«La paralisi sine die del processo per i delitti di tortura commessi da agenti pubblici, quale deriverebbe dall'impossibilità di notificare personalmente all'imputato gli atti di avvio del processo medesimo a causa della mancata cooperazione dello Stato di appartenenza, non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale». Lo afferma la Consulta nella sentenza sul processo Regeni.
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«Lo statuto universale del crimine di tortura, delineato dalle dichiarazioni sovranazionali e dai trattati, “è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana. Pertanto, il dovere dello Stato di accertare giudizialmente la commissione di questo delitto si presenta come “il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità”». |
Sulla scorta di tale affermazione, la Consulta, con sentenza n. 192 del 26 ottobre 2023, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'
Nelle sue argomentazioni, la Corte costituzionale ha osservato che l'impossibilità di notificare personalmente all'imputato gli atti di avvio del processo medesimo a causa della mancata cooperazione dello Stato di appartenenza determinerebbe una paralisi sine diedel processo per i delitti di tortura commessi da agenti pubblici, la quale «non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale».
Essa infatti «si risolve nella creazione di un'immunità de facto», che offende i diritti inviolabili della vittima (art. 2 Cost.), il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e gli standard di tutela dei diritti umani, recepiti e promossi dalla Convenzione di New York (art. 117, c. 1, Cost.).
La stasi del processo potrebbe essere evitata senza alcuna riduzione delle facoltà partecipative dell'imputato, ma imprimendo ad esse una diversa scansione temporale, che si riassume nel diritto dell'imputato a ottenere in ogni fase e grado la riapertura del processo.
Su tale diritto, la cui attuazione è rimessa al giudice comune nella concretezza del singolo caso, la Consulta ha sottolineato che esso, proprio perché conserva all'imputato ogni facoltà processuale, garantisce che la procedibilità in assenza per i delitti di tortura statale sia «rispettosa del principio del giusto processo».
Corte costituzionale, sentenza (ud. 27 settembre 2023) 26 ottobre 2023, n. 192
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 31 maggio 2023, iscritta al n. 89 del registro ordinanze 2023, il Giudice per le indagini preliminari [recte: Giudice dell’udienza preliminare] del Tribunale ordinario di Roma ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato», nonché dell’art. 420-bis, comma 3, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento[,] dipende dalla mancata assistenza giudiziaria o dal rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato».
Il giudice a quo evoca i parametri di cui agli artt. 2, 3, 24, 111, 112 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione alla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498.
Tali parametri sarebbero violati dalle denunciate omissioni normative, che renderebbero impossibile anche solo incardinare il processo per l’accertamento dei fatti di reato commessi in danno di Giulio Regeni, cittadino italiano, dottorando presso la Cambridge University, trovato senza vita il 3 febbraio 2016, in Egitto, lungo la Desert Road Cairo-Alessandria.
2.– L’ordinanza di rimessione espone lo svolgimento del procedimento nei termini seguenti.
2.1.– In data 20 gennaio 2021, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma chiedeva il rinvio a giudizio di S. T., I. M. A. K., H. U. e S. A. M. I., cittadini egiziani, dichiarati irreperibili con decreti del 28 gennaio 2020.
A costoro, tutti graduati del servizio di sicurezza interno egiziano (National Security Agency), era ascritta l’imputazione di sequestro di persona pluriaggravato, per avere, in concorso tra loro e con altri soggetti non identificati, bloccato Giulio Regeni all’interno della metropolitana del Cairo e quindi privato lo stesso della libertà personale per nove giorni, dal 25 gennaio al 2 febbraio 2016.
Il solo S. A. M. I. era altresì imputato dei delitti di lesioni personali e omicidio pluriaggravati, per avere, in concorso con altri soggetti non identificati, cagionato a Giulio Regeni lesioni severe e diffuse, a distanza di più giorni, con atti crudeli e mezzi violenti, fino a provocarne la morte.
2.2.– In data 25 maggio 2021, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma, verificata la regolarità delle notifiche eseguite ai sensi dell’art. 159 cod. proc. pen., con ordinanza ex art. 420-bis dello stesso codice disponeva procedersi in assenza degli imputati, rinviandoli a giudizio dinanzi alla Corte di assise di Roma per l’udienza del 14 ottobre 2021.
Con riferimento alla dichiarazione di assenza, il GUP riteneva che gli imputati avessero avuto piena consapevolezza dell’esistenza del procedimento a loro carico e che quindi volontariamente si fossero sottratti alla conoscenza formale dei relativi atti, non rendendone possibile la notificazione; ciò non soltanto per essere stati essi più volte sentiti dalla magistratura egiziana in rogatoria e più volte invitati a eleggere domicilio in Italia, ma anche in ragione della loro appartenenza all’apparato di sicurezza locale e per la vasta diffusione mediatica della notizia.
2.3.– All’udienza dibattimentale del 14 ottobre 2021, la Corte di assise di Roma dichiarava la nullità della declaratoria di assenza e del conseguente decreto di rinvio a giudizio, ordinando la restituzione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare.
La Corte di assise reputava infatti che non vi fossero indici fattuali sufficienti a garantire che gli imputati, pur edotti del procedimento, avessero effettiva conoscenza della vocatio in iudicium e che fosse quindi impossibile concludere che essi stessero tentando di sottrarsi al giudizio o avessero rinunciato al diritto di parteciparvi; né, ad avviso del Collegio, vi era evidenza che gli imputati medesimi avessero avuto un ruolo nella pur comprovata determinazione delle autorità egiziane di non collaborare con quelle italiane.
2.4.– In data 10 gennaio 2022, nell’udienza successiva alla restituzione degli atti, il GUP riteneva di non poter accogliere la richiesta del pubblico ministero e delle costituende parti civili di dichiarare l’assenza degli imputati e disponeva quindi, previe nuove ricerche, la notifica personale ai medesimi per l’ulteriore udienza dell’11 aprile 2022.
A tale udienza, considerata la perdurante impossibilità di rintracciare gli imputati, il giudice ordinava la sospensione del processo, a norma dell’art. 420-quater, comma 2, cod. proc. pen., testo pro tempore vigente.
2.5.– Avverso questa ordinanza il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma ricorreva per cassazione, denunciandola come atto abnorme, per induzione di una stasi processuale.
Il ricorso era dichiarato inammissibile dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, con sentenza resa nella camera di consiglio del 15 luglio 2022, la cui motivazione era depositata in data 9 febbraio 2023 (sentenza n. 5675 del 2023).
2.6.– In attesa del deposito della motivazione di tale sentenza, si svolgeva innanzi al GUP del Tribunale di Roma l’udienza del 10 ottobre 2022, inerente alle ulteriori ricerche di polizia giudiziaria per il rintraccio degli imputati e all’interlocuzione del Ministero della giustizia con la Procura generale della Repubblica Araba d’Egitto.
Dal complesso di questa attività emergeva la mancanza di una reale volontà collaborativa delle autorità egiziane, manifestata in particolare con l’opposizione del principio del ne bis in idem sulla base di un semplice provvedimento di archiviazione (memorandum del 26 dicembre 2020), adottato, a discarico dei quattro ufficiali della National Security Agency, non da un giudice terzo e imparziale, ma dallo stesso organo inquirente, non autonomo, nell’ordinamento egiziano, rispetto all’autorità di Governo.
2.7.– Come detto, in data 9 febbraio 2023, era depositata la motivazione della sentenza con la quale la Corte di cassazione, dichiarando inammissibile il ricorso del pubblico ministero, ha ritenuto non affetta da abnormità l’ordinanza di sospensione del processo assunta dal GUP del Tribunale di Roma in data 11 aprile 2022, al pari di quella emanata in data 14 ottobre 2021 dalla Corte di assise di Roma, con la quale era stata a sua volta annullata la precedente declaratoria di assenza degli imputati.
Tale motivazione ha esposto le ragioni per le quali dovrebbe ritenersi immune da vizi logici e giuridici la valutazione sottesa ad entrambi quei provvedimenti, in ordine all’insufficienza degli indizi addotti per comprovare la conoscenza della vocatio in iudicium da parte dei quattro cittadini egiziani cui sono ascritte le imputazioni.
2.8.– Alla conseguente udienza tenuta dal GUP del Tribunale di Roma in data 3 aprile 2023, il Procuratore della Repubblica ha chiesto sollevarsi questioni di legittimità costituzionale dell’art. 420-bis cod. proc. pen., come nel frattempo sostituito dall’art. 23, comma l, lettera c), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), nella parte in cui non prevede che si possa procedere in assenza dell’accusato nei casi in cui la formale mancata conoscenza del procedimento dipenda dalla mancata assistenza giudiziaria da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’accusato stesso.
Il GUP si è riservato di decidere fino all’udienza del 31 maggio 2023, all’esito della quale ha pronunciato l’ordinanza di rimessione.
3.– In ordine alla rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, il giudice a quo rappresenta che, per effetto della già disposta sospensione del processo, deve trovare applicazione la disciplina transitoria di cui all’art. 89, comma 2, del d.lgs. n. 150 del 2022, secondo la quale, ove perduri l’impossibilità di rintracciare gli imputati, deve essere emessa sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo, ai sensi del novellato art. 420-quater cod. proc. pen.
