Per il TAR Lazio, è irragionevole relegarlo a semplice “indirizzo” del settore civile perché non consente all'avvocato specialista di qualificare correttamente le proprie competenze.
La controversia trae origine dal ricorso proposto dall'associazione “Orizzonti del Diritto Commerciale – Associazione Italiana dei Professori Universitari di Diritto Commerciale” nei confronti del D.M. giustizia 1° ottobre 2020, n. 163 recante il «Regolamento concernente modifiche al decreto del Ministro della giustizia 12 agosto 2015, n. 144, recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, ai sensi dell'
Nello specifico, l'associazione ricorrente lamenta l'illegittimità dell'atto nelle parti è intervenuto a modificare il precedente Regolamento del 2015 che aveva già disciplinato il fenomeno delle cd. “specializzazioni” degli avvocati, come introdotte dalla Legge sull'ordinamento forense.
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Con il D.M. impugnato, il Ministero della Giustizia ha incluso, oltre ai tre settori principali, altri 10 settori di specializzazione, così ora risultando l'elenco: a) diritto civile; b) diritto penale; c) diritto amministrativo; d) diritto del lavoro e della previdenza sociale; e) diritto tributario, doganale e della fiscalità internazionale; f) diritto internazionale; g) diritto dell'Unione europea; h) diritto dei trasporti e della navigazione; i) diritto della concorrenza; l) diritto dell'informazione, della comunicazione digitale e della protezione dei dati personali; m) diritto della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni; n) tutela dei diritti umani e protezione internazionale; o) diritto dello sport. Inoltre, lo stesso D.M. impugnato ha introdotto una nuova ulteriore ripartizione dei settori del diritto civile, penale e amministrativo in sottocategorie definite “indirizzi”. |
L'associazione ricorrente contesta l'illegittimità delle disposizioni, nella parte in cui hanno inserito il diritto commerciale nella sottocategoria dei meri “indirizzi” del diritto civile, anziché collocarlo tra i settori primari di specializzazione.
Il TAR Lazio accoglie il ricorso con sentenza n. 189 del 3 gennaio 2024. Così facendo, osserva il Tribunale amministrativo, «il diritto commerciale finisce per essere irragionevolmente equiparato a materie (il diritto industriale, della proprietà intellettuale e dell'innovazione tecnologica, il diritto bancario e dei mercati finanziari, il diritto della crisi dell'impresa e dell'insolvenza) che costituiscono delle partizioni, anche e soprattutto dal punto di vista didattico e scientifico, del diritto commerciale medesimo».
Parimenti condivisibile è la doglianza con la quale l'istante evidenzia un'ulteriore perplessità rinvenibile nell'inclusione nell'elenco de quo di alcune materie, quali il “diritto dello sport” o lo stesso “diritto della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni” (equiparata al diritto civile), «le quali (pur divenute importanti nelle dinamiche socio-giuridiche moderne) non possono certo considerarsi prevalenti o, quantomeno raffrontabili, per rilevanza pratica e scientifica, al diritto commerciale, escluso dai settori principali di specializzazione».
A tal proposito, per il TAR «il diritto dello sport si risolve in una combinazione di elementi di diritto del lavoro (applicato al mondo sportivo) e di diritto civile, oltre a profili di diritto amministrativo (in disparte le questioni tecniche di competenza degli ordinamenti sportivi), e certo non può essere paragonato all'importanza del diritto commerciale».
Da ultimo, l'associazione ricorrente ricorda che nell'AIR (analisi di impatto della regolamentazione) si afferma infatti che la specializzazione «è funzionale ad una migliore qualità del servizio legale offerto alla clientela perché consente di individuare le aree di specializzazione e di ridurre conseguentemente i costi di ricerca per i clienti».
Con riguardo al diritto commerciale, la ripartizione contenuta del decreto gravato non assolve a tali funzioni.
Secondo il Tribunale amministrativo, «l'indicazione del diritto commerciale come mero “indirizzo” non consente all'avvocato specialista di qualificare correttamente le proprie competenze, posto che la sola specializzazione in “diritto civile” sarebbe generica e non permetterebbe di valorizzare l'anelata specializzazione; per altro verso, l'indicazione di tutte le discipline trattate non sarebbe possibile, considerati il limite dei tre indirizzi previsto dall'articolo 3 del d.m. n. 144/2015 e la classificazione del diritto della concorrenza come settore autonomo».
