Nel sistema previdenziale forense, infatti, la pensione si commisura alla contribuzione “effettiva”, non rilevando il principio di automatismo delle prestazioni valido nel lavoro dipendente, e il termine “effettivo” non può intendersi come sinonimo di “integrale”.
Il Giudice di seconde cure rigettava il gravame proposto da Cassa Forense volto a sentire dichiarare non dovuta la pensione di vecchiaia in capo all'avvocato per via del mancato raggiungimento dell'anzianità contributiva minima per ottenere la pensione di vecchiaia, considerata l'incompatibilità tra l'esercizio della professione forense e la carica di socio con poteri di...
Svolgimento del processo
la Corte d’appello di Catanzaro, a conferma della pronuncia del Tribunale di Cosenza, ha rigettato il gravame proposto dalla Cassa Forense diretto a sentir dichiarare non dovuta la pensione di vecchiaia in capo a F.D’I. a causa del mancato raggiungimento dell’anzianità contributiva minima per ottenere il diritto alla pensione di vecchiaia, dovuto all’incompatibilità tra l’esercizio della libera professione forense e la carica di socio con poteri di rappresentanza della società “D. di U. I. & C. s.n.c.”, ricoperta nel periodo 26.08.1981 – 22.04.2008;
la Corte territoriale ha accertato che la società aveva cessato la sua attività in data 31.12.1983, sebbene fosse stata cancellata dal Registro delle imprese nel 2008;
che, pertanto, era acclarato che non sussistesse nessuna incompatibilità, atteso che la giurisprudenza di legittimità, al fine di decretarne l’incompatibilità con l’esercizio della libera professione forense, richiede l’effettività dei poteri di gestione e di rappresentanza del professionista;
la cassazione della sentenza è domandata dalla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense sulla base di quattro motivi, illustrati da successiva memoria;
gli eredi di F. D’I., nel frattempo deceduto, hanno depositato tempestivo controricorso;
all’Adunanza il Collegio si è riservato il termine di 60 giorni per il deposito dell’ordinanza (art. 380 bis 1, secondo comma cod.proc.civ.).
Motivi della decisione
col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 3 cod. proc. civ., la Cassa Forense deduce “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2312 cod. civ.; dell’art. 3 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578; degli artt. 2 e 22 della l. 20 settembre 1980, n. 576”; ritiene erronea la statuizione della Corte d’appello nel punto in cui non ha ritenuto sussistere incompatibilità tra esercizio della professione forense e titolarità della carica sociale presso una società non ancora cancellata dal registro delle imprese;
col secondo motivo, subordinato, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 3 cod. proc. civ., lamenta “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della l. 20 settembre 1980, n. 576; dell’art. 1 del “Regolamento per la costituzione di rendita vitalizia reversibile in caso di parziale omissione di contributi per i quali sia intervenuta prescrizione della Cassa nazionale di Previdenza e assistenza forense”, per avere, la Corte d’appello ritenuto rilevanti ai fini previdenziali gli anni in cui l’avvocato ha omesso di versare i contributi o gli stessi siano caduti in prescrizione;
col terzo motivo, ulteriormente subordinato, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 5 cod. proc. civ., contesta “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, con riferimento all’anzianità di iscrizione e contribuzione dell’avv. U. d’I., depositato dalla difesa di controparte nell’ottobre 2017 dinanzi al Tribunale di Cosenza e nuovamente depositato dall’odierna ricorrente sub doc. n.6 del fascicolo d’appello”; il documento contenente il “Prospetto analitico della situazione contributiva dell’Avv. U.D’I.” proverebbe, secondo parte ricorrente, i periodi di iscrizione all’albo professionale ma non anche gli anni di iscrizione alla Cassa previdenziale degli avvocati;
esclude l’inammissibilità della censura per la presenza della cd. doppia conforme, imputando alla sentenza impugnata il vizio di cui all’art. 360, co.1, n. 5 cod. proc. civ. a titolo di travisamento della prova; a tal fine richiama Cass. n. 28174 del 2018, sostenendo che la pronuncia afferma il principio di diritto secondo cui qualora il vizio di motivazione sia fondato sul travisamento della prova, deve escludersi che si verta in ipotesi di doppia conforme, atteso che in tal caso si determina non una valutazione dei fatti, ma una constatazione che l’informazione probatoria utilizzata in sentenza è contraddetta da uno specifico atto processuale;
col quarto motivo, ulteriormente subordinato, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 3 cod. proc. civ., denuncia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della l. 1 settembre 1980, n. 576, per un differente profilo”, per non avere la sentenza di merito, dichiarato che, in caso di debito contributivo, il trattamento pensionistico debba essere riconosciuto previa ricostituzione della provvista contributiva in favore dell’ente previdenziale;
il primo motivo è infondato;
la sentenza ha applicato correttamente i principi espressi da questa Corte, secondo la quale la situazione di incompatibilità, ai fini che ci occupano, va fatta discendere dal concreto ed effettivo esercizio dei poteri gestori da parte del socio amministratore;