Osserva infatti il rimettente che, per quanto possa «ritenersi ragionevole e verosimile presumere che gli imputati, i quali hanno anche partecipato alle indagini egiziane e sono stati sentiti come persone informate dei fatti dal pubblico ministero italiano, siano a conoscenza del procedimento a loro carico in Italia per il sequestro di persona, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni», tuttavia «ciò non basta, perché la normativa vigente sul processo in assenza[,] è stata introdotta allo scopo di escludere ogni presunzione di conoscenza e di procedere in assenza dell’imputato solamente quando è effettiva la conoscenza del processo a suo carico, sia in ordine alle imputazioni sia in ordine alla “vocatio in iudicium” ovvero è positivamente provata la sua volontà di sottrarsi al processo».
3.1.– Non sarebbe d’altronde praticabile un’interpretazione alternativa della norma censurata, poiché l’unica interpretazione consentita dalla lettera e dalla ratio della stessa è «quella che esclude di ritenere “presunta” la effettiva conoscenza della pendenza del processo e/o la volontà dell’imputato di non comparire in udienza preliminare, ovvero di ritenere “presunta” la volontà dell’imputato di sottrarsi alla conoscenza del processo».
Da qui la rilevanza delle questioni, poiché soltanto la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, commi 2 e 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l’ipotesi che la mancata conoscenza del processo sia dovuta all’accertato rifiuto di assistenza giudiziaria da parte dello Stato estero di appartenenza o di residenza dell’imputato, consentirebbe di procedere in assenza dei quattro imputati, essendo stato accertato il rifiuto delle autorità egiziane di prestare assistenza a quelle italiane per la notifica degli atti di vocatio agli imputati medesimi, come già detto tutti ufficiali in servizio, all’epoca dei fatti, presso la National Security Agency.
3.2.– La rilevanza delle questioni non sarebbe esclusa dall’argomento, speso dalla difesa d’ufficio degli imputati, per cui l’effettiva conoscenza del processo da parte di costoro verrebbe sacrificata per la condotta altrui, cioè delle autorità dello Stato di appartenenza.
Secondo il rimettente infatti, «diversamente che per le vittime del reato e per i prossimi congiunti che non possono costituirsi parti civili e subiscono un indubbio pregiudizio dalla condotta ostruzionistica dello Stato estero di appartenenza degli imputati, questi ultimi al contrario beneficiano di una sostanziale immunità penale».
4.– Circa la non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente premette l’enunciazione dei «fattori certi» del caso sottoposto al suo giudizio: la volontà delle autorità egiziane di non prestare assistenza a quelle italiane per consentire la vocatio in iudicium degli imputati stranieri; la conoscenza da parte di questi ultimi del procedimento che si svolge in Italia a loro carico; l’impossibilità di notificare gli atti processuali agli imputati quale conseguenza del rifiuto di cooperazione delle autorità egiziane; il sacrificio del diritto dei familiari di Giulio Regeni ad un giusto processo nel quale potersi costituire parte civile, affinché siano accertate le responsabilità inerenti al sequestro, la tortura e l’omicidio del loro caro; l’impossibilità per il giudice dell’udienza preliminare di verificare se gli imputati si stiano sottraendo volontariamente al processo in Italia o se stiano invece anch’essi subendo la condotta delle autorità del loro Paese.
4.1.– La norma censurata violerebbe anzitutto gli artt. 2 e 3 Cost., consentendo allo Stato estero di erigere «una inammissibile “zona franca” di impunità per i cittadini-funzionari», in ordine a delitti lesivi dei diritti inviolabili della persona.
Risulterebbe violato anche il principio di ragionevolezza, in quanto il giudice italiano sarebbe gravato di una probatio diabolica a fronte dell’ostruzionismo dello Stato di appartenenza degli imputati.
Vi sarebbe poi un difetto di bilanciamento, giacché, mentre in favore dell’imputato processato in assenza sono previsti rimedi ove provi di non aver potuto partecipare al giudizio per forza maggiore, caso fortuito o altro legittimo impedimento, ai familiari della vittima non è dato alcun rimedio per superare l’ostacolo processuale determinato dalla condotta ostruzionistica dello Stato di appartenenza dell’imputato.
4.2.– Sarebbe violato anche l’art. 24 Cost., in correlazione con gli artt. 2 e 3 Cost.
L’impossibilità di agire in giudizio a tutela dei diritti fondamentali della persona, derivante dalla mancata cooperazione dello Stato di appartenenza degli imputati, si risolverebbe in una violazione dei diritti medesimi, come già stabilito da questa Corte (si richiama la sentenza n. 238 del 2014, in tema di azioni risarcitorie per crimini di guerra del Terzo Reich) e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a proposito delle indagini per tortura e altre gravi violazioni dei diritti umani.
Alla lesione del diritto di azione dei familiari della vittima corrisponderebbe quella del diritto di difesa degli imputati, il cui esercizio sarebbe del pari impedito dalla condotta ostruzionistica dello Stato estero.
Ad avviso del giudice a quo, la disciplina italiana sul processo in assenza «entra dunque in crisi sistemica, proprio perché non vi è una norma che preveda un rimedio in casi di questo genere», mancanza che finirebbe anche per incentivare condotte di ostruzionismo, altrimenti inutili.
Il «contrappeso» che verrebbe dalla richiesta pronuncia additiva di questa Corte individuerebbe un razionale punto di equilibrio, poiché l’ordinamento italiano garantisce all’imputato processato in assenza mezzi restitutori nel caso in cui egli non abbia avuto conoscenza del processo o non abbia potuto parteciparvi per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, e comunque non per sua colpa.
Viceversa, la norma censurata «fa gravare sulle vittime del reato e costituende parti civili, il rischio del fatto del terzo», cioè della condotta ostruzionistica dell’autorità estera.
4.3.– Sarebbe altresì violato l’art. 111 Cost., in uno all’art. 3 Cost.
Invero, consentendo allo Stato estero di impedire a propria volontà lo svolgimento del giudizio, la norma censurata lederebbe i principi del giusto processo e, insieme ad essi, anche il principio di uguaglianza, considerato che per fatti analoghi, nei confronti di stranieri appartenenti a Stati collaborativi, il processo può essere celebrato.
D’altronde, «in mancanza di una disciplina che consenta di procedere in assenza dell’imputato, quando il suo Stato di appartenenza o di residenza non cooperi con il giudice terzo ed imparziale, tutte le norme sul “giusto processo” sono rese vane, svuotate di contenuto», atteso che «[n]on vi è processo più “ingiusto” di quello che non si può instaurare per volontà di una [a]utorità di Governo».
4.4.– È poi dedotta la violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’art. 112 Cost., «precipitato processuale» del principio di uguaglianza.
La mancanza di una norma che consenta di procedere in assenza quando vi è il rifiuto di cooperazione dello Stato estero di appartenenza dell’imputato implicherebbe che l’azione penale resti «subordinata al potere esecutivo dello Stato straniero».
4.5.– Infine, sarebbe violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura, ratificata sia dall’Italia che dall’Egitto.
Rammentato che i fatti oggetto delle imputazioni rientrano nella nozione di tortura enunciata dall’art. l della Convenzione, il giudice a quo sostiene che la norma censurata, dove non consente di procedere in assenza contro gli imputati del delitto di tortura quando lo Stato estero di appartenenza non cooperi con l’autorità giudiziaria italiana, violi l’obbligo, sancito dagli artt. 6 e 7 della Convenzione medesima, di instaurare un processo nello Stato della vittima, anche qualora non sia concessa l’estradizione dei presunti autori; la violazione da parte dello Stato egiziano degli obblighi di assistenza giudiziaria stabiliti dall’art. 9 della Convenzione farebbe dunque emergere una lacuna normativa che pone l’ordinamento italiano nelle condizioni di non poter esso stesso osservare gli obblighi convenzionali.
Motivi della decisione
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 89 del 2023), il Giudice per le indagini preliminari [recte: Giudice dell’udienza preliminare] del Tribunale ordinario di Roma ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato», nonché dell’art. 420-bis, comma 3, dello stesso codice, «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento, dipende dalla mancata assistenza giudiziaria o dal rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato».
Impedendo di instaurare il processo per l’accertamento dei fatti di reato commessi in danno di Giulio Regeni, cittadino italiano, dottorando presso la Cambridge University, trovato senza vita il 3 febbraio 2016, in Egitto, lungo la Desert Road Cairo-Alessandria, le denunciate lacune normative violerebbero gli artt. 2, 3, 24, 111, 112 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura.
2.– Il giudice a quo riferisce che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di quattro ufficiali della National Security Agency egiziana, ai quali è stata ascritta l’imputazione di sequestro di persona pluriaggravato, per avere, in concorso tra loro e con altri soggetti non identificati, bloccato Giulio Regeni all’interno della metropolitana del Cairo e quindi privato lo stesso della libertà personale per nove giorni, dal 25 gennaio al 2 febbraio 2016; ad uno di loro, inoltre, è stata ascritta l’imputazione di lesioni personali e omicidio pluriaggravati, per avere, in concorso con altri soggetti non identificati, cagionato a Giulio Regeni, a distanza di più giorni, lesioni severe e diffuse, con sevizie e crudeltà, fino a provocarne la morte.