TAR Lazio, sez. I, sentenza (ud. 25 ottobre 2023) 3 gennaio 2024, n. 189
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
1. Con ricorso ritualmente trasposto innanzi all'intestato TAR, la ricorrente associazione ha impugnato il decreto del Ministero della giustizia 1° ottobre 2020 n. 163 (recante il “Regolamento concernente modifiche al decreto del Ministro della giustizia 12 agosto 2015, n. 144, recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, ai sensi dell'articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 12 dicembre 2020”), lamentandone l'illegittimità nelle parti in cui l'atto gravato è intervenuto a modificare il precedente regolamento del 2015 che aveva già disciplinato il fenomeno delle cd. “specializzazioni” degli avvocati, come introdotte dalla legge sull'ordinamento forense.
I fatti di causa esposti in ricorso sono i seguenti.
L’articolo 9 della ridetta legge n. 247/2012 aveva previsto la possibilità di ottenere il titolo di “specialista”, secondo modalità da stabilirsi con regolamento adottato dal Ministro della giustizia, previo parere espresso dal Consiglio Nazionale Forense (CNF), ai sensi dell'articolo 1 della medesima legge.
Il Ministero si è espresso con il citato decreto 12 agosto 2015 n. 144 emanando un primo regolamento.
L’articolo 2 del detto decreto prevedeva che è avvocato “specialista” l'avvocato che ha acquisito il titolo in uno dei settori di specializzazione di cui all'articolo 3.
Il medesimo articolo 2, al comma 2, stabiliva poi che il titolo de quo venisse conferito dal CNF in ragione del percorso formativo previsto dall'articolo 7 o della “comprovata esperienza professionale” maturata dal singolo avvocato a norma dell'articolo 8.
L'articolo 3 del decreto statuiva che l'avvocato potesse conseguire il titolo di “specialista” in non più di due dei settori individuati nel medesimo articolo. L'articolo 6 disciplinava due modalità alternative di conseguimento del titolo di avvocato specialista: da una parte, la frequenza di corsi di specializzazione (di cui all'articolo 7) negli ultimi 5 anni, dall’altra parte, una comprovata esperienza nel settore di specializzazione (ai sensi dell'articolo 8). In quest'ultimo caso, il comma 4 del citato articolo 6 affidava l'accertamento del requisito ad un colloquio sulle materie di specializzazione, da tenersi dinanzi ad una commissione di valutazione, istituita ai sensi della medesima disposizione.
Alcune associazioni nazionali e taluni ordini di avvocati avevano impugnato il suddetto regolamento dinanzi al TAR del Lazio, il quale accoglieva parzialmente i ricorsi, annullando alcune disposizioni del regolamento gravato (sentenze nn. 4424, 4426, 4427 e 4428 del 14 aprile 2016).
La Sezione, in particolare, riteneva illegittime le previsioni contenute negli articoli 3, comma 1, e 6, comma 4, laddove erano disciplinati i settori di specializzazione e l'accertamento della “comprovata esperienza” mediante colloquio (ai fini del riconoscimento della specializzazione).
Con la sentenza n. 4424/2016, in particolare, veniva accolta la censura relativa all’elencazione dei settori, ritenendo che non si comprendesse il principio logico che aveva presieduto alla scelta delle 18 materie, posto che non risultava rispettato né un criterio codicistico, né un criterio di riferimento alle competenze dei vari organi giurisdizionali esistenti nell'ordinamento, né infine un criterio di coincidenza con i possibili insegnamenti universitari (più numerosi di quelli individuati dal decreto).
Per altro, il TAR osservava altresì che analoghi rilievi erano stati sollevati dal Consiglio di Stato in sede consultiva, rilievi che il provvedimento impugnato avrebbe disatteso (in particolare, nel parere reso sullo schema di regolamento del 28 agosto 2024 il Consiglio di Stato aveva ravvisato la necessità di una maggiore esaustività dell'elenco de quo e aveva suggerito di inserire tra le aree specialistiche il diritto della navigazione e dei trasporti e rimesso alla valutazione del Ministero l'inserimento del diritto all'informazione).
