Diversi sono i presupposti, diverse sono le situazioni fattuali accertate, diversi sono i certificati e diversi sono anche i benefici.
Il Comune chiedeva all'attuale ricorrente il pagamento di circa 5mila euro pari alla retribuzione indebitamente percepita nel periodo in cui aveva fruito dei permessi di cui alla L. n. 104/1992.
Contro tale provvedimento, la lavoratrice intraprendeva la procedura d'urgenza di cui all'art. 700 c.p.c. richiedendone la sospensione. Nelle more del...
Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Perugia, in riforma della sentenza del locale Tribunale, respingeva la domanda proposta da M.E. L. nei confronti del Comune di A. volta ad accertare l’illegittimità del provvedimento di annullamento dei benefici ex art. 33, comma 3, L. 104/1992 adottato dal Comune e della trattenuta mensile operata dallo stesso ente per recuperare le somme versate alla dipendente per i giorni di permesso dall’aprile 2007 al gennaio 2010.
2. Il Comune di A. aveva chiesto alla L. il pagamento di euro 5.479,09, pari alla retribuzione indebitamente percepita nel periodo di fruizione dei permessi ex legge n. 104/1992.
Nel dicembre 2011 il Comune aveva iniziato a trattenere dalla retribuzione della ricorrente la somma di euro 250,00 mensili.
Contro tale provvedimento la L. aveva intrapreso la procedura d’urgenza ex art. 700 cod. proc. civ. richiedendone la sospensione.
Nel corso di tale procedura le parti avevano raggiunto un accordo bonario con riduzione delle ritenute operate dal comune d’A. dalla retribuzione della ricorrente da euro 250,00 mensili ad euro 150,00 mensili.
3. Con ricorso notificato in data 27.01.2012, la L. si era rivolta nuovamente al Tribunale di Perugia, chiedendo, previo accertamento dell’illegittimità del provvedimento di decadenza dai benefici, la condanna alla restituzione delle somme trattenute mensilmente sulla retribuzione della lavoratrice.
Il Tribunale aveva accolto la domanda.
4. Pronunciando sull’impugnazione del Comune, la Corte territoriale innanzitutto non condivideva la decisione del Tribunale di considerare sostanzialmente sovrapponibili l’accertamento per l’invalidità civile e l’accertamento per lo stato di handicap.
Evidenziava che i presupposti per il riconoscimento dello stato di invalidità civile (di cui all’art. 2 legge n. 118/1971) sono del tutto differenti da quelli richiesti per accertare lo status di handicap grave (di cui all’art. 3, comma 3, legge n. 104/1992) così come diverse sono le Commissioni di accertamento dell’uno e dell’altro stato.
Riteneva che, ai sensi dell’art. 3, comma 3, legge n. 104/1992 lo stato di handicap grave doveva essere riconosciuto tramite l’accertamento demandato alla Commissione ex art. 4 legge n. 104/1992 e considerava tale “riconoscimento” essenziale al fine di poter usufruire dei tre giorni di permesso mensili previsti dall’art. 33, comma 3, legge n. 104/1992.
Rilevava che la madre della sig.ra L. aveva ottenuto il certificato di invalidità il 5 luglio 2006 dalla Commissione di prima istanza, mentre il certificato di handicap grave era stato rilasciato dalla Commissione dell’ASL n. 2 solo il 22 gennaio 2010.
Riteneva che esclusivamente quest’ultimo verbale, e non anche il primo, permetteva alla L. di usufruire del beneficio ex art. 33 cit. e che, pertanto, la domanda di concessione, presentata dalla L. già il 29 marzo 2007, non era a tal fine idonea, con conseguente diritto dell’Ente a recuperare le somme indebitamente erogate alla dipendente dal 2007 al 2010.
5. Ricorre per la cassazione della sentenza la lavoratrice sulla base di due motivi, a cui il Comune di A. ha resistito con controricorso.
6. La causa, chiamata all’adunanza camerale del dell’8 febbraio 2002, è stata rinviata in attesa della decisione della Corte costituzione sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ. per violazione, tra l’altro, degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione all’art. 1 del prot. 1 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU.