Il rimettente aggiunge che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma, in data 25 maggio 2021, ha disposto procedersi in assenza degli imputati e li ha pertanto rinviati a giudizio dinanzi alla Corte di assise di Roma, la quale tuttavia, all’udienza dibattimentale del 14 ottobre 2021, ha annullato la declaratoria di assenza e il conseguente rinvio a giudizio, ordinando la restituzione degli atti al GUP.
2.1.– Per quanto ancora riferisce l’ordinanza di rimessione, all’esito negativo di ulteriori ricerche, il medesimo GUP, in data 11 aprile 2022, ha disposto la sospensione del processo, a norma dell’art. 420-quater, comma 2, cod. proc. pen., testo pro tempore vigente.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma ha impugnato tale provvedimento deducendone il carattere abnorme, ma la Corte di cassazione, prima sezione penale, ha dichiarato il ricorso inammissibile, con sentenza 15 luglio 2022-9 febbraio 2023, n. 5675.
2.2.– All’esito di successivi e vani tentativi di rintracciare gli imputati per le notifiche di rito, acquisite inoltre le negative risultanze dell’interlocuzione del Ministero della giustizia con la Procura generale della Repubblica Araba d’Egitto, il giudice a quo, su eccezione del pubblico ministero, ha sollevato le riferite questioni di legittimità costituzionale.
2.3.– In ordine alla rilevanza delle questioni medesime, il rimettente deduce che, per effetto della già disposta sospensione del processo, deve trovare applicazione la disciplina transitoria di cui all’art. 89, comma 2, del d.lgs. n. 150 del 2022, per cui, attesa la persistente impossibilità di rintracciare gli imputati, dovrebbe essere emessa sentenza di non doversi procedere, ai sensi del novellato art. 420-quater cod. proc. pen., esito che, considerata l’univocità testuale e logica della norma, non potrebbe essere evitato mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata.
2.4.– Ne scaturirebbe la violazione degli artt. 2, 3 e 24 Cost., poiché allo Stato estero sarebbe consentito istituire «una inammissibile “zona franca” di impunità per i cittadini-funzionari», che ridonderebbe in un’irreparabile lesione dei diritti inviolabili delle vittime, tra i quali il diritto di accedere al giudice.
Sarebbe violato poi l’art. 111 Cost., perché «[n]on vi è processo più “ingiusto” di quello che non si può instaurare per volontà di una [a]utorità di Governo».
Sarebbe compromesso anche il principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’art. 112 Cost., poiché la pretesa punitiva risulterebbe nei fatti «subordinata al potere esecutivo dello Stato straniero».
Considerata la natura dei fatti oggetto delle imputazioni, sarebbe infine violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura, ratificata sia dall’Italia che dall’Egitto, quest’ultima radicando la giurisdizione penale del giudice italiano circa gli atti di tortura commessi all’estero ai danni del cittadino italiano, e nel contempo impegnando gli Stati parte a prestarsi reciproca e massima assistenza per la persecuzione degli atti proibiti dal testo pattizio.
3.– Questa Corte è chiamata a pronunciarsi su una fattispecie segnata dall’irrisolta tensione tra il diritto fondamentale dell’imputato a presenziare al processo, l’obbligo per lo Stato di perseguire crimini che consistano in atti di tortura e il diritto – non solo della vittima e dei suoi familiari, ma dell’intero consorzio umano – all’accertamento della verità processuale sulla perpetrazione di tali crimini.
Il punto di caduta di questa tensione attinge la disciplina del processo in absentia, che regola le ipotesi e le condizioni in costanza delle quali soltanto l’imputato può essere giudicato senza essere presente.
Su tale disciplina il rimettente chiede di incidere per via additiva, sicché appare opportuno ripercorrerne l’evoluzione, peraltro orientata da ripetuti interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo.
4.– Fino alla legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), la disciplina della non presenza dell’imputato ha ruotato attorno all’istituto della contumacia, retaggio del codice di procedura penale del 1930.
Con il nuovo codice di procedura penale del 1988 e, già prima della sua entrata in vigore, con la legge 23 gennaio 1989, n. 22 (Nuova disciplina della contumacia), il legislatore ha introdotto modifiche improntate a una maggiore attenzione alle esigenze partecipative dell’imputato, estendendo le cosiddette garanzie ex post, cioè i rimedi che consentono all’imputato non presente di recuperare le facoltà processuali delle quali sia stato ingiustamente privato o dalle quali sia incolpevolmente decaduto.
In particolare, sulla scelta del legislatore aveva influito la decisione della Corte EDU nella quale si sottolineava la necessità di assicurare al contumace inconsapevole il diritto a un nuovo processo, e quindi una nuova valutazione del merito dell’accusa («a fresh determination of the merits of the charge») (sentenza 12 febbraio 1985, Colozza contro Italia).
4.1.– La principale disposizione funzionale a questa garanzia ex post, cioè l’art. 175 cod. proc. pen. sulla restituzione nel termine di impugnazione della sentenza contumaciale, era stata tuttavia giudicata insufficiente dalla sentenza della Corte EDU, grande camera, 1° marzo 2006, Sejdovic contro Italia, soprattutto per l’onere probatorio fatto gravare sull’imputato, giacché questi, per poter essere reintegrato nella facoltà impugnatoria, doveva provare di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento senza sua colpa, il che metteva in dubbio l’effettività dell’accesso alla «fresh determination».
Nel frattempo, già prima di tale pronuncia, il decreto-legge 21 febbraio 2005, n. 17 (Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna), convertito, con modificazioni, nella legge 22 aprile 2005, n. 60, aveva, tra l’altro, invertito l’onere della prova a favore dell’imputato, disponendo che questi fosse restituito nel termine di impugnazione «a sua richiesta», salvo l’autorità giudiziaria avesse verificato che egli aveva avuto effettiva conoscenza del «procedimento» o del «provvedimento» e volontariamente avesse rinunciato a comparire nell’uno o ad impugnare l’altro.
Inoltre, era eliminata la preclusione alla restituzione nel termine per l’imputato in caso di impugnazione già proposta dal difensore. Successivamente, questa Corte (sentenza n. 317 del 2009) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non consentiva la restituzione dell’imputato, che non avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, quando analoga impugnazione fosse stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato.
4.2.– Pur in questo contesto di accresciute garanzie per l’imputato, il fatto stesso che il processo contumaciale generasse un vasto contenzioso inerente al profilo della restituzione nel termine di impugnazione evidenziava la crisi irreversibile del modello e la necessità di una riforma ab imis.
D’altronde, come questa Corte ha osservato nella sentenza n. 102 del 2019, ben poteva il legislatore, «nell’esercizio della sua discrezionalità, disciplinare diversamente la fattispecie del giudizio celebrato non in presenza dell’imputato ed è ciò che ha fatto con la legge n. 67 del 2014, operando una scelta radicalmente diversa: non più un rimedio restitutorio ex post a tutela dell’imputato giudicato in contumacia, ma garanzie ex ante a tutela dell’imputato giudicato in sua assenza».
4.3.– Con la riforma del 2014, all’istituto della contumacia è stato sostituito quello dell’assenza, in una prospettiva di accentuazione delle garanzie ex ante, pur mantenendo i rimedi ex post un’importante funzione di chiusura del sistema.
In particolare, la novella ha modificato l’art. 420-bis cod. proc. pen., qual era stato introdotto dall’art. 19, comma 2, della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense).
Sostituito dall’art. 9, comma 2, della legge n. 67 del 2014, l’art. 420-bis cod. proc. pen. stabiliva che, se l’imputato non è presente all’udienza e ha espressamente rinunciato ad assistervi, il giudice procede in sua assenza (comma 1); che il giudice procede altresì in assenza dell’imputato il quale nel corso del procedimento abbia dichiarato o eletto domicilio ovvero sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare ovvero abbia nominato un difensore di fiducia, nonché nel caso in cui l’imputato assente abbia ricevuto personalmente la notificazione dell’avviso dell’udienza ovvero risulti comunque con certezza che lo stesso è a conoscenza del «procedimento» o si è volontariamente sottratto alla conoscenza «del procedimento o di atti del medesimo» (comma 2); che, quando si procede in assenza, l’imputato è rappresentato dal difensore, così come nel caso in cui egli, dopo essere comparso, si allontani dall’aula di udienza ovvero, presente a una udienza, non compaia alle successive (comma 3).
Nel sistema riformato, le garanzie ex post erano distribuite lungo tutto il corso processuale, e coprivano sia l’ipotesi in cui l’assenza fosse stata dichiarata fuori dei casi di legge, sia quella in cui fosse stata correttamente dichiarata e tuttavia l’imputato potesse provare di essere incolpevolmente decaduto da una facoltà processuale (artt. 420-bis, comma 4, 489, comma 2, 604, comma 5-bis, e 623, comma 1, lettera b, cod. proc. pen.).
Era inoltre prevista un’ulteriore garanzia di chiusura: quella per cui il condannato, nei cui confronti si fosse proceduto in assenza per tutta la durata del processo, poteva chiedere la rescissione del giudicato ove avesse provato che l’assenza era stata dovuta a una «incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo», ossia proprio alla mancata conoscenza della vocatio in iudicium, al di là della (eventualmente pur avvenuta) conoscenza del «procedimento», con l’effetto radicale della revoca della sentenza di condanna e della trasmissione degli atti al giudice di primo grado per la rinnovazione del giudizio (art. 625-ter cod. proc. pen.).