Le predette sentenze del TAR venivano impugnate dinanzi al Consiglio di Stato, che, con sentenza 28 novembre 2017 n. 5575, riuniva gli appelli presentati dal Ministero della giustizia e li respingeva, così confermando le decisioni di primo grado.
In particolare, il giudice di appello ha ritenuto:
- che l'elencazione dei settori, muovendo dalla tradizionale tripartizione (diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo) avesse dilatato ampiamente il primo settore e non avesse, per converso, introdotto nessuna differenziazione nell'ambito degli altri;
- che fosse discutibile l’analitica suddivisione del diritto civile. In sostanza, il giudice di secondo grado ha rilevato l'incoerenza dell’elencazione, anche in ragione dell’impossibilità di ricostruire ovvero comprendere il criterio ordinatore dei settori di specializzazione contenuti nel regolamento, così imponendosi un ripensamento della disciplina “…con l’adozione di parametri che siano il frutto di una scelta di merito, ma che devono rispettare i criteri di effettività, congruità e ragionevolezza.” A seguito dell'annullamento giurisdizionale, il Ministero della giustizia ha provveduto ad emendare il regolamento de quo, adottando il gravato decreto, il quale, oltre ai tre settori principali, ha incluso altri 10 settori di specializzazione, così ora risultando l’elenco: a) diritto civile; b) diritto penale; c) diritto amministrativo; d) diritto del lavoro e della previdenza sociale; e) diritto tributario, doganale e della fiscalità internazionale; f) diritto internazionale; g) diritto dell’Unione europea; h) diritto dei trasporti e della navigazione; i) diritto della concorrenza; l) diritto dell'informazione, della comunicazione digitale e della protezione dei dati personali;
m) diritto della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni; n) tutela dei diritti umani e protezione internazionale; o) diritto dello sport.
Inoltre, il d.m. impugnato ha introdotto una nuova ulteriore ripartizione dei settori
del diritto civile, penale e amministrativo in sottocategorie definite “indirizzi”.
Per quanto di interesse del presente ricorso, per il settore del diritto civile il decreto ha individuato i seguenti indirizzi: a) diritto successorio; b) diritti reali, condominio e locazioni; c) diritto dei contratti; d) diritto della responsabilità civile, della responsabilità professionale e delle assicurazioni; e) diritto agrario; f) diritto commerciale e societario; g) diritto industriale, della proprietà intellettuale e dell'innovazione tecnologica; h) diritto della crisi di impresa e dell'insolvenza; i) diritto dell'esecuzione forzata; l) diritto bancario e dei mercati finanziari; m) diritto dei consumatori.
Ricordato che l’articolo 5 precisa che l’avvocato specialista può chiedere che nel relativo elenco (formato a norma dell’art. 15, comma 1, lett. c), della legge n. 247/2012) siano specificati un massimo di tre indirizzi per ciascun settore, l’associazione istante, in qualità di ente (composto da professori universitari e studiosi della materia de qua) statutariamente preposto alla valorizzazione e alla diffusione dello studio del diritto commerciale, lamenta che, anche dopo le modifiche intervenute con il gravato decreto ministeriale n. 163/2020, non si comprenderebbe il criterio seguito nell'elencazione dei settori e soprattutto nell’ulteriore ripartizione degli indirizzi di specializzazione, emergendo, anche questa volta, una palese incongruità e irragionevolezza delle determinazioni amministrative. Per quanto concerne la posizione della ricorrente, viene, in particolare, contestata l’illegittimità delle disposizioni, nella parte in cui hanno inserito il diritto commerciale nella sottocategoria dei meri “indirizzi” del diritto civile, anziché collocarlo tra i settori primari di specializzazione.
In particolare, con un primo motivo di ricorso, l’istante ha dedotto l'assenza di copertura legislativa della ripartizione individuata dal nuovo articolo 3 del decreto ministeriale n. 144/2015, la violazione e falsa applicazione dell'articolo 9 della legge n. 247/2012, la violazione e falsa applicazione degli articoli 3, 41 e 97 della Costituzione, nonché l'eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza. Ha affermato che il decreto impugnato avrebbe introdotto abusivamente una distinzione tra settori e indirizzi, che non sarebbe prevista a livello di fonte primaria. Infatti, secondo il citato articolo 7 della legge n. 247/2012, il Ministero si sarebbe dovuto limitare a individuare i settori di specializzazione sulla base delle informazioni desumibili dalla concreta esperienza professionale degli avvocati richiedenti e poi semplicemente (e solo) chiarire le modalità per ottenere il titolo di specialista.