Essendosi la Corte costituzionale pronunciata con sentenza n. 8 del 2013, è stata fissata l’odierna udienza di discussione.
7. Il P.G. ha formulato conclusioni scritte chiedendo l’accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo.
8. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Va preliminarmente esaminata l’eccezione formulata dal Comune controricorrente di inammissibilità del ricorso per difetto di specialità dell’atto di procura, rilasciato ex art. 83 cod. proc. civ., perché non indica con precisione e specificità gli estremi della sentenza impugnata dinanzi alla Suprema Corte.
2. L’eccezione è infondata.
A termini dell’art. 83, comma 3, cod. proc. civ. (come modificato dall’art. 1 l. 27 maggio 1997, n. 141 e successivamente dall’art. 45, comma 9, della l. 18 giugno 2009, n. 69): «La procura speciale può essere anche apposta in calce o a margine della citazione [163], del ricorso [366, 414], del controricorso [370], della comparsa di risposta [167, 416] o d’intervento [2671], del precetto [480] o della domanda d’intervento nell’esecuzione [499], ovvero della memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato. In tali casi l’autografia della sottoscrizione della parte deve essere certificata dal difensore. La procura si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all’atto cui si riferisce, o su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all’atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia. Se la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica».
Nel caso in esame la procura è stata rilasciata su foglio separato, materialmente congiunto al ricorso e riporta testualmente: “Io sottoscritta M. E. L. […] delego a rappresentarmi e difendermi nel giudizio da me promosso contro il Comune di A. avanti la Suprema Corte di Cassazione l’avv. F.G. ad esso conferendo […]”.
È pur vero che nella procura non è espressamente indicata la sentenza impugnata, tuttavia, sul punto, è sufficiente rilevare che, con recente arresto, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato il principio secondo cui “a seguito della riforma dell’art. 83 cod. proc. civ. disposta dalla legge n. 141 del 1997, il requisito della specialità della procura, richiesto dall’art. 365 cod. proc. civ. come condizione per la proposizione del ricorso per cassazione (del controricorso e degli atti equiparati), è integrato, a prescindere dal contenuto, dalla sua collocazione topografica; nel senso che la firma per autentica apposta dal difensore su foglio separato, ma materialmente congiunto all’atto, è in tutto equiparata alla procura redatta a margine o in calce allo stesso. Tale collocazione topografica fa sì che la procura debba considerarsi conferita per il giudizio di cassazione anche se non contiene un espresso riferimento al provvedimento da impugnare o al giudizio da promuovere, purché da essa non risulti, in modo assolutamente evidente, la non riferibilità al giudizio di cassazione; tenendo presente, in ossequio al principio di conservazione enunciato dall’art. 1367 cod. civ. e dall’art. 159 cod. proc. civ., che nei casi dubbi la procura va interpretata attribuendo alla parte conferente la volontà che consenta all’atto di produrre i suoi effetti” (Cass., Sez. Un., 9 dicembre 2022, n. 36057).
Alla luce di tale principio non può dubitarsi che, nel caso di specie, da un lato, la collocazione topografica della procura, ossia l’essere essa conferita su foglio separato materialmente congiunto al ricorso (in tutto equiparata alla procura redatta a margine o in calce allo stesso), dall’altro, l’espresso richiamo in essa contenuto alle parti in causa ed al mezzo proposto di impugnazione, tolgono ogni dubbio sulla riferibilità della procura al giudizio di cassazione, rendendo del tutto irrilevante la mancata indicazione degli estremi della sentenza impugnata.
2. Con il primo motivo si censura la sentenza impugnata per omesso esame di un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., e per la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1366, 1375 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.
Il motivo è incentrato sulla omessa valutazione della Corte territoriale del legittimo affidamento generato dal Comune per aver corrisposto per molto tempo (circa quattro anni) il beneficio richiesto e sulla buona fede della lavoratrice che ha riposto fiducia nello stato di apparenza “iuris”, anche in considerazione della inesperienza in materia di diritto, tutte circostanze che, a parere della ricorrente, la Corte territoriale ha omesso di valutare.