Il presupposto e l’effetto della rescissione del giudicato sono rimasti analoghi anche quando, in un più ampio contesto riformatore, l’istituto è stato riformulato nell’art. 629-bis cod. proc. pen. (ex art. 1, comma 71, della legge 23 giugno 2017, n. 103, recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario»). La riforma del 2014 si completava, poi, con la previsione della sospensione del processo. Infatti, sostituiti rispettivamente dai commi 3 e 4 dell’art. 9 della legge n. 67 del 2014, l’art. 420-quater cod. proc. pen. stabiliva che, ove non potesse procedersi nell’assenza dell’imputato, né notificargli personalmente l’avviso di udienza, il giudice dovesse ordinare la sospensione del processo, mentre il successivo art. 420-quinquies prescriveva in regime di sospensione nuove ricerche dell’imputato a cadenza tendenzialmente annuale, per l’eventuale notifica dell’avviso di udienza e la conseguente ripresa del procedimento.
4.4.– Più recentemente, un’ulteriore riforma del processo in assenza è stata operata dal d.lgs. n. 150 del 2022.
4.4.1.– Sostituito dall’art. 23, comma 1, lettera c), di tale decreto, l’art. 420-bis cod. proc. pen. dispone oggi, al comma 1, che, se l’imputato non è presente all’udienza, il giudice procede in assenza: a) quando l’imputato è stato citato a comparire a mezzo di notificazione dell’atto in mani proprie o di persona da lui espressamente delegata al ritiro dell’atto; b) quando l’imputato ha espressamente rinunciato a comparire o, sussistendo un legittimo impedimento, ha rinunciato espressamente a farlo valere.
Per il successivo comma 2, il giudice procede in assenza anche quando ritiene altrimenti provato che l’imputato ha effettiva conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza è dovuta a una scelta volontaria e consapevole, tenuto conto delle modalità della notificazione, degli atti compiuti dall’imputato prima dell’udienza, della nomina di un difensore di fiducia e di ogni altra circostanza rilevante.
Per il comma 3 dello stesso art. 420-bis, il giudice procede in assenza anche fuori dai casi di cui ai commi 1 e 2, quando l’imputato è stato dichiarato latitante o si è in altro modo volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo.
Nei casi previsti dai commi 1, 2 e 3, il giudice dichiara l’imputato assente, come tale rappresentato dal difensore (art. 420-bis, comma 4); viceversa, fuori dai casi previsti dai commi 1, 2 e 3, il giudice, prima di procedere ai sensi dell’art. 420-quater, rinvia l’udienza e dispone che l’avviso relativo, la richiesta di rinvio a giudizio e il verbale di udienza siano notificati all’imputato personalmente ad opera della polizia giudiziaria (art. 420-bis, comma 5).
4.4.2.– Le ipotesi di assenza che non osta alla celebrazione del processo (cosiddetta assenza non impeditiva) hanno dunque carattere tassativo, essendo unicamente quelle distinte dai primi tre commi dell’art. 420-bis cod. proc. pen., al di fuori delle quali, ove non abbiano esito le ulteriori ricerche per la notifica personale all’imputato, si attiva il meccanismo di improcedibilità predisposto dal nuovo art. 420-quater.
Per grandi linee, appunto in base alla scansione dei riferiti commi dell’art. 420-bis, possono individuarsi tre ipotesi di assenza non impeditiva: quella nella quale l’imputato ha ricevuto la notificazione dell’avviso di udienza a mani proprie o di apposito delegato, ovvero ha espressamente rinunciato a comparire o a far valere un legittimo impedimento; quella in cui il giudice, tenuto conto delle modalità della notificazione dell’avviso di udienza (evidentemente non avvenuta a mani proprie), degli atti compiuti dall’imputato prima dell’udienza, della nomina di un difensore di fiducia e di ogni altra circostanza rilevante, ritenga comunque provata la conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato; quella in cui l’imputato si è reso latitante o si è in altro modo volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo, il che evoca l’immagine corrente del “finto inconsapevole”, cioè di colui il quale non sa perché non vuol sapere, e quindi, in un certo senso, finge di ignorare.
4.4.3.– Sostituito dall’art. 23, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 150 del 2022, l’art. 420-quater cod. proc. pen. stabilisce che, quando non ricorre un’ipotesi di assenza procedibile, né un legittimo impedimento a comparire, se l’imputato non è presente, il giudice pronuncia sentenza inappellabile di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo.
La trasformazione dell’assenza impeditiva da causa di sospensione del processo a fattispecie di improcedibilità si allinea alla soluzione adottata per gli infermi “eterni giudicabili” dall’art. 72-bis cod. proc. pen., inserito dalla legge n. 103 del 2017, come osservato da questa Corte nella sentenza n. 65 del 2023, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del medesimo art. 72-bis, comma 1, nella parte in cui si riferiva al solo stato «mentale» dell’imputato, anziché al suo stato «psicofisico».
Attesa la forma-contenuto della sentenza di cui all’art. 420-quater cod. proc. pen., recante sia una pronuncia di improcedibilità virtualmente conclusiva, sia una vocatio in iudicium a udienza predefinita per il caso di rintraccio dell’imputato, se ne sottolinea la “natura bifronte”; ambivalenza destinata tuttavia a sciogliersi con il decorso del tempo, in quanto, ai sensi dei commi 3 e 6 dello stesso art. 420-quater, nel momento in cui per tutti i reati oggetto di imputazione sia superato il termine previsto dall’art. 159, ultimo comma, del codice penale (cioè il doppio del tempo necessario a prescrivere il reato), senza che la persona nei cui confronti è stata emessa sia stata rintracciata, la sentenza di non doversi procedere diviene irrevocabile.
Pertanto, ove non si tratti di un reato imprescrittibile, la sentenza di improcedibilità per mancata conoscenza da parte dell’imputato è idonea a definire il processo in modo irreversibile.
4.4.4.– Oltre a rimodellare le condizioni per la dichiarazione di assenza, e quindi il sistema delle garanzie ex ante, il d.lgs. n. 150 del 2022 ha anche modificato il quadro delle garanzie ex post, seguendo una logica binaria, rapportata al tipo di evento oggetto del rimedio.
In termini generali, nell’ipotesi in cui l’assenza sia stata “mal dichiarata”, ove la dichiarazione non corrisponda cioè ad alcuna ipotesi legale di assenza procedibile, il rimedio è incondizionato e regressivo, con sicura retrocessione del processo al momento in cui si è verificata la nullità; se invece l’assenza è stata “ben dichiarata”, quindi in conformità ad un’ipotesi legale di assenza non impeditiva, il rimedio è condizionato e restitutorio, nel senso che l’imputato può ottenere la reintegrazione nella facoltà processuale dalla quale sia eventualmente decaduto qualora provi il carattere incolpevole della decadenza (così gli artt. 489, 604 e 623 cod. proc. pen., rispettivamente per il primo grado, l’appello e la cassazione, e ancor prima l’art. 420-bis, comma 6, per la comparizione dell’imputato già in udienza preliminare).
Sempre sul versante delle garanzie ex post, con un movimento inverso rispetto a quello compiuto dalla legge n. 67 del 2014, il d.lgs. n. 150 del 2022 ha ristretto i margini della rescissione del giudicato, ma ha specularmente ampliato quelli della restituzione nel termine delle impugnazioni ordinarie, in particolare trasferendo a quest’ultimo istituto l’ipotesi della mancata conoscenza della vocatio in iudicium: invero, l’art. 629-bis cod. proc. pen., modificato dall’art. 37, comma 1, del suddetto decreto, condiziona il mezzo straordinario post iudicatum alla prova da parte del condannato che l’assenza è stata dichiarata in mancanza dei presupposti di cui all’art. 420-bis cod. proc. pen., e che quindi essa è stata “mal dichiarata”; nel contempo, l’art. 11, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 150 del 2022 ha inserito nell’art. 175 cod. proc. pen. il comma 2.1., per cui l’imputato giudicato in assenza è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione, se, nei casi previsti dall’art. 420-bis, commi 2 e 3, fornisce la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto proporre impugnazione nei termini senza sua colpa, il che prescinde dalla sussistenza di un errore del giudice nella dichiarazione di assenza.
5.– Poste le coordinate della disciplina dell’assenza, è possibile innanzitutto, sotto il profilo dell’ammissibilità delle questioni, definirne l’oggetto e verificare, in particolare, se l’indicazione delle disposizioni censurate sia aderente alla fattispecie.
5.1.– Il giudice a quo ha invero denunciato l’art. 420-bis cod. proc. pen., segnatamente i commi 2 e 3, nel testo modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022, anziché nel testo vigente al tempo della dichiarazione di assenza, nonostante questa sia avvenuta in data 25 maggio 2021, quindi prima dell’entrata in vigore di tale decreto.
L’ordinanza di rimessione segnala che, per effetto della disposizione intertemporale di cui all’art. 89, comma 2, del medesimo d.lgs. n. 150 del 2022, essendo stata ordinata la sospensione del processo ai sensi del testo anteriore dell’art. 420-quater cod. proc. pen. e non essendosi ancora rintracciati gli imputati, occorrerebbe provvedere all’emanazione della sentenza di non doversi procedere, in base al nuovo testo del medesimo art. 420-quater.
