deve qui ricordarsi quanto precisato dalla CGUE, nelle sentenze del 25.1. 2018 nella causa C 473/16, del 2.12.2014, e del 7.11.2013, nelle cause riunite da C 199/12 a C 201/12, ed in particolare che: l’orientamento sessuale è un elemento idoneo a dimostrare l’appartenenza del richiedente ad un particolare gruppo sociale, ai sensi dell’articolo 2, lettera d), della direttiva 2011/95, quando il gruppo delle persone i cui membri condividono lo stesso orientamento sessuale è percepito dalla società circostante come diverso; quando gli Stati membri applicano il principio in base al quale incombe al richiedente motivare la propria domanda, le dichiarazioni del richiedente relative al suo orientamento sessuale che non sono suffragate da prove documentali o di altro tipo, non necessitano di conferma se le condizioni di cui a tale disposizione sono soddisfatte, dato che tali condizioni si riferiscono, in particolare, alla coerenza e plausibilità di tali dichiarazioni e non si riferiscono in alcun modo all’esecuzione o all’impiego di una perizia; lo svolgimento di un colloquio individuale condotto dal personale dell’autorità accertante è tale da contribuire alla valutazione delle dichiarazioni, dal momento che sia l’articolo 13, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2005/85 sia l’articolo 15, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2013/32 stabiliscono che gli Stati membri provvedono affinché la persona incaricata di condurre il colloquio abbia la competenza per tener conto del contesto personale in cui è presentata la domanda, in particolare dell’orientamento sessuale del richiedente; le autorità competenti hanno il dovere ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2005/85 e dell’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva 2004/83, di condurre il colloquio tenendo conto della situazione personale o generale in cui si inserisce la domanda, segnatamente della vulnerabilità del richiedente e di procedere ad una valutazione individuale di tale domanda, tenendo conto delle circostanze personali e non devono fondarsi unicamente su nozioni stereotipate associate all’omosessualità, in quanto il fatto che un richiedente asilo non sia in grado di rispondere a domande fondate su tali nozioni (come ad esempio la conoscenza di associazioni per la difesa dei diritti degli omosessuali) non può costituire, di per sé, un motivo sufficiente per concludere che egli non sia credibile, dato che un modo di procedere del genere sarebbe contrario a quanto richiesto dall’articolo 4, paragrafo 3, lettera c), della direttiva 2004/83 nonché dall’articolo 13, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2005/85.
7- Pertanto, le dichiarazioni del richiedente asilo sul proprio orientamento sessuale devono essere raccolte da un intervistatore competente e valutate dal giudice secondo i criteri procedimentali di cui all’art. 3 del D.lgs. 251/2007, comparate con COI aggiornate e pertinenti, e possono essere sufficienti da sole a dimostrare l’appartenenza al gruppo sociale a rischio persecutorio, ovvero la circostanza che nel paese d’origine il soggetto è stato percepito come tale. Il giudicante, evitando indebite invasioni nella vita privata (ad es. interrogatori sui dettagli delle pratiche sessuali, produzione di foto e video) e non lasciandosi condizionare da stereotipi (ad es. essere o non essere iscritti ad una associazione LGBT), deve accertare la concreta situazione del richiedente e la sua particolare condizione personale, e valutare quindi se questi possa subire, a causa del suo orientamento sessuale, reale o percepito, atti persecutori e minacce gravi ed individuali alla propria vita o alla persona e dunque sia nell'impossibilità di vivere nel proprio paese d'origine senza rischi effettivi per la propria incolumità psico-fisica (Cass. n. 9815 del 26/05/2020; Cass. n. 24007 del 30/10/2020 Cass. n. 11176/2019).