Si censura la decisione impugnata perché in base al principio di affidamento e della buona fede la Corte ha errato nel considerare legittimo il recupero delle somme, recupero impedito tra l’altro dal principio di proporzionalità ex art. 36 Cost. rispetto alle somme destinate al mantenimento familiare.
3. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 33 legge n. 104/1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.
La ricorrente sostiene che la situazione patologica della madre accertata nel 2006 è sostanzialmente sovrapponibile rispetto a quella accertata nel 2010, e quindi, al di là della formale dicitura di “handicap grave”, già si possedevano i presupposti legittimanti la richiesta dei permessi ex art. 33, comma 3, legge n. 104/1992.
4. Il primo motivo è infondato.
La questione posta dal motivo attiene alla rilevanza impeditiva, in tema di ripetizione dell’indebito, dell’affidamento del lavoratore che, in buona fede, abbia ricevuto dal datore di lavoro pubblico retribuzioni non dovute.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 8/2023, ha ritenuto inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ., sollevate in relazione all’art. 11 Cost. e non fondate le questioni di legittimità costituzionale della medesima norma, sollevate, tra l’altro, da questa Corte con ordinanza interlocutoria n. 40004/2021, in riferimento all’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. Addiz. CEDU.
Il Giudice delle leggi ha, in particolare, affermato che l’art. 2033 cod. civ. non è illegittimo per contrarietà alla Costituzione nella parte in cui ha omesso di prevedere l’irripetibilità dell’indebito retributivo e previdenziale non pensionistico laddove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell’ente erogatore abbia ingenerato nel percettore un legittimo affidamento circa la loro spettanza.
La Corte ha evidenziato che l’ordinamento nazionale delinea un quadro di tutele dell’affidamento legittimo nella spettanza di una prestazione indebita che, se adeguatamente valorizzato, non determina l’illegittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ.
Tali tutele si fondano sulla categoria della inesigibilità, radicata nella clausola generale di cui all’art. 1175 cod. civ. che vincola il creditore a esercitare la sua pretesa in maniera da tenere in debita considerazione, in rapporto alle circostanze concrete, la sfera di interessi del debitore.
Tra i rimedi che l’ordinamento appronta a tutela del legittimo affidamento, la Corte ha richiamato: - il dovere del creditore di rateizzare la somma richiesta in restituzione, tenendo conto delle condizioni economico-patrimoniali in cui versa l’obbligato, che si trova a dover restituire ciò che riteneva di aver legittimamente ricevuto; - l’inesigibilità temporanea o parziale della prestazione in presenza di particolari condizioni personali del debitore, correlate a diritti inviolabili, che attenua la rigidità dell’obbligazione restitutoria dell’indebito e funge da causa esimente del debitore quando l’esercizio della pretesa creditoria, entrando in conflitto con un interesse di valore preminente, si traduce in un abuso del diritto.
Infine, la Corte ha rilevato come la sproporzione dell’interferenza nell’affidamento legittimo sia esclusa dalla possibilità riconosciuta al soggetto percettore di accedere alla tutela risarcitoria nei confronti dell’ente a cui sia imputabile l’indebita erogazione della prestazione, in presenza dei presupposti per farne valere una responsabilità precontrattuale; in tal modo l’ordinamento nazionale consente di addebitare all’ente pubblico la responsabilità per la commissione dell’errore nell’erogazione della prestazione indebita.
Questa Corte, già nell’indicata ordinanza interlocutoria n. 40004/2021, ha evidenziato che la disapplicazione del diritto interno non è consentita in relazione alle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sprovviste, diversamente dalle norme dell’Unione Europa, di efficacia diretta nell’ordinamento nazionale. Ciò in conformità con altro proprio orientamento secondo il quale – in linea con la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 80 del 2011) - nel sistema normativo successivo all’entrata in vigore del trattato di Lisbona, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non ha modificato la propria posizione nel sistema delle fonti. Il rinvio operato dall’art. 6, par. 3 del Trattato UE alla convenzione (con la qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come principi generali del diritto dell’Unione) non consente al giudice nazionale nelle materie estranee al diritto dell’Unione europea ed in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa (per tutte, Cass. sez. VI 04/12/2013, n.27102).
