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21 agosto 2023
La presenza illegittima di barriere architettoniche costituisce una “discriminazione indiretta” ai danni della persona disabile

Con l'ordinanza in commento, la Cassazione ricostruisce il quadro normativo in materia di tutela delle persone con disabilità da fatti o atti qualificati come discriminatori nei loro confronti, ponendo l'accento sulla presenza delle barriere architettoniche.

La Redazione

L'attore deduceva dinanzi al Tribunale di Lecce di essere soggetto affetto da handicap in situazione di gravità e invalido civile al 100% con indennità di accompagnamento e chiedeva al Giudice il risarcimento dei danni per gli atti e le condotte gravemente discriminatorie posti in essere nei suoi confronti da parte dei convenuti, i quali avevano a lui precluso la possibilità di accedere all'edificio ove era situato l'appartamento della sorella presso il quale viveva stabilmente a causa della presenza illegittima di barriere architettoniche.
Il Tribunale riteneva parzialmente fondata la domanda, ritenendo i convenuti responsabili per i fatti discriminatori riportati dall'attore, oltre ad aver ritenuto il Comune responsabile di aver rilasciato la concessione edilizia in sanatoria prima, e il permesso di agibilità poi, nonostante l'edificio in questione fosse stato realizzato dalla società convenuta in violazione delle prescrizioni contenute nella L. n. 13/1989.
Per questo motivo, il Tribunale condannava i convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale.
A seguito dell'impugnazione della decisione da parte del Comune, la Corte d'Appello riformava parzialmente la pronuncia sotto il profilo della quantificazione del danno riconosciuto.
Il Comune propone allora ricorso per cassazione in quanto la Corte d'Appello aveva ritenuto non provata l'assenza di colpa e conferito «una veste di apparente legittimità alla condotta omissiva illecita posta in essere dalla suddetta società, favorendone la mancata cessazione e consentendo la protrazione dei suoi effetti lesivi».

Con l'ordinanza n. 17138 del 15 giugno 2023, la Corte di Cassazione accoglie il suddetto motivo di ricorso, ricostruendo il quadro normativo in materia.
Punto di partenza è la L. n. 67/2006, la quale si inserisce nell'ambito di una normativa nazionale e internazionale volta a garantire e a promuovere la piena realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali di tutte le persone, senza alcuna discriminazione di nessun tipo, e in modo particolare delle persone con disabilità per colmare gli svantaggi propri di tali soggetti e assicurare il rispetto del principio della parità di trattamento. Per fare ciò, la legge sancisce dei divieti di discriminazione delle persone disabili sia nei rapporti pubblici, sia in quelli privati, partendo dalla definizione di discriminazione:

legislazione

«ricorre la “discriminazione diretta” quando una persona disabile viene trattata in modo diverso, in diritto o in fatto, rispetto ad un soggetto abile; ricorre la “discriminazione indiretta” quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, apparentemente neutri, mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ai soggetti abili; infine, sono “discriminazioni” le molestie, ovvero comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che creino un clima di intimidazione, umiliazione, offesa o ostilità nei confronti della persona disabile».

Ciò chiarito, gli Ermellini precisano che l'elencazione degli atti e comportamenti configuranti una discriminazione indiretta non sono esaustivi, essendo necessario che ricorra in tal caso l'elemento qualificante dello svantaggio del soggetto disabile rispetto a quello abile. In tale ottica, possono certamente rientrare nell'ambito della discriminazione indiretta le barriere architettoniche ostacolanti l'accesso quando comportino una situazione di svantaggio per il soggetto disabile rispetto all'omologa situazione in cui si trova una persona abile.
Ciò posto, la tutela giurisdizionale per fatti e condotte di tal fatta spetta al tribunale del luogo ove ha domicilio il ricorrente.
Per quanto concerne, invece, l'onere della prova, la Cassazione evidenzia che si realizza un'agevolazione in tal senso attraverso una parziale inversione: mentre l'attore dovrà fornire elementi fattuali che devono rendere plausibile l'esistenza di una discriminazione, il rischio dell'incertezza in ordine alla sussistenza di tali fatti grava sul convenuto, che è tenuto a provare l'insussistenza della discriminazione laddove siano state dimostrate le circostanze fattuali idonee a lasciarla desumere.
Quanto, infine, alla tutela risarcitoria, essa è ricondotta all'ambito applicativo dell'art. 2043 c.c..

Ricostruito brevemente il quadro normativo in materia, gli Ermellini rilevano che i Giudici del gravame non hanno correttamente applicato i principi esposti, in quanto non hanno individuato gli elementi costitutivi della fattispecie discriminatoria addebitata al Comune a titolo colposo. La Corte d'Appello ha infatti effettuato una falsa applicazione dell'art. 2 L. n. 67/2006, consistita nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice in quanto non ha riscontrato la sussistenza degli elementi normativi integranti la fattispecie della discriminazione indiretta, considerando che non spettava all'Ente alcun intervento volto all'abbattimento delle barriere architettoniche.
Segue l'accoglimento del ricorso proposto dal Comune sul punto.

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