Con il secondo motivo di doglianza, l’associazione ricorrente ha poi denunciato l'illogicità della ripartizione individuata dall'articolo 3 del decreto gravato, deducendo il vizio di eccesso di potere, declinato nelle figure sintomatiche della illogicità, irragionevolezza, difetto di istruttoria e di motivazione, contraddittorietà, ingiustizia manifesta. Segnatamente, sotto un primo profilo, sarebbe del tutto illogica l’avvenuta “degradazione” della materia generale del diritto commerciale a mero indirizzo del settore del diritto civile, atteso il carattere “generalista” della materia e la risalente dignità scientifica della stessa, specie se comparata con le altre materie pur inserite nell'elenco dei settori di specializzazione, come più dettagliatamente esposto in ricorso.
Sotto altro aspetto, il decreto sarebbe viziato da carenza istruttoria, dato che sarebbero stati sì inseriti nell’elenco taluni settori che sarebbero caratterizzati da natura trasversale, non riconducibile alle partizioni tradizionali, e, pur tuttavia, di importanza crescente nella pratica professionale (il diritto dei trasporti e della navigazione, il diritto della concorrenza, il diritto dell'informazione e della comunicazione digitale, il diritto della protezione dei dati personali, nonché la tutela dei diritti umani e protezione internazionale); ciò non di meno, il Ministero non avrebbe adeguatamente considerato la specificità della materia commerciale, che pure imponeva di annoverarla tra i settori principali di specializzazione.
Inoltre, l'amministrazione non avrebbe tenuto conto dei criteri indicati nella relazione illustrativa allo schema del decreto ministeriale impugnato, laddove, in accoglimento delle indicazioni del Consiglio di Stato, l'individuazione dei settori sarebbe dovuta avvenire sulla scorta di un duplice criterio, rappresentato, oltre che dall'autonomia disciplinare e tematica, anche dalla giurisdizione o dal rito che caratterizzerebbe la materia.
L’illogicità della ripartizione emergerebbe anche dal fatto che il Ministero non avrebbe per nulla tenuto conto degli ambiti scientifico-disciplinari che già esistono, siccome individuati dal MIUR nel decreto ministeriale 25 novembre 2005, il quale delinea la struttura della classe di laurea magistrale in giurisprudenza e, a tal fine, identifica il diritto commerciale quale insegnamento fondamentale.
A riprova dell’irragionevolezza del decreto ministeriale, l’esponente ha altresì dedotto che i professori di diritto commerciale neppure possono essere componenti delle commissioni che valutano gli avvocati che intendano conseguire la relativa specializzazione, il che, se vale sotto il profilo della legittimazione a ricorrere, disvelerebbe altresì l’erroneità della mancata inclusione del diritto commerciale tra i settori di specializzazione.
Da ultimo, l’istante ha evidenziato che l'assetto delineato dal decreto ministeriale n. 163/2020 non sarebbe conforme alle statuizioni rese dal giudice amministrativo nei precedenti sopra citati.
Sia il TAR che il Consiglio di Stato avevano infatti chiaramente censurato l'assenza di un vero criterio logico alla base della scelta delle materie. Il Consiglio di Stato, in sede consultiva, aveva rilevato l'assenza di motivazione sottostante alla suddivisione delle materie in settori e indirizzi. Il Ministero della giustizia, nella relazione illustrativa, si sarebbe limitato alla mera individuazione di taluni criteri (autonomia disciplinare e specialità della giurisdizione o del rito) senza poi applicarli in modo coerente.
Alla luce delle sopraesposte doglianze, l’esponente, sul presupposto che il decreto non sarebbe ancora aderente alla ratio che presiede la disciplina delle specializzazioni (migliore qualità dei servizi legali e più agevole riconoscimento delle materie in cui il professionista è qualificato), ha concluso per l'annullamento degli atti impugnati.
Si è costituita l'amministrazione intimata, contestando il ricorso e chiedendone il rigetto.
La causa è stata trattenuta in decisione all'udienza pubblica del 25 ottobre 2023.
