
Per la Cassazione, deve trattarsi di uno stato patologico, in cui le normali facoltà «siano patologicamente perturbate, impedendo al soggetto la seria valutazione del contenuto e degli effetti dell'atto che compie e, quindi, il formarsi di una volontà che possa dirsi “cosciente”».
La Corte d'Appello di Bari dichiarava efficace in Italia la sentenza canonica di nullitàdel matrimonio concordatario, nullità derivante «grave difetto di discrezione del giudizio della convenuta circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente» e dalla «incapacità della...
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Bari con sentenza del 3 novembre 2020 ha dichiarato efficace nel territorio della Repubblica Italiana la sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario fra le parti, resa del Tribunale Ecclesiastico Regionale Pugliese il 4 ottobre 2017, dichiarata esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica il 10 dicembre 2019, nullità derivante dal “grave difetto di discrezione del giudizio della convenuta circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente” e dalla “incapacità della convenuta ad assumere gli obblighi essenziali del matrimonio per cause di natura psichica”, ai sensi del can. 1095, §§ 2 e 3, codex iuris canonici.
La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che non sussista l’elemento ostativo alla delibazione della violazione dell’ordine pubblico, nonostante l’incontestata convivenza ultratriennale della coppia: la motivazione consiste nel richiamo ad una massima, oltretutto non ufficiale, tratta da Cass. 6 luglio 2015
n. 13883, nella quale si afferma che il “vizio psichico”, assunto «dal giudice ecclesiastico come comportante inettitudine del soggetto, al momento della manifestazione del consenso, a contrarre il matrimonio», non si discosta «sostanzialmente dall’ipotesi d’invalidità contemplata dall’art. 120 c.c., cosicché è da escludere che il riconoscimento dell’efficacia di una tale sentenza trovi ostacolo in principi fondamentali dell’ordinamento italiano».
Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione la parte soccombente, affidato a tre motivi.
Resiste con controricorso l’intimato.
Le parti hanno depositato anche la memoria.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo, la parte ricorrente deduce la violazione degli artt. 82, 143 c.c., 797, comma 1, n. 7, c.p.c. e dell’art. 8, n. 2, dell’Accordo di revisione del Concordato in data 18 febbraio 1984, perché il giudice territoriale non ha tenuto conto della convivenza pluriennale della coppia, limitandosi a richiamare l’art. 120 c.c., sulla possibilità del coniuge di impugnare il matrimonio ove sia stato incapace di intendere o di volere al momento della celebrazione, senza considerare i precedenti del giudice di legittimità circa il rilievo di detta prolungata convivenza e la circostanza che tra le parti vi fu, come è pacifico, una convivenza effettiva, senza che questa abbia trovato ostacolo in una eventuale condizione di menomazione psichica della ricorrente.
Con il secondo motivo, deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 120 c.c., per avere la sentenza impugnata richiamato il disposto di tale norma, senza considerare che il precedente da essa menzionato (Cass. n. 13883/2015) non è in termini, posto che, in detta sede, non fu né eccepita la convivenza coniugale, né questa era comunque superiore al triennio.
Con il terzo motivo, deduce il vizio di motivazione contraddittoria e l’omesso esame di fatto storico decisivo, consistente nella convivenza pluriennale tra le parti.
2. – Il terzo motivo, che intende censurare la motivazione della sentenza impugnata per la sua sostanziale apparenza e contraddittorietà, è fondato ed assorbe gli ulteriori profili del terzo motivo, nonché i motivi primo e secondo.
2.1. – Questa Corte negli ultimi anni sta procedendo ad una interpretazione restrittiva dei principî enunciati dalle Sezioni unite con le decisioni nn. 16379 e 16380 del 2014 – secondo cui alla favorevole delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio osta, quale limite di ordine pubblico interno, la convivenza delle parti come coniugi protrattasi per almeno un triennio – limitandoli ai casi di nullità matrimoniale tipici e proprî unicamente del diritto canonico, ma non anche del diritto italiano.
2.2. – Con specifico riguardo alla sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio in virtù della incapacitas naturalis, ossia per «difetto di discrezione di giudizio», di cui al n.