La richiamata norma transitoria stabilisce infatti che qualora prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo, nell’udienza preliminare o nel giudizio di primo grado, sia stata ordinata la sospensione del processo ai sensi del testo anteriore dell’art. 420-quater cod. proc. pen., e l’imputato non sia stato ancora rintracciato, in luogo di disporre nuove ricerche il giudice provvede ai sensi del testo modificato dello stesso art. 420-quater.
Quest’ultimo, d’altra parte, dispone che il giudice pronuncia la sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato solo «[f]uori dei casi previsti dagli articoli 420-bis e 420-ter».
Deve quindi ritenersi che, denunciando l’art. 420-bis cod. proc. pen. così come sostituito dal d.lgs. n. 150 del 2022, il rimettente abbia inteso promuoverne il vaglio di legittimità costituzionale in funzione di una nuova dichiarazione di assenza, alternativa alla pronuncia della sentenza di non doversi procedere.
5.2.– Né al giudice rimettente può rimproverarsi di avere omesso un tentativo di interpretazione adeguatrice.
Il giudice a quo ha infatti argomentato che un’interpretazione finalizzata a consentire la presunzione della conoscenza del processo da parte degli imputati o la presunzione della loro volontà di sottrarsi alla conoscenza medesima, quale premessa per la dichiarazione di assenza, non è praticabile al cospetto della lettera e della ratio della disposizione censurata.
Tutt’altro che implausibile, e anzi riscontrata dalla Corte di cassazione con la rammentata sentenza n. 5675 del 2023, tale argomentazione è sufficiente ad escludere l’inosservanza dell’onere di interpretazione conforme.
Infatti, per costante orientamento di questa Corte, l’onere interpretativo viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il giudice rimettente abbia consapevolmente escluso la possibilità dell’interpretazione adeguatrice in ragione del tenore letterale della disposizione censurata (tra tante, da ultimo, sentenze n. 104 e n. 25 del 2023, n. 193 e n. 96 del 2022).
5.3.– Non incide sulla rilevanza delle odierne questioni neppure l’intervenuta modifica dell’art. 169 cod. proc. pen., concernente le notifiche all’imputato all’estero.
Sostituendo il comma 1 dell’art. 169 cod. proc. pen., l’art. 10, comma 1, lettera v), del d.lgs. n. 150 del 2022 ha consentito di indirizzare tali notifiche non soltanto presso il luogo di residenza o dimora della persona nei cui confronti si procede, ma anche presso il «luogo in cui all’estero la stessa esercita abitualmente l’attività lavorativa».
Non si tratta tuttavia di una facoltà idonea ad assorbire l’oggetto dell’odierno petitum, né quindi capace di determinare una mancanza di rilevanza delle questioni, poiché – come rilevato (supra, punti 4.4.1. e 4.4.2.) – per il novellato art. 420-bis cod. proc. pen. la ritualità della notificazione è sufficiente per procedere in assenza solo se la notifica stessa è avvenuta a mani proprie dell’imputato o di persona da lui espressamente delegata, mentre, negli altri casi, le modalità di notificazione sono appena un indice di valutazione dell’effettiva conoscenza della pendenza del processo.
5.4.– Infine, sempre in ordine alla rilevanza delle sollevate questioni, occorre considerare che l’ordinanza di rimessione descrive la fattispecie dedotta nell’incidente di legittimità costituzionale come «mancata assistenza giudiziaria» o «rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato», condotte che l’ordinanza stessa ascrive alla Repubblica Araba d’Egitto, sulla base di una serie circostanziata di elementi fattuali.
Per costante giurisprudenza, questa Corte esercita sulla motivazione dell’ordinanza di rimessione in punto di rilevanza delle questioni un controllo esterno, basato sul criterio della non implausibilità (da ultimo, tra molte, sentenze n. 164, n. 151, n. 145 e n. 113 del 2023).
Il rimettente indica quale chiara manifestazione di indisponibilità a collaborare delle autorità egiziane il fatto che queste – come risulta dal carteggio ministeriale – oppongano il principio del ne bis in idem sulla base di un mero decreto di archiviazione, adottato dallo stesso organo inquirente, senza il vaglio di un giudice terzo.
L’ordinanza di rimessione sottolinea che l’assunto della già avvenuta e irrevocabile chiusura delle indagini da parte della Procura generale egiziana nei confronti dei quattro agenti della National Security Agency è stato opposto alla delegazione ministeriale italiana – come questa stessa ha riferito – finanche per negare il rilascio degli indirizzi dei funzionari, dove notificare gli atti di avvio del processo penale in Italia.
Sono elementi idonei a corroborare come non implausibile la prospettazione del rimettente circa un difetto di cooperazione interstatuale, anche alla luce degli altri profili illustrati nella relazione del Dipartimento per gli affari di giustizia, alla quale testualmente si richiama l’ordinanza di rimessione.
Un ulteriore elemento viene dalla Risoluzione del 24 novembre 2022 sulla situazione dei diritti umani in Egitto, nella quale il Parlamento europeo «esorta l’Egitto a cooperare pienamente con le indagini delle autorità italiane sull’omicidio del dottorando italiano Giulio Regeni, torturato a morte da funzionari di sicurezza nel 2016», in particolare reiterando «il suo invito a notificare al generale [S. T.], al colonnello [I. M. A. K.], al colonnello [H. U.] e al Major [S. A. M. I.] il procedimento giudiziario a loro carico in Italia» (punto 6).
6.– Nulla osta quindi all’esame di merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GUP del Tribunale di Roma.
Circoscritte in rapporto alla fattispecie concreta e all’esigenza di contemperamento degli interessi ad essa sottesi, tali questioni sono fondate, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura.
7.– La tortura è un delitto contro la persona e un crimine contro l’umanità.
Essa è infatti proibita sia dal diritto internazionale penale, sia dalle norme internazionali sui diritti umani, con tale costanza e univocità da attribuire al divieto carattere inderogabile, ascrivendolo allo ius cogens di formazione consuetudinaria.
La Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, proclama, all’art. 5, che «[n]essun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani e degradanti».
Il Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, stabilisce, all’art. 7, che «[n]essuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico».
L’art. 3 CEDU afferma che «[n]essuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».
Lo Statuto della Corte penale internazionale, o Statuto di Roma, firmato il 17 luglio 1998, indica la tortura tra i crimini contro l’umanità (art. 7, paragrafo 1, lettera f), e, nonostante la dimensione collettiva che a questi crimini si addice, in quanto commessi nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, prevede la consumazione della tortura anche ai danni di una sola persona («severe physical or mental pain or suffering upon one or more persons»: Elements of Crimes, art. 7.1.f, punto 1).
7.1.– L’odierno rimettente richiama come parametro interposto, tramite l’art. 117, primo comma, Cost., la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984 (da ora in poi, anche: CAT, Convention Against Torture).
Ratificata sia dall’Italia, con la legge n. 498 del 1988, sia dall’Egitto, in data 25 giugno 1986, essa fornisce, al comma 1 dell’art. 1, la definizione di tortura: «[a]i fini della presente Convenzione, il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate».
Dal comma 2 dello stesso art. 1 si evince trattarsi di un minimum standard, che «non reca pregiudizio a qualsiasi strumento internazionale o a qualsiasi legge nazionale che contenga o possa contenere disposizioni di più vasta portata».
7.1.1.– Con l’indicazione quale soggetto attivo di «un agente della funzione pubblica» (cui è equiparata «ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito»), l’art. 1 CAT delimita la propria sfera applicativa alla cosiddetta tortura di Stato, verticale o propria, conformemente alla tradizione internazionalistica che reprime la tortura come abuso del potere pubblico.
Gli altri elementi costitutivi del crimine di tortura sono convenzionalmente specificati nella gravità delle sofferenze inflitte («forti») e nell’intenzionalità dell’inflizione, quest’ultima connotata nei termini del dolo specifico («al fine segnatamente di»), corrispondente alla nozione quadripartita di tortura “giudiziaria”, “punitiva”, “intimidatoria” e “discriminatoria”.
7.1.2.– Nell’ordinamento italiano il delitto di tortura, quale distinto titolo di reato, è stato introdotto dalla legge 14 luglio 2017, n. 110 (Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano), il cui art. 1, comma 1, ha inserito gli artt. 613-bis e 613-ter cod. pen., rispettivamente per la tortura e l’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.
Il legislatore nazionale ha inteso superare il minimum standard di cui all’art. 1 CAT, poiché l’art. 613-bis cod. pen. punisce anche la cosiddetta tortura privata, orizzontale o impropria (primo comma), stabilendo comunque un più severo trattamento sanzionatorio per la tortura commessa dal pubblico ufficiale (secondo comma), pur se quest’ultima non è rispetto all’altra reato circostanziato, ma reato autonomo (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 25 maggio-31 agosto 2021, n. 32380).