2. Preliminarmente deve essere confermata la legittimazione a ricorrere dell’associazione ricorrente, giacché il decreto impugnato interseca gli interessi di cui l’ente è portatore, nella parte in cui l’esclusione del diritto commerciale dai settori e l’indicazione dello stesso come mero indirizzo specialistico del diritto civile si riflettono negativamente sullo statuto scientifico e sul rilievo didattico della disciplina. Sotto altro aspetto, effettivamente, per come è congegnato il nuovo regolamento, ai professori universitari associati dell’ente (esponenziale e rappresentativo degli interessi singoli) è impedito esser nominati componenti della commissione che, ai sensi dell’articolo 6, comma 4 del decreto ministeriale 144 del 2015 (come modificato dall’impugnato decreto) valuta l’esperienza dei candidati ai fini del riconoscimento del titolo di specialista: la commissione, infatti, è composta da professori universitari in possesso di documentata qualificazione nei settori di specializzazione, settori dai quali, come si è detto, la materia commerciale è stata esclusa.
Tanto premesso, deve innanzitutto rigettarsi il primo motivo di ricorso in ordine alla mancanza di copertura legislativa della scelta di prevedere, accanto ai settori, anche indirizzi specifici.
Non può negarsi infatti l’esistenza del potere del Ministero di declinare il titolo di specialista secondo modalità e distinzioni peculiari che, tuttavia, siano rispettose dei principi posti dalla fonte primaria ovvero a patto di operare una classificazione logica e coerente con l’(omogenea) importanza dei settori individuati quali materie principali da inserire nell'elenco previsto dall'articolo 3 del decreto.
Il punto è, di qui la palese fondatezza degli ulteriori motivi di ricorso, che la determinazione ministeriale è viziata da evidente irragionevolezza, per le ragioni che si vanno ad esporre.
Il Collegio reputa, in primis, fondate le doglianze, con cui l’esponente lamenta, nell’ambito del secondo motivo di ricorso, l’illogicità della scelta ministeriale, nella parte in cui è stata attribuita maggiore rilevanza a materie di carattere settoriale, senza includere nell’elenco il diritto commerciale, nonostante questo abbia una risalente tradizione scientifica e rappresenti una materia “generalista”, che, a stretto rigore, “contiene” talune delle stesse materie inserite tra i settori di specializzazione (tra questi, il diritto della concorrenza).
Nessuno dubita che queste ultime abbiano acquisito una loro autonoma importanza disciplinare e applicativa, ma ciò non neutralizza la correttezza del proposto argomento ”sineddotico”, né elimina la contraddittorietà di inserire nell’elenco “il particolare” e non “il generale” (cioè il diritto commerciale che ricomprende, anche nella manualistica corrente, il diritto della concorrenza). E tale conclusione, ad avviso del Collegio, resta ferma anche considerando l’importanza sempre crescente assunta dal diritto della concorrenza, che oggi è anche e soprattutto “diritto antitrust” (parzialmente oggetto di giurisdizione amministrativa).
Il diritto dello sport si risolve in una combinazione di elementi di diritto del lavoro (applicato al mondo sportivo) e di diritto civile, oltre a profili di diritto amministrativo (in disparte le questioni tecniche di competenza degli ordinamenti sportivi), e certo non può essere paragonato all’importanza del diritto commerciale. Quanto al diritto della persona, delle relazioni familiari dei minorenni, esso è in effetti una partizione del diritto civile, inclusa nell’elenco in ragione dell’importanza crescente attribuita, pur in maniera commendevole, ai diritti fondamentali e alla tutela dei minori, ma certo anch’essa non comparabile con la materia commerciale, siccome caratterizzata da dignità ed elaborazione scientifica molto più complessa e risalente. Si noti che i predetti settori, in quanto inerenti a materie “minori”, non rientrano nei settori scientifico-disciplinari universitari (se non, parzialmente, la seconda nell’ambito del diritto privato).
Sotto tale ultimo profilo è dunque fondata l’obiezione che il Ministero non abbia neppure tenuto conto dei corsi universitari in giurisprudenza o scienze giuridiche, dai quali già poteva desumersi una scala gerarchica degli insegnamenti che non poteva non essere considerata in sede di individuazione dei settori primari di specializzazione dell’avvocato.