2 del can. 1095 codex iuris canonici e per «incapacità di assumere e adempiere le obbligazioni matrimoniali essenziali», di cui al n. 3 del can. 1095 codex iuris, fattispecie, invero, ivi non di rado invocate, questa Corte (Cass., sez. I, 4 gennaio 2023, n. 149) ha enunciato due concetti, affermando che:
a) il vizio genetico posto a base della sentenza ecclesiastica di nullità dal can. 1095 nn. 2-3, che attiene all’incapacità a contrarre matrimonio, trova corrispondenza nell’ipotesi di invalidità contemplata dall’art. 120 c.c., secondo cui il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi che, sebbene non interdetto, provi di essere stato incapace di intendere o di volere, per qualunque causa, anche transitoria, al momento della celebrazione del matrimonio;
b) non esiste, nell’ordinamento nazionale, un principio di ordine pubblico secondo il quale il vizio che inficia il matrimonio possa essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso sia viziato, essendo preminente l’esigenza di rimuovere il vincolo coniugale prodotto da atto affetto da vizio psichico.
Ne ha fatto derivare il principio di diritto, secondo cui la convivenza ultratriennale non costituisce un limite di ordine pubblico in presenza di un vizio di capacità ex art. 120 c.c.
Giova, altresì, ricordare che il principio sub a) trova un precedente in una vicenda afferente l’art. 122, commi 2 ss., c.c. – sulla possibilità di impugnare il matrimonio da parte del coniuge il cui consenso sia stato dato per effetto di errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge – nella decisione in cui il vizio genetico accertato dal tribunale ecclesiastico atteneva all’errore essenziale del marito indotto da dolo della moglie sulle qualità personali della stessa, afferenti la sterilità (Cass. 19 giugno 2022, n 17910).
Dal suo canto, il principio sub b) si fonda sui precedenti della Corte secondo cui non rileva, in contrario, la diversità di disciplina nel codice civile, in particolare concernente i profili della legittimazione attiva, da un lato, e la rilevanza ostativa della coabitazione alla proponibilità dell’azione, dall’altro lato: essendosi reputate dette differenze relative a principî non essenziali dell’ordinamento italiano e non qualificabili, quindi, come di ordine pubblico (in tal senso, Cass. 7 aprile 2000, n. 4387; Cass. 7 aprile 1997, n. 3002, con riguardo all’art. 120, comma 2, c.c.; non costituisce invece un precedente Cass. 18 aprile 2014, n. 9044, la quale al riguardo contiene un mero obiter dictum).
2.3. – L’art. 120 c.c. prevede che il matrimonio può essere impugnato per l’incapacità di intendere e di volere del coniuge al momento della celebrazione, intesa come menomazione della sfera intellettiva e volitiva di tale grado da impedire di far comprendere il significato e le conseguenze dell’impegno assunto (Cass. 21 luglio 2021, n. 20862).
La disposizione dà rilievo all’incapacità di intendere o di volere di un soggetto, ossia ad un deficit psichico: alla stregua di simili condizioni, previste da numerose altre disposizioni dell’ordinamento (cfr. artt. 428, 591, 775, 1425 c.c., ma anche artt. 1191, 1389, 2046 c.c.; artt. 85, 86, 87, 88, 89, 91, 96, 98 c.p.; art. 286 c.p.p.; 4 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in tema di imputabilità per le sanzioni tributarie, e 2 l. 24 novembre 1981, n. 689, in tema di imputabilità per le sanzioni amministrative; ed altre), sebbene non occorra la totale privazione delle facoltà intellettive o volitive, è, tuttavia, necessario che esse siano grandemente menomate, a tal punto da impedire in ogni caso la formazione di una volontà cosciente.
Occorre, quindi, che il soggetto, al momento di compiere l’atto, versi in uno stato patologico – da intendere come alterazione del normale stato fisiologico – che, pur non tale da eliminare in modo totale e assoluto le facoltà psichiche, su di esse comunque incida in un modo decisivo, quindi superiore rispetto alla ordinaria situazione dovuta, ad esempio, alla mera “immaturità o fragilità affettiva”, riconducibile all’essere il soggetto, volta a volta, semplicemente “giovane” o, magari, “anziano”.