La posteriorità della legge n. 110 del 2017 rispetto al tempo di commissione dei fatti oggetto delle imputazioni di che trattasi non solleva un problema di retroattività in peius, in quanto tali imputazioni risultano formulate senza alcun richiamo alla fattispecie legale sopravvenuta, bensì – come non implausibilmente deduce l’ordinanza di rimessione – con la descrizione di «fatti sussumibili nella nozione di tortura data dall’art. l della Convenzione», i quali «erano punibili già nel febbraio 2016 in base alle norme incriminatrici specificate nella richiesta di rinvio a giudizio» (sequestro di persona, lesioni personali e omicidio, aggravati da sevizie, crudeltà e abuso di pubblico potere).
7.1.3.– Per evitare aree di impunità, l’art. 5 CAT ammette la doppia o tripla giurisdizione nazionale sui reati di tortura, che devono essere perseguiti sia dallo Stato territoriale del commesso delitto (comma 1, lettera a), sia dallo Stato del presunto autore (comma 1, lettera b), mentre è rimesso allo Stato di appartenenza della vittima stabilire se esercitare o meno la propria giurisdizione (comma 1, lettera c).
Tale opzione discrezionale è stata esercitata dalla legge n. 498 del 1988, il cui art. 3, comma 1, lettera b), stabilisce che è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia, lo straniero che commette all’estero in danno di un cittadino italiano un fatto costituente reato qualificabile come atto di tortura ex art. 1 CAT.
Risulta così integrata la previsione dell’art. 7, primo comma, numero 5), cod. pen., per cui è punito secondo la legge italiana lo straniero che commette in territorio estero un reato per il quale una speciale disposizione di legge o una convenzione internazionale stabilisca l’applicabilità della legge italiana.
Per l’accertamento in Italia degli atti di tortura inflitti al cittadino Giulio Regeni, la richiesta del Ministro della giustizia è intervenuta in data in data 23 marzo 2016, come riferisce l’ordinanza di rimessione.
7.1.4.– Ai sensi dell’art. 9, comma 1, CAT, gli Stati parte si «prestano l’assistenza giudiziaria più vasta possibile» in ogni procedimento penale inerente ai reati di tortura, inclusa «la comunicazione di tutti gli elementi di prova di cui dispongono e che sono necessari ai fini della procedura».
La comunicazione degli indirizzi degli indagati, funzionale alla notifica degli atti processuali, rientra evidentemente nel perimetro dell’assistenza «più vasta possibile».
8.– Nella giurisprudenza sull’art. 3 CEDU, la Corte di Strasburgo ha più volte distinto un aspetto procedurale («procedural aspect») del divieto di tortura e un aspetto sostanziale («substantive aspect»), potendo tale divieto essere violato non soltanto dalla materiale inflizione di sevizie e crudeltà, ma anche dall’omesso svolgimento di un’indagine effettiva e completa sulla denuncia di tortura, giacché, quando l’indagine riguarda accuse di gravi violazioni dei diritti umani, il “diritto alla verità” («the right to the truth») sulle circostanze rilevanti del caso non appartiene esclusivamente alla vittima del reato e alla sua famiglia, ma anche alle altre vittime di violazioni simili e al pubblico in generale, che hanno il “diritto di sapere cosa è accaduto” (Corte europea dei diritti dell'uomo, grande camera, sentenza 13 dicembre 2012, El-Masri contro ex Repubblica jugoslava di Macedonia; poi Corte EDU, sentenze 31 maggio 2018, Abu Zubaydah contro Lituania, e 24 luglio 2014, Al Nashiri contro Polonia).
In altri termini, l’art. 3 CEDU esige una «efficient criminal-law response», senza la quale esso è violato nel «procedural limb», ancor prima che nell’aspetto sostanziale (Corte EDU, sentenza 16 febbraio 2023, Ochigava contro Georgia).
9.– L’aporia processuale denunciata dal rimettente rivela una lacuna ordinamentale, che non tarda a manifestare i tratti del vulnus costituzionale, non appena la si relazioni con la peculiarità giuridica del crimine di tortura.
Ferma la presunzione di non colpevolezza che assiste i quattro funzionari egiziani, non può negarsi che si siano determinate obiettivamente le condizioni di una fattuale immunità extra ordinem, incompatibile con il diritto all’accertamento processuale, quale primaria espressione del divieto sovranazionale di tortura e dell’obbligo per gli Stati di perseguirla.
9.1.– A prescindere dalle ragioni che l’hanno ispirata, la mancata comunicazione da parte dello Stato egiziano degli indirizzi dei propri dipendenti ha impedito finora, ed è destinata a impedire sine die, la celebrazione di un processo viceversa imposto dalla Convenzione di New York contro la tortura, in linea con il diritto internazionale generale.
L’impossibilità di notificare personalmente agli imputati l’avviso di udienza preliminare e la richiesta di rinvio a giudizio, quindi di portare a loro conoscenza l’apertura del processo, comporta infatti, sulla base dell’attuale quadro normativo interno, la necessità di emettere nei confronti degli stessi la sentenza inappellabile di improcedibilità, che, a sua volta, non potrà mai verosimilmente assolvere alla funzione secondaria di vocatio in iudicium, pure ad essa istituzionalmente spettante, e che anzi è destinata a divenire, con il trascorrere del tempo, irrevocabile per tre dei quattro imputati, giacché chiamati a rispondere di un reato prescrittibile, qual è il sequestro di persona.
9.2.– Lo statuto universale del crimine di tortura – poc’anzi illustrato sulla base delle dichiarazioni sovranazionali e dei trattati – è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana, messa al centro del preambolo della Convenzione di New York contro la tortura.
La denunciata lacuna normativa, precludendo l’accertamento giudiziale della commissione dei reati di tortura, offende quindi la dignità della persona, e ne comprime il diritto fondamentale a non essere vittima di tali atti; con la precisazione che, a sensi della direttiva (UE) 2012/29 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI, «vittima» è anche il familiare della persona la cui morte sia stata dal reato stesso direttamente causata (art. 2, paragrafo 1, lettera a, punto ii).
9.3.– Pertanto, la lacuna normativa denunciata dal rimettente viola l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura; ma viola anche l’art. 2 Cost., in quanto, impedendo sine die la celebrazione del processo per l’accertamento del reato di tortura, annulla un diritto inviolabile della persona che di tale reato è stata vittima. Invero, nello statuto eccezionale del crimine in questione, il diritto all’accertamento giudiziale è il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità.
9.4.– E ancora, la lacuna normativa censurata dal rimettente viola il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
Tale lacuna apre infatti irragionevolmente uno spazio di immunità penale, quale si riscontra in un quadro normativo che impedisce di compiere quegli stessi accertamenti giudiziali che sono stati previsti in sede pattizia; accertamenti tanto più necessari in quanto lo Stato italiano, in sede di ratifica della CAT, ha optato per l’esercizio della giurisdizione penale sui reati di tortura commessi all’estero in danno dei propri cittadini.
10.– Il diritto dell’imputato di presenziare al processo ha natura di diritto fondamentale, garantito dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, innanzitutto attraverso la pienezza del contraddittorio.
In particolare, il terzo comma dell’art. 111 Cost., in sintonia con il paragrafo 3 dell’art. 6 CEDU, stabilisce che «[n]el processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo».
Come da questa Corte ricordato nella sentenza n. 65 del 2023, il diritto partecipativo dell’imputato è d’altronde funzionale all’esercizio della cosiddetta autodifesa, che è distinta e ulteriore rispetto alla difesa tecnica.
Il vulnus costituzionale prodotto dalla lacuna normativa in questione deve essere dunque ridotto a legittimità per linee interne al sistema delle garanzie, senza alcun sacrificio, né condizionamento, delle facoltà partecipative dell’imputato, ma unicamente con una diversa scansione temporale del loro esercizio.
Non si tratta d’altronde di una prospettiva estranea allo statuto europeo dell’assenza processuale.
11.– La direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali stabilisce che «[g]li Stati membri garantiscono che gli indagati e imputati abbiano il diritto di presenziare al proprio processo» (art. 8, paragrafo 1).
Gli Stati membri – aggiunge la direttiva – «possono prevedere che un processo che può concludersi con una decisione di colpevolezza o innocenza dell’indagato o imputato possa svolgersi in assenza di quest’ultimo, a condizione che: a) l’indagato o imputato sia stato informato in un tempo adeguato del processo e delle conseguenze della mancata comparizione; oppure b) l’indagato o imputato, informato del processo, sia rappresentato da un difensore incaricato, nominato dall’indagato o imputato oppure dallo Stato» (art. 8, paragrafo 2).
Inoltre, «[q]ualora gli Stati membri prevedano la possibilità di svolgimento di processi in assenza dell’indagato o imputato, ma non sia possibile soddisfare le condizioni di cui al paragrafo 2 del presente articolo perché l’indagato o imputato non può essere rintracciato nonostante i ragionevoli sforzi profusi, gli Stati membri possono consentire comunque l’adozione di una decisione e l’esecuzione della stessa», e «[i]n tal caso, gli Stati membri garantiscono che gli indagati o imputati, una volta informati della decisione, in particolare quando siano arrestati, siano informati anche della possibilità di impugnare la decisione e del diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, in conformità dell’articolo 9» (art. 8, paragrafo 4).
Vi è infatti, nell’economia della direttiva 2016/343/UE, un nesso teleologico tra il «diritto di presenziare al processo», di cui all’art. 8, e il «diritto a un nuovo processo», di cui all’art. 9, il cui coordinato obiettivo è che – ex ante o ex post – l’imputato abbia a disposizione tutte le facoltà partecipative.