Fondata è altresì la censura di contraddittorietà articolata dall’associazione, la quale osserva che il diritto commerciale, “relegato” tra i meri indirizzi del diritto civile, finisce per essere irragionevolmente equiparato a materie (il diritto industriale, della proprietà intellettuale e dell’innovazione tecnologica, il diritto bancario e dei mercati finanziari, il diritto della crisi dell’impresa e dell’insolvenza) che costituiscono delle partizioni, anche e soprattutto dal punto di vista didattico e scientifico, del diritto commerciale medesimo. Anche sotto tale profilo, appare illogico trattare in modo equivalente la “macro” materia al pari delle sue (pur importanti e dotate di acquisita autonomia didattica e pratica) singole articolazioni.
Si osserva, per altro, che tali “indirizzi” hanno sicuramene la stessa dignità del diritto della concorrenza (come si è visto, anch’esso materia che rientra nel più vasto ambito del diritto commerciale e incluso nell’elenco dei settori di specializzazione) e, pur tuttavia, in entrambi i casi, la materia “generalista” ha subito un trattamento classificatorio errato, essendo stata distinta per difetto da una sua partizione ed equiparata, per altro verso, ad altri ambiti che sono sempre in essa ricompresi.
Dal che la fondatezza della censura con cui l’istante lamenta che il diritto commerciale è stato incluso tra gli indirizzi associato al diritto societario e cioè menzionato assieme a quella che è pur sempre una sua (seppur la più importante) sottomateria.
Anche sotto tale profilo, la scelta amministrativa si rivela illogica, giacché non ha per nulla tenuto conto del principale criterio di catalogazione dei settori e degli indirizzi, che è sicuramente quello di carattere “contenutistico”, il quale impone di graduare l’importanza delle materie principiando da quella “generalista”.
Da quanto sopra deriva anche la fondatezza della censura di difetto di istruttoria, laddove, se, da un lato, per alcune materie tradizionalmente meno rilevanti del diritto commerciale sono state esaminate e valorizzate le specificità che le caratterizzavano (la natura trasversale e l’acquisita importanza nella pratica giuridica), dall’altro lato, un analogo (in verità, molto semplice) approfondimento non è stato condotto dall’amministrazione per il diritto commerciale.
E’ parimenti fondato il motivo di ricorso, con cui si contesta che l’amministrazione non ha correttamente utilizzato gli stessi criteri indicati nella relazione illustrativa allo schema del decreto ministeriale impugnato, laddove l'individuazione dei settori di specializzazione, in aggiunta alle tre tradizionali materie principali (diritto civile, penale e amministrativo), sarebbe dovuta avvenire sulla scorta del duplice criterio costituito, oltre che dall'autonomia disciplinare e tematica, dalla giurisdizione o dal rito che li caratterizza.
Orbene, è agevole rilevare l'autonomia disciplinare e tematica del diritto commerciale, siccome materia di risalente e nobilissima tradizione, al pari dello stesso diritto civile moderno, con il quale il diritto commerciale ha avviato un processo di emancipazione e di successivo dialogo sin dalla seconda metà dell’800 (autonomia affermata dalla dottrina sul piano delle fonti e sul piano del metodo di ricerca) e che ha portato la materia de qua ad assumere un carattere speciale (rispetto al diritto civile) ma non eccezionale rispetto al diritto comune (taluni principi del diritto commerciale, ferma la funzione generale “ordinante” del diritto civile, hanno persino influenzato la riflessione su singoli istituti privatistici: si pensi, a titolo esemplificativo, al fenomeno dell’abuso dello schermo della personalità, al principio della tendenziale stabilità dei deliberati applicabile anche alle delibere degli enti non lucrativi, all’apporto allo studio sull’invalidità dell’atto e del negozio, nonché all’influenza sui rapporti privati di nuove clausole generali in tema di ragionevolezza (cfr. artt. 2501-bis e 2467). Quanto alla giurisdizione ovvero al rito, deve convenirsi con quanto rilevato dalla ricorrente, laddove ha puntualmente evidenziato che le controversie di diritto commerciale sono, per lo più, oggetto della competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa istituite presso i Tribunali e le Corti d'appello.
Si aggiunga la specialità dello stesso rito societario, come introdotto dal decreto legislativo n. 5/2003, che regola gli aspetti processuali della più importante partizione del diritto commerciale.