La stessa Corte di Giustizia ha chiarito (CGUE, sentenza 24 aprile 2012 in causa C 571/10 Kamberaj, punti 62 e 63) che l’art. 6, paragrafo 3, TUE non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri; pertanto, il rinvio operato dal suddetto articolo alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa.
Da qui, la necessità della sottoposizione alla Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. 2033 cod. civ. alla luce della sentenza della Corte EDU 11 febbraio 2021, sul ricorso nr. 4893/13, Casarin contro Italia con la quale la Corte europea ha ritenuto violato l’articolo 1 del Protocollo nr. 1 alla Convenzione in una fattispecie in cui, sulla base dell’articolo 2033 cod. civ., la Casarin, dipendente INPS - transitata dal Ministero dell’Istruzione per mobilità volontaria - era stata condannata a restituire al datore di lavoro le retribuzioni indebite (euro 13.288,39) percepite nel periodo settembre 1998/febbraio 2004 a titolo di assegno ad personam (sottratte erroneamente al riassorbimento), esclusa essendo la possibilità di conformarsi direttamente ai principi declinati dal giudice della CEDU (come invece fatto dal Consiglio di Stato, sez. II, 1° luglio 2021 n. 5014).
Come detto, il Giudice delle leggi ha respinto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ. affermando che non è illegittima per contrarietà alla Costituzione l’omessa previsione dell’irripetibilità dell’indebito retributivo e previdenziale non pensionistico là dove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell’ente erogatore abbia ingenerato nel percettore un legittimo affidamento circa la loro spettanza; con il solo limite che la richiesta di restituzione deve avvenire con modalità conformi a buona fede oggettiva.
Nello specifico, la buona fede dell’accipiens, a termini di detta norma, rileva solo ai fini della restituzione degli interessi.
Né è in discussione la buona fede del Comune che, proprio in relazione alla situazione personale della L., ha disposto il recupero delle somme con congrua rateizzazione.
5. Il secondo motivo è infondato.
I due certificati sono diversi e servono per ottenere benefici diversi, come diversi sono i presupposti per ottenere lo status di invalido civile o lo stato di handicap grave; in conseguenza non possono essere considerati “uguali” o “sovrapponibili” né i certificati né le situazioni fattuali accertate e quindi non vi è ragione per disattendere la decisione della Corte territoriale sul punto.
Non sussiste, peraltro, alcuna violazione dell’art. 33 della legge n. 104/1992 che chiaramente, per la concessione del beneficio, chiede il riconoscimento dello status di handicap grave del soggetto da assistere, status che non era stato accertato dalla competente Commissione medica ex art. 4 legge n. 104/92 al tempo della richiesta del beneficio (ma solo successivamente, nel 2010).
Non può, pertanto, la ricorrente fondatamente sostenere che la situazione di invalidità della madre, così come descritta dalla commissione medica prima nel 2006 e poi nel 2010 non presentasse alcuna differenza da un punto di vista patologico.
Mentre il presupposto per la concessione delle provvidenze agli invalidi civili è costituito solo da una riduzione della capacità lavorativa, per l’accertamento dell’handicap grave è richiesta la necessità di un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione (art. 3 comma 3, legge n. 104/1992).
Ai sensi, poi, degli artt. 3 e 4 della legge n. 104/1992 l’accertamento della condizione di handicap grave è demandato alle speciali commissioni in composizione integrata dal medico dell’INPS.
È quindi indispensabile il suddetto accertamento formale che, evidentemente, non può essere surrogato dal verbale della Commissione per l’accertamento degli stati di invalidità civile di cui alla legge n. 118/71.
6. Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato.
7. Venendo in rilievo la recente pronuncia della Corte costituzionale n. 8 del 2023, le spese possono essere compensate tra le parti.
8. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello prescritto per il ricorso, ove dovuto a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.