Per l’art. 9, invero, «[g]li Stati membri assicurano che, laddove gli indagati o imputati non siano stati presenti al processo e non siano state soddisfatte le condizioni di cui all’articolo 8, paragrafo 2, questi abbiano il diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria», e «[i]n tale contesto, gli Stati membri assicurano che tali indagati o imputati abbiano il diritto di presenziare, di partecipare in modo efficace, in conformità delle procedure previste dal diritto nazionale e di esercitare i diritti della difesa».
11.1.– La decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri prevede l’esecuzione del mandato per condanna in absentia ove l’imputato sia informato del «diritto a un nuovo processo», che consenta di «riesaminare il merito della causa» e possa «condurre alla riforma della decisione originaria» (art. 4-bis, paragrafo 1, lettera d, punto i).
11.2.– La Corte di giustizia dell’Unione europea ha precisato ratio e condizioni della procedibilità in assenza, nella dialettica con il diritto dell’imputato a un nuovo processo di merito.
Ha quindi chiarito che la ripetizione in presenza di attività processuali, quale un’assunzione testimoniale anteriormente svolta in assenza, ha carattere ripristinatorio, nella prospettiva del nuovo processo garantito dalla direttiva 2016/343/UE (sentenza 13 febbraio 2020, in causa C-688/18, TX e altro).
Nell’interpretazione dell’art. 4-bis della decisione quadro 2002/584/GAI, la Corte di giustizia ha inoltre escluso che possa essere addotta, quale motivo di rifiuto dell’esecuzione di un mandato d’arresto europeo per una condanna emessa in absentia, l’incertezza sul fatto che lo Stato consegnatario garantirà il diritto al nuovo processo ex artt. 8 e 9 della direttiva 2016/343/UE, potendo in ogni caso l’imputato esigere l’attuazione di quest’ultima presso quel medesimo Stato (sentenza 17 dicembre 2020, in causa C-416/20, TR).
Di notevole importanza, in termini generali e per la fattispecie ora in scrutinio, è la sentenza della medesima Corte 19 maggio 2022, in causa C-569/20, IR, a tenore della quale gli artt. 8 e 9 della direttiva 2016/343/UE vanno interpretati nel senso che «un imputato che le autorità nazionali competenti, nonostante i loro ragionevoli sforzi, non riescono a rintracciare e al quale dette autorità non sono riuscite, per tale motivo, a comunicare le informazioni sul processo svolto nei suoi confronti, può essere oggetto di un processo e, se del caso, di una condanna in contumacia, ma deve in tale caso, in linea di principio, avere la possibilità, a seguito della notifica di tale condanna, di far valere direttamente il diritto, riconosciuto da tale direttiva, di ottenere la riapertura del processo o l’accesso a un mezzo di ricorso giurisdizionale equivalente che conduca ad un nuovo esame del merito della causa in sua presenza»; tale diritto può essere negato all’imputato solo «qualora da indizi precisi e oggettivi risulti che quest’ultimo ha ricevuto informazioni sufficienti per essere a conoscenza del fatto che si sarebbe svolto un processo nei suoi confronti e, con atti deliberati e al fine di sottrarsi all’azione della giustizia, ha impedito alle autorità di informarlo ufficialmente di tale processo» (punto 59).
Premesso quindi che il giudizio può celebrarsi in assenza solo se preceduto da «ragionevoli sforzi» delle autorità onde rintracciare l’imputato per le notifiche, tale decisione, invertendo l’onere della prova rispetto alla logica contumaciale, rimarca che l’imputato giudicato in assenza per impossibilità di rintraccio deve poter esercitare senza condizioni («in linea di principio») il diritto a un nuovo processo di merito, spettando alle autorità, che tale diritto intendano negare, addurre «indizi precisi e oggettivi» da cui risulti che l’imputato ha ricevuto sufficienti informazioni del processo.
È ben visibile la convergenza rispetto alla giurisprudenza di Strasburgo sul diritto dell’imputato alla «fresh determination of the merits of the charge», alla quale invero la sentenza della Corte di Lussemburgo fa esplicito riferimento (punti 51-53).
12.– In conclusione il vulnus costituzionale denunciato dal rimettente può e deve essere sanato mediante un riassetto delle garanzie partecipative dell’imputato, riassetto non qualitativo, né quantitativo, ma esclusivamente temporale, pur sempre all’interno del binario tracciato dalla disciplina dell’assenza, come sopra ricordata.
La fattispecie addizionale di assenza non impeditiva, che sia tale da evitare una paralisi processuale costituzionalmente e convenzionalmente intollerabile, deve essere comunque rispettosa del principio del giusto processo.
12.1.– Il rimettente censura i commi 2 e 3 dell’art. 420-bis cod. proc. pen., nel testo modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022, ma la sede propria dell’addizione che egli richiede, e che la Costituzione impone, va individuata specificamente nel comma 3, poiché questo disciplina, in funzione di chiusura del sistema («anche fuori dai casi di cui ai commi 1 e 2»), le ipotesi nelle quali l’assenza dell’imputato non è impeditiva pur in difetto di prova della sua «conoscenza della pendenza del processo».
Come già detto, le ipotesi attualmente indicate dal comma 3 dell’art. 420-bis riguardano la latitanza e ogni «altro modo» di volontaria sottrazione dell’imputato alla «conoscenza della pendenza del processo».
Si tratta di situazioni nelle quali l’ordinamento non considera impeditiva l’assenza malgrado la mancata «conoscenza della pendenza del processo», e che tuttavia postulano la conoscenza del procedimento, cioè dell’assunzione della qualità di indagato ex art. 335 cod. proc. pen.
Infatti, per sottrarsi «volontariamente» alla conoscenza della pendenza del «processo», e quindi alla notifica dell’atto di esercizio dell’azione penale, l’indagato sa di essere tale, pur ponendosi nelle condizioni di ignorare la vocatio in iudicium.
12.2.– Dalla vigente trama normativa emerge dunque che, in casi eccezionali, può procedersi nell’assenza di un imputato pur se non è provata la conoscenza da parte sua della pendenza del processo, ove sia certo che egli abbia conoscenza del procedimento.
Tra questi casi eccezionali deve trovare posto l’ipotesi oggetto delle questioni in scrutinio, perpetuandosi altrimenti, insieme alla lacuna normativa, il vulnus che essa infligge ai richiamati parametri costituzionali.
13.– Muovendo per linee interne al sistema, come preannunciato, la fattispecie addizionale di assenza non impeditiva deve replicare questa duplicità di piani, non potendo prescindere dalla conoscenza che l’imputato abbia del procedimento, e limitandosi a incidere sul piano ulteriore della conoscenza della chiamata a giudizio.
La fattispecie astratta si attaglia al caso concreto, come risulta dalla verifica esterna sulla motivazione dell’ordinanza di rimessione in punto di rilevanza.
L’ordinanza riferisce infatti che il provvedimento con il quale la Corte di assise di Roma ha annullato la dichiarazione di assenza dei quattro funzionari egiziani ha riconosciuto «la generica conoscenza, da parte degli imputati, dell’esistenza di un procedimento penale nei loro confronti per gravi reati in danno del ricercatore Giulio Regeni», pur «senza la dimostrazione con ragionevole grado di certezza di una conoscenza sufficiente dell’azione penale e delle accuse».
Tale valutazione della Corte di assise, in uno alla conseguente ordinanza di sospensione del GUP del Tribunale di Roma, è stata ritenuta immune da vizi nella ricordata sentenza della Corte di cassazione n. 5675 del 2023, la quale, essa pure, ha messo a tema la conoscenza non del procedimento, ma della vocatio in iudicium, in particolare enfatizzando che alcuni indizi di consapevolezza degli imputati fossero «precedenti all’esercizio dell’azione penale in Italia», quindi inidonei a garantire loro la conoscenza delle «precise cadenze del processo».
13.1.– È ben chiaro che l’ordinamento italiano ha registrato un progressivo spostamento del fuoco degli accertamenti di assenza dalla conoscenza del «procedimento» alla conoscenza del «processo».
Già con una prima sentenza, la Corte di cassazione aveva stabilito che non ostasse alla rimessione nel termine di impugnazione della sentenza contumaciale ex art. 175, comma 2, cod. proc. pen. la conoscenza dell’accusa evincibile dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari, viceversa esigendosi la conoscenza del processo tratta da un atto formale di vocatio in iudicium (sezioni unite penali, sentenza 28 febbraio-3 luglio 2019, n. 28912).
Ancora più incisivamente, una successiva pronuncia, relativa al valore indiziario dell’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio ai fini della dichiarazione di assenza ex art. 420-bis cod. proc. pen., vecchio testo, ha escluso la configurabilità di presunzioni di conoscenza del processo, giacché «[i]l fondamento del sistema è che la parte sia personalmente informata del contenuto dell’accusa e del giorno e luogo della udienza», ed è infatti questa – proseguiva la Corte riguardo alla modifica dell’art. 175 cod. proc. pen. – «la ragione per la quale il sistema, introducendo la regola di certezza della conoscenza del processo, ha escluso il diritto “incondizionato” al nuovo giudizio di merito in favore del soggetto giudicato in assenza» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 novembre 2019-17 agosto 2020, n. 23948).