Nell’art. 120 c.c., così come nelle altre disposizioni che contemplano la figura sopra menzionate, deve invece trattarsi di uno stato patologico, in cui le normali facoltà, cioè, siano patologicamente perturbate, impedendo al soggetto la seria valutazione del contenuto e degli effetti dell’atto che compie e, quindi, il formarsi di una volontà che possa dirsi “cosciente” (non, però, nel senso della “incoscienza” che si attribuisce mediamente ai soggetti in età giovanile e che nulla ha di patologico, se non l’entusiasmo e l’energia vitale): come quando viene rilevata la presenza di «disturbi della parola, episodi di disorientamento temporale e spaziale e disturbi mnesici» (così Cass. 30 maggio 2017, n. 13659, in tema di donazione), la «demenza senile, il deterioramento cognitivo e una sindrome involutiva» (Cass. 2 ottobre 2015, n. 19767, in tema di incapacità di intendere e di volere del testatore e sospensione ex art. 295 c.p.c.), le «diminuite facoltà intellettive e volitive del soggetto circa l’esercizio di un’opzione cosciente» (in tema di dimissioni del lavoratore: Cass. 28 novembre 2016, n. 24122; Cass. 8 marzo 2005, n. 4967; Cass. 1° settembre 2011 n. 17977; Cass. 12 marzo 2004 n. 5159), una «patologia psicotica con marcata disabilità neurologica e relazionale necessitante un trattamento farmacologico e psicoterapeutico da parte di uno staff specializzato» (Cass. 21 gennaio 2016, n. 1070), la «sindrome ansioso-depressiva», ma soltanto se sia di «tale gravità da far venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e da seriamente inibire la sua capacità di valutazione dell’atto» (Cass. 28 ottobre 2014, n. 22836, in tema di dimissioni), «un grave deterioramento mentale con frequenti episodi di disorientamento temporo-spaziale, amnesie ... tanto da dover essere coadiuvato dal figlio per eseguire le varie manovre semeiologiche in quanto non comprendeva il significato di ciò che gli veniva detto» (Cass. 3 gennaio 2014, n. 59, sulla donazione), la «demenza arteriosclerotica ingravescente» (Cass. 9 agosto 2011, n. 17130, nonché Cass. 2 dicembre 2022, n. 35466), la «oligofrenia di grado medio-lieve, insorto fin da bambina, con chiaro deficit delle capacità critiche e di giudizio» (Cass. 13 ottobre 2022, n. 29962), l’essere il soggetto «afasico, incapace di provvedere ad atti elementari, inclusa le incombenze della vita domestica e quotidiana e la gestione del denaro, nonché mancante di orientamento spazio-temporale» (Cass. 17 giugno 2021, n. 17381, nella vendita), il «disturbo delirante paranoideo in fase di scompenso» della lavoratrice al momento delle dimissioni (Cass. 13 febbraio 2019, n. 4232), lo «stato soporoso e marasmatico» (Cass. 12 giugno 2020, n. 11272, in tema di procura ad operare sul conto corrente).
Tale stato psichico si apprezza, in particolare, nel confronto differenziale con la fattispecie dell’art. 643 c.p. in tema di circonvenzione di persone incapaci, reato il quale sanziona la condotta di chi «per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata…»: e dove la situazione mera “inesperienza” ed immaturità è ben distinta dallo stato di “infermità o deficienza psichica”.
Come questa Corte ha rilevato, non sussiste «omogeneità tra la fattispecie dell’art. 643 c.p. e quella dell’art. 428 c.c., posto che il concetto di deficienza psichica, nella prima ipotesi, è stato, dalla giurisprudenza della S.C., esteso fino a ricomprendere qualsiasi menomazione del potere di critica, qualsiasi indebolimento della funzione volitiva o affettiva che agevolino la suggestionabilità e diminuiscano i poteri di difesa del soggetto passivo (situazioni che sono state ricollegate ai più diversi fattori, quali il sesso, l’età, la debolezza di carattere, la carenza di cultura e di rapporti interpersonali … ), mentre per l’incapacità naturale di cui all’art.
428 c.c. si è richiesta una menomazione della sfera intellettiva o volitiva di particolare gravità, pari a quella necessaria per la pronunzia di interdizione, pur se momentanea e transitoria» (Cass. 29 ottobre 1994, n. 8948, in cui veniva in rilievo solo la «semplicità e suggestionabilità» del soggetto).
Quindi, si è chiarito (Cass. 19 maggio 2016, n. 10329, ed altre) come l’art. 428 c.c. richieda l’accertamento di uno stato patologico psichico che non consente né di comprendere sul piano intellettivo e cognitivo la natura e gli effetti dell’atto che si compie, né d’impegnare liberamente la volontà personale nel regolamento d’interessi contenuto nell’atto predetto, laddove nell’art. 643 c.p. non è necessario che si sia determinata una condizione d’incapacità d’intendere e volere ancorché transitoria, come richiesto ai fini dell’incapacità naturale, ovvero un sostanziale azzeramento della capacità cognitivo-intellettiva e di quella volitiva, essendo invece sufficiente che l’autore dell’atto versi in una situazione soggettiva di “fragilità” psichica, derivante dall’età, dall’insorgenza o dall’aggravamento di una patologia neurologica o psichiatrica anche, come efficacemente indica la giurisprudenza penale di questa corte, «dovuta ad anomale dinamiche relazionali», che consenta all’altrui opera di suggestione ed induzione di deprivare il personale potere di autodeterminazione, di critica e di giudizio (cfr. Cass. pen. n. 36424/2015).