8.- Queste regole sono state del tutto disattese dal giudice di merito, il quale invece di valutare la coerenza intrinseca ed estrinseca del racconto, la sua completezza e la plausibilità, ha sostituito ai criteri legali di valutazione del racconto la propria personale convinzione che la veridicità debba essere attestata dalla “personalizzazione emotiva” dell’orientamento sessuale, senza peraltro specificare in che termini detta personalizzazione emotiva dovrebbe manifestarsi durante il colloquio. Ha così fatto cattiva applicazione del consolidato principio secondo il quale la valutazione sulla credibilità del racconto del richiedente che dichiari di essere omosessuale deve essere fondata sui criteri di cui all'art. 3 del D.lgs. n. 251 del 2007 e non può, invece, essere basata su elementi irrilevanti o su notazioni, che, essendo prive di riscontri processuali, abbiano la loro fonte nella mera opinione del giudice (Cass. n. 5216 del 17/02/2022; Cass. n. 13944 del 06/07/2020)
8.1.- Il Tribunale ha inoltre stigmatizzato la mancanza di riscontri oggettivi, senza specificare che genere di riscontri avrebbe dovuto fornire il richiedente e quale parte della vicenda narrata avrebbero dovuto riguardare. Permesso e ribadito che il riscontro oggettivo non è necessario se il racconto, vagliato alla luce dei criteri di cui al citato art. 3 è considerato attendibile, si rileva che, in ogni caso, devono evitarsi indebite ingerenze nella vita privata, e pertanto il riscontro non può essere una perizia, un documento o una testimonianza sulle pratiche sessuali; semmai deve valutarsi, oltre alla coerenza intrinseca, la coerenza estrinseca della storia narrata e non soltanto sull’orientamento sessuale, in sé considerato, ma anche e soprattutto sulle vicende persecutorie ad esso conseguenti. Vale a dire che occorre verificare in base ad informazioni pertinenti, attendibili ed aggiornate sul paese di origine, se può ritenersi plausibile che il soggetto abbia subìto o rischi di subire atti discriminatori, abusi o vessazioni a causa del suo orientamento sessuale. Invero, anche in caso di legislazione non esplicitamente omofoba, il soggetto può essere esposto a gravissime minacce provenienti da agenti privati senza che lo Stato sia in grado di proteggerlo (Cass. n. 11176 del 2019; Cass. n. 5829 del 2021) e tra i trattamenti inumani e degradanti lesivi dei diritti fondamentali della persona che si possono subire in conseguenza dell’omosessualità non vi è solo il carcere, ma anche le discriminazioni, gli abusi medici, il grave isolamento sociale, e, al riguardo, assume particolare rilievo che il richiedente abbia riferito non solo di un conflitto familiare, ma anche di essere stato licenziato. Non compiendo questa verifica, il giudicante è venuto meno al dovere di cooperazione istruttoria, posto che non ha assunto informazioni aggiornate e pertinenti sulle condizioni degli omosessuali in Pakistan ed ha espresso valutazioni non univoche sulla punibilità della condotta. Il Tribunale ha infatti rilevato che “l’art 377 del codice penale pakistano non menziona esplicitamente l’omosessualità, ma si occupa delle “offese contro natura”, e pur consapevole che tra le “offese contro natura” sono compresi i rapporti sessuali “contrari all’ordine naturale delle cose” che possono essere puniti con il carcere a vita, non ha svolto alcuna indagine su come in concreto detta norma venga interpretata ed applicata, limitandosi a rilevare genericamente che le pene sono raramente applicate, senza ulteriori approfondimenti, come se la questione fosse di scarso rilievo, mentre la punizione dell'omosessualità come reato costituisce una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini, che ne compromette la libertà personale e li pone in una situazione di oggettivo pericolo. (Cass. n. 7438 del 18/03/2020; Cass. n. 11172 del 10/06/2020; Cass. n. 40909 del 20/12/2021).
8.2. - Il giudice del merito ha inoltre assunto informazioni sulla presunta tolleranza dell’omosessualità in Pakistan da fonti non qualificate (Il Mondo, www.adnkronos.com) mentre la verifica sul trattamento degli omosessuali nel paese d'origine, sulla applicazione di legislazione omofoba e di sanzioni sproporzionate o discriminatorie, va compiuta sulla base di fonti affidabili ed aggiornate; ed ha altresì assunto informazioni non pertinenti, che riguardano la (diversa) condizione delle persone transgender.
E’ vero che il giudice non è obbligato a consultare solo le fonti del Ministero dell’Interno o della European Union Agency for Asylum (EUAA, già EASO) e può esaminare liberamente anche altre informazioni raccolte dalle agenzie che operano nel settore dei diritti umani, ma queste fonti devono avere il carattere dell’attendibilità e della pertinenza.
L’art 8 del D.lgs. 25 del 2008 indica quali sono le fonti da consultare, ossia le informazioni elaborate e raccolte dalla Commissione ma anche le informazioni derivanti da agenzie ed enti che si occupano di diritti umani, con la specificazione che le informazioni raccolte a fini turistici non possono essere decisive nelle controversie aventi ad oggetto la protezione internazionale (Cass. n. 11110/2019;Cass. 11749/ 2019; Cass. 8819/ del 2020). Il giudice può quindi avvalersi di informazioni tratte da fonti diverse da quelle indicate dall’art 8 comma 3 del D.lgs. 25/2008 ma solo in aggiunta alle fonti indicate da tale norma e non in sostituzione di esse. Le COI provenienti da fonti tipizzate rispettano infatti il principio di parità delle armi ed il rispetto del diritto di difesa, mentre le fonti atipiche non godendo di una eguale garanzia di pubblicità e trasparenza non consentono uniformità del criterio valutativo nè l’autorevolezza delle informazioni ivi contenute. (Cass 25440 del 2022; Cass. n. 13255 del 2020; Cass. n. 25440 del 2022; Cass. n. 3357 del 2021; Cass:
25500 del 2022).
Ne consegue, in accoglimento del primo e del secondo motivo del ricorso, assorbito il terzo, la cassazione del decreto impugnato ed il rinvio al Tribunale di Trieste in diversa composizione per un nuovo esame sulla base dei principi di diritto sopra enunciati.
Il Tribunale provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo e secondo motivo del ricorso, assorbito il terzo, cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Trieste in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.