secondo quanto affermato da Cass. n. 23536 del 2013 (cfr., altresì Cass. n. 27797 del 2013) “L'art. 3, primo comma, del r.d.l. 22 novembre 1933, n. 1578 (convertito, con modificazioni, nella legge 22 gennaio 1934, n. 36) distingue espressamente casi di incompatibilità con la professione di avvocato collegati all'assunzione di una determinata qualità (come quella di mediatore) da altri - quale il commercio in nome proprio o altrui - per cui è necessario, invece, l'effettivo esercizio di attività”;
nel caso in esame, peraltro, l’accertamento di merito svoltosi nel solco del richiamato insegnamento ha chiarito, senza lasciare nessun dubbio o spazio interpretativo alla tesi difensiva del ricorrente, che nella società di persone di cui trattasi una gestione che potesse definirsi effettiva non sarebbe stata nemmeno possibile, in ragione della cessata attività e che, neppure il mantenimento della partita IVA da parte del D’I., in presenza di questa condizione stabile di inattività sarebbe stata idonea ad interferire col legittimo esercizio della libera professione;
il secondo motivo è parimenti infondato;
la tesi propugnata dalla difesa di parte ricorrente è stata (da tempo) superata dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha stabilito, con orientamento ormai consolidato che “Nel sistema previdenziale forense, anche gli anni non coperti da integrale contribuzione concorrono a formare l'anzianità contributiva e vanno inseriti nel calcolo della pensione di vecchiaia, in quanto nessuna norma prevede che venga "annullata" l'annualità in cui il versamento sia stato inferiore al dovuto. Ne consegue che l'art. 1 della l. n. 141 del 1992, secondo il quale la pensione di vecchiaia è pari, per ogni anno di "effettiva" iscrizione e contribuzione, all'1,75 per cento della media dei più elevati dieci redditi professionali dichiarati dall'iscritto ai fini IRPEF nel quindicennio anteriore alla maturazione del diritto a pensione, va interpretato nel senso che la pensione si commisura alla contribuzione "effettiva", non rilevando cioè il principio di automatismo delle prestazioni valido nel lavoro dipendente, mentre il termine "effettivo", estraneo al concetto di "misura", non può intendersi come sinonimo di "integrale". (Così Cass. n. 30421 del 2019; Cass. n. 5672 del 2012);
il terzo motivo è inammissibile;
la tesi della parte ricorrente appare smentita dall’orientamento prevalso presso questa Corte secondo il quale “In tema di ricorso di cassazione, il travisamento della prova, che presuppone la constatazione di un errore di percezione o ricezione della prova da parte del giudice di merito, ritenuto valutabile in sede di legittimità qualora dia luogo ad un vizio logico di insufficienza della motivazione, non è più deducibile a seguito della novella apportata all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 134 del 2012, che ha reso inammissibile la censura per insufficienza o contraddittorietà della motivazione, sicché "a fortiori" se ne deve escludere la denunciabilità in caso di cd. "doppia conforme", stante la preclusione di cui all'art. 348-ter, ultimo comma, cod. proc. civ.” (Cass. n. 24395 del 2020; Cfr. Sez. n. 15745 del 2019 e n. 22430 del 2018);
in definitiva, quando ci si trova in presenza di una “doppia conforme”, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo che intenda contestare una valutazione di merito sul contenuto di un documento è inammissibile, in quanto esorbita dai parametri fissati dall’art. 360, co.1, n. 5 cod. proc. civ. nella formulazione attualmente vigente;
il quarto motivo è inammissibile per difetto di specificità;
la Corte d’appello, così come il primo Giudice, hanno stabilito che il D’I., iscritto alla Cassa Forense dal 1971 al 2005 possedeva un periodo contributivo superiore a quello minimo individuato dalla normativa di settore; quindi, alla luce di tale accertamento il tema della contribuzione parziale/omessa non ha a porsi, atteso che, prospettato per la prima volta in sede di legittimità, esso configura un novum, sul quale non è dato pronunciarsi in sede di legittimità;
come questa Corte ha ripetutamente affermato, qualora con il ricorso per cassazione siano proposte questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, la parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegarne l'avvenuta deduzione innanzi al giudice del merito, ma altresì - in ossequio al principio di specificità del ricorso - di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente la questione oggetto della doglianza sia stata posta, in modo da consentire a questa Corte di valutare ex actis la veridicità di quanto sostenuto (ex multis, Cass. n. 6945 del 2018);
in definitiva, il ricorso va rigettato; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza, disponendosene la distrazione in favore del difensore della parte odierna controricorrente, dichiaratosi anticipatario;
in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4.000,00 a titolo di compensi professionali, da distrarsi in favore del difensore dichiaratosi antistatario, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art.1, comma 17 della l. n.228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.