Altra è la diagnosi di incapacità d’intendere e volere, altra la mera “fragilità” del soggetto, posto che, in questo secondo caso, egli ben può rappresentarsi cognitivamente gli effetti dell’atto ed essere in una mera minorata condizione di autodeterminazione, che tuttavia non è ancora un’incapacità d’intendere e volere, ossia una condizione di grave compromissione di tale capacità, ancorché non assoluta, ma richiesta ai fini dell’annullamento del contratto dall’art. 428 c.c. ed ai fini della nullità del matrimonio dall’art. 120 c.c.
Per il riscontro dell’incapacità naturale, si richiede una «anomalia qualificata cronologicamente e puntualmente ancorata al momento della confezione» dell’atto (Cass. 2 ottobre 2015, n. 19767, sull’art. 591 c.c., comma 2, n. 3), giacché l’annullamento per incapacità naturale «postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive (…), bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia privo (…) della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi» (Cass. 15 aprile 2010, n. 9081).
Non basta, in conclusione, ad integrare la fattispecie dell’art. 120 c.p.c. una situazione descritta come di mera deficienza caratteriale o immaturità, per non avere uno o entrambi i coniugi valutato la rilevanza dell’atto, il matrimonio canonico, in sé “indissolubile” e, dunque, di portata davvero rilevante, in quanto destinato per scelta originaria a durare “per tutta la vita”: l’incapacità di valutare ex ante la rilevanza di un vincolo senza termini non significa necessariamente deficit psichico, ai sensi delle ricordate disposizioni dell’ordinamento italiano.
2.4. – Il controllo sulla circostanza se i vizi, come riscontrati dalla sentenza del tribunale ecclesiastico, si inquadrino in una delle cause di nullità del matrimonio riconosciute dall’ordinamento italiano spetta alla corte d’appello, quale giudice della delibazione, il cui operato è quindi controllabile in sede di legittimità dalla Corte di cassazione con riguardo alla corretta sussunzione nelle norme sulla nullità del matrimonio, di cui al Titolo VI, Capo III, Sezione VI del libro primo del codice civile.
2.5. – Nella specie, la sentenza impugnata reca una motivazione insussistente, limitandosi, da un lato, a richiamare un precedente non in termini (Cass. 6 luglio 2015, n. 13883), che costituisce una sentenza non massimata e della quale riporta quindi solo una massima redazionale, senza avvedersi che, peraltro, in quella concreta vicenda non era stata eccepita la convivenza ultratriennale ed essa era stata altresì di minor durata (cfr. Cass. n. 13883/2015, in motivazione: «In primo luogo deve rilevarsi che non trovano applicazione nella specie i principi elaborati nella recente pronuncia delle S.U. 16379 del 2014 dal momento che non risulta eccepita tempestivamente la convivenza coniugale come causa ostativa al riconoscimento della sentenza canonica. Peraltro la durata indicata dalla medesima parte ricorrente è inferiore a quella minima, indicata in tre anni, nella sentenza sopra richiamata»); e, dall’altro lato, non spendendo neppure una parola per adattarlo o per giustificare come quel precedente potesse guidare la soluzione del caso affidato alla sua cura, dato che i presupposti concreti processuali e sostanziali si presentavano radicalmente così diversi.
Soprattutto, dalla motivazione della sentenza impugnata non è dato neppure comprendere quale fosse la ragione della ritenuta integrazione del vizio nel diritto canonico, al fine di valutare se esso fosse sussumibile nell’art. 120 c.p.c.
Ed invero, oltre al ricordato richiamo di una massima non in termini, per il resto la sentenza impugnata si limita ad una motivazione “di stile”: la domanda «merita di essere accolta, in presenza di tutte le condizioni di legge», in quanto «non è dubbia la sussistenza della competenza del giudice ecclesiastico», «il giudizio canonico si è svolto nel rispetto del principio del contraddittorio», «l’istruttoria si è svolta con l’audizione delle parti», «la delibanda sentenza, divenuta definitiva, non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano»: motivazione che potrebbe essere ritenuta esistente, pur nella sua sinteticità, solo se l’ultimo ed essenziale profilo fosse stato effettivamente e non solo apparentemente vagliato.
5. – La sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio per nuovo esame della controversia alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi nella sede di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo del ricorso, nei limiti di cui in motivazione, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia innanzi alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, cui demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.
Dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma dell’art. 52 d.lgs. n. 196 del 2003.