Infine, dal raffronto tra il testo dell’art. 420-bis cod. proc. pen. anteriore al d.lgs. n. 150 del 2022 e quello dal decreto stesso modificato risulta evidente la traslazione del parametro della dichiarazione di assenza dalla «conoscenza del procedimento» alla «conoscenza della pendenza del processo».
13.2.– È tuttavia palese che l’estensione di tale avanzamento dei requisiti di procedibilità anche alla fattispecie ora in scrutinio determina la paralisi del processo fin dall’esordio, poiché la mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato rende impossibile notificare personalmente all’imputato stesso gli atti formali della vocatio in iudicium, lasciando all’irrilevanza che egli sia a conoscenza del procedimento penale.
Tale epilogo di radicale frustrazione del processo non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale, quando si risolve nella creazione di un’immunità de facto ostativa all’accertamento dei crimini di tortura.
Una simile immunità – come si è già detto – sarebbe infatti, ad un sol tempo, lesiva dei diritti inviolabili della vittima rispetto a un crimine estremo contro la dignità della persona (art. 2 Cost.); irragionevole a fronte del diritto-dovere rivendicato e assunto dalla Repubblica di perseguire tali misfatti (art. 3 Cost.); inosservante degli standard internazionali di tutela dei diritti umani, recepiti e promossi dalla CAT (art. 117, primo comma, Cost.).
14.– L’ordinanza di rimessione sollecita una pronuncia additiva non circoscritta per il titolo di reato.
La decisione di accoglimento va tuttavia delimitata in coerenza sia con i presupposti di rilevanza delle questioni come sopra individuati, sia con gli obblighi internazionali, che per il crimine di tortura giustificano una composizione delle garanzie partecipative nei termini di seguito precisati.
L’illegittimità costituzionale della denunciata lacuna normativa, e la necessità di emendarla tramite la richiesta pronuncia additiva, non concerne quindi ogni ipotetica fattispecie nella quale la notifica personale della vocatio all’imputato sia resa impossibile dalla mancata assistenza dello Stato di appartenenza, ma inerisce esclusivamente alle imputazioni di tortura, rispetto alle quali soltanto l’improcedibilità, nelle riferite condizioni, si traduce nella violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura.
La fattispecie addizionale costituzionalmente adeguata è dunque limitata al processo per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, CAT.
14.1.– Alla delimitazione oggettiva per il titolo di reato corrisponde una delimitazione soggettiva per la qualità dell’autore, che, ai sensi dell’art. 1, comma 1, CAT, è soltanto l’«agente della funzione pubblica», cui viene equiparata «ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito».
Tale delimitazione soggettiva assume una speciale valenza rispetto all’ipotesi in questione – cioè alla mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato –, atteso il vincolo che lega l’apparato pubblico ai propri funzionari.
15.– Come anticipato (supra, punto 12), il rilevato vulnus costituzionale può e deve essere sanato mediante un riassetto delle garanzie partecipative che risulti comunque rispettoso dei diritti fondamentali protetti dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU.
Con la formula sintetica enunciata dall’art. 9 della direttiva 2016/343/UE, occorre dunque fare salvo il «diritto a un nuovo processo», che, svolgendosi in presenza dell’imputato e a sua richiesta, «consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria» (supra, punto 11).
Nei termini stabiliti dalla giurisprudenza di Strasburgo, deve essere garantito all’imputato l’accesso incondizionato a «una nuova valutazione del merito dell’accusa» (punto 4 del Considerato in diritto).
Questo risultato, che sarà compito del giudice comune attuare nella concretezza dei singoli casi, è raggiungibile per effetto della riapertura del processo, cui l’imputato, nell’ipotesi in esame, ha diritto di pervenire in ragione dei presupposti stessi della sua assenza.
15.1.– La fattispecie addizionale di procedibilità in assenza, oggetto della presente decisione, consente infatti all’imputato di accedere senza limiti, né condizioni, al sistema rimediale congegnato dal d.lgs. n. 150 del 2022.
Si è evidenziato che questo ha una connotazione binaria, in quanto all’assenza erroneamente dichiarata dal giudice corrisponde un rimedio incondizionato di retrocessione del processo al momento in cui si è verificata la nullità, mentre all’assenza “ben dichiarata” è associato un rimedio condizionato per la restituzione nelle facoltà processuali la decadenza dalle quali l’imputato possa provare essere a lui non imputabile (supra, punto 4.4.4.).
Orbene, quella che viene qui in rilievo, che cioè non sia stata possibile la notificazione personale degli atti di vocatio in iudicium a causa dell’inerzia cooperativa dello Stato di appartenenza, è un’ipotesi in cui la prova di incolpevolezza dell’imputato deve ritenersi in re ipsa, risultando dagli stessi elementi costitutivi della fattispecie di assenza procedibile.
Tenuto all’oscuro della vicenda processuale da un factum principis (la condotta non cooperativa del proprio Stato di appartenenza), l’imputato, pur a conoscenza del procedimento, deve presumersi senza sua colpa ignaro delle cadenze del processo, e ha quindi libero accesso alla reintegrazione nelle facoltà processuali che ritenga di esercitare.
In altri termini, egli, conformemente ai canoni stabiliti dalla sentenza IR (supra, punto 11.2.), poiché irrintracciabile dalle autorità procedenti nonostante i loro «ragionevoli sforzi», può essere oggetto di un processo in assenza, ma può far valere «direttamente» il diritto a un nuovo processo che conduca al riesame del merito della causa in presenza, mentre è onere delle autorità stesse, che intendano negare la riapertura del processo, allegare «indizi precisi e oggettivi» dai quali risulti che l’imputato, nonostante l’atteggiamento non cooperativo del proprio Stato di appartenenza, «ha ricevuto informazioni sufficienti per essere a conoscenza del fatto che si sarebbe svolto un processo nei suoi confronti e, con atti deliberati e al fine di sottrarsi all’azione della giustizia, ha impedito alle autorità di informarlo ufficialmente di tale processo».
15.2.– Pertanto, anche qualora l’assenza oggetto dell’odierna additiva sia stata “ben dichiarata”, l’imputato può ottenere la restituzione nelle facoltà processuali, e ciò in ogni momento, semplicemente comparendo, anche prima della pronuncia di un’eventuale condanna, e quindi anche senza ricorrere a un’impugnazione.
Tale conclusione è comprovata dall’applicabilità, nell’ipotesi in esame, dei rimedi restitutori previsti dalle disposizioni del codice di procedura penale, le quali, con riferimento ai diversi stati e gradi del processo, implicano variamente che l’imputato dimostri di non aver avuto conoscenza del processo e di non essere potuto intervenire senza sua colpa per esercitare le relative facoltà.
Il richiamo va, in particolare, all’art. 420-bis, comma 6, in relazione alla possibilità di revoca dell’ordinanza dichiarativa dell’assenza; all’art. 489, comma 2-bis, lettera b), in relazione allo svolgimento dell’udienza preliminare; all’art. 604, comma 5-ter, lettera b), per il giudizio di appello; nonché all’art. 623, comma 1, lettera b-bis), con riguardo al giudizio di cassazione.
Ai medesimi presupposti, inoltre, è subordinata dall’art. 175, comma 2.1., cod. proc. pen. la restituzione nel termine di impugnazione della sentenza pronunciata in assenza, con l’ulteriore precisazione che, ai sensi del comma 2-bis del medesimo articolo, il termine di presentazione della relativa istanza dell’imputato decorre soltanto dalla conoscenza personale che egli abbia avuto della sentenza («effettiva conoscenza del provvedimento») ovvero, in caso di estradizione dall’estero, «dalla consegna del condannato» (la quale a sua volta presuppone la conoscenza personale della sentenza in esecuzione).
16.– La fattispecie di assenza in questione non comporta dunque alcun intervento sul quadro delle garanzie delineato dal d.lgs. n. 150 del 2022, viceversa ad essa applicabile tal quale, se non per la relevatio ab onere probandi di cui l’imputato si avvantaggia in ragione dell’oggettiva conformazione della fattispecie medesima.
D’altronde, attesa la manifesta violazione che ai principi costituzionali e sovranazionali viene da un’immunità per crimini di tortura, non può dirsi ostativa la riserva di discrezionalità del legislatore in ambito processuale, che pure questa Corte ha avuto modo di affermare anche riguardo ai meccanismi di notifica della vocatio e di svolgimento del processo in absentia (sentenza n. 31 del 2017).
17.– L’amplissima possibilità di riapertura e rinnovazione del processo spettante agli imputati nella fattispecie in esame, necessaria per la conformità alle prescrizioni degli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, non riduce tuttavia il processo stesso a un simulacro.
L’accertamento dei crimini di tortura nelle forme pubbliche del dibattimento penale corrisponde a un obbligo costituzionale e sovranazionale, e già solo per questo non è mai inutile, ove anche circostanze esterne lo privino del contraddittorio dell’imputato.
All’imputato stesso, d’altronde, resta garantita ogni facoltà di far sentire la sua voce.
18.– Per tutto quanto esposto, deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, cod. proc. pen., per violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione medesima, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.
Restano assorbite le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 24, 111 e 112 Cost.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.