Va, infine, condivisa la doglianza con cui l’esponente deduce che il nuovo decreto non rispetta le statuizioni rese dal giudice amministrativo, nei precedenti sopra richiamati, con riferimento alla disciplina previgente.
Ed invero, già la Sezione, nella citata sentenza n. 4424/2016, poi confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 5575/2017, aveva censurato l’assenza di un criterio logico alla base della scelta delle materie, rilevando l’asimmetria dei criteri utilizzati, e, conseguentemente, aveva orientato la riedizione del potere verso l’adozione di una disciplina più coerente.
Lo stesso Consiglio di Stato, nel primo parere interlocutorio della Sezione consultiva per gli atti normativi del 18 aprile 2019, aveva dato atto dell’assenza di motivazione della scelta legata alla suddivisione delle materie in settori e in indirizzi, ritenendo che le scelte di inserire le varie materie nei due elenchi “…andrebbero motivate alla luce non solo delle tradizionali partizioni della nostra cultura giuridica ma anche di un’analisi del mercato dei servizi legali che avrebbe aiutato a comprendere le modalità di distinzione tra settori e ambiti e l’inclusione di alcuni ambiti nell’ambito dei settori contenuti nel testo riformato” (Cons. St., Sez. cons., parere interlocutorio 18 aprile 2019, n. 1347). Adempimento che, per quanto sopra esposto, non risulta essere stato posto in essere in sede di riedizione del potere.
Nella relazione illustrativa il Ministero della giustizia non ha fornito ragioni esaustive con riferimento all’assetto delineato, ma, piuttosto, si è limitato alla mera individuazione dei criteri dell’autonomia disciplinare e della specialità della giurisdizione o del rito, senza però poi, come si è visto, applicarli coerentemente.
Il Collegio osserva come, in effetti, la ripartizione neppure consenta di raggiungere gli obiettivi alla base della modifica normativa, anche alla luce delle finalità indicate dalla giurisprudenza e dell’analisi di impatto della regolamentazione (AIR).
In modo condivisibile, la difesa della ricorrente ricorda che nell’AIR si afferma infatti che la specializzazione “è funzionale ad una migliore qualità del servizio legale offerto alla clientela perché consente di individuare le aree di specializzazione e di ridurre conseguentemente i costi di ricerca per i clienti”.
Con riguardo al diritto commerciale, la ripartizione contenuta del decreto gravato non assolve a tali funzioni.
L’indicazione del diritto commerciale come mero “indirizzo” non consente all’avvocato specialista di qualificare correttamente le proprie competenze, posto che la sola specializzazione in “diritto civile” sarebbe generica e non permetterebbe di valorizzare l’anelata specializzazione; per altro verso, l’indicazione di tutte le discipline trattate non sarebbe possibile, considerati il limite dei tre indirizzi previsto dall’articolo 3 del d.m. n. 144/2015 e la classificazione del diritto della concorrenza come settore autonomo.
L’avvocato esperto in (tutto il) diritto commerciale dovrebbe individuare un unico settore di riferimento - e quindi il “diritto civile” -, mentre non potrebbe indicare altro settore e, in particolare, tutti gli indirizzi del diritto commerciale stesso, sul quale pure potrebbe essere qualificato (soprattutto poi nel caso di un avvocato che sia pure docente universitario). Il che pregiudica la ratio sottesa al decreto impugnato che è quella di individuare con maggiore precisione possibile le competenze dei professionisti.
Si aggiunga che per il potenziale cliente è anche poco agevole individuare e selezionare le varie materie, tra loro strettamente connesse (quali per esempio il “diritto commerciale e societario” e il “diritto della crisi di impresa e dell’insolvenza”), che tutte, come detto, refluiscono nell’ambito della “macro” materia commerciale.
3. Per quanto sopra esposto ed in ragione della ricorrenza dei vizi di eccesso di potere sopra scrutinati, il ricorso deve dunque essere accolto, con assorbimento di ogni altra doglianza e conseguente annullamento dell’atto impugnato nei sensi e nei limiti di cui in precedenza.
La particolarità della vicenda e la sussistenza delle condizioni di legge suggeriscono, tuttavia, di compensare interamente le spese di lite tra le parti in causa.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il decreto impugnato nei sensi e nei limiti di cui in parte motiva.
Compensa le spese tra le parti